All’inizio il principato di Nerone veniva ricordato in modo entusiasta dai contemporanei: è il quinquennium Neronis, il quinquennio del buon principe, sullo stile augusteo, forse coadiuvato anche da Seneca. Poi però Nerone allontanò Ottavia, che mal sopportava, per Poppea, di cui era innamorato. Lei sì sposò con Otone in un matrimonio di facciata (per ordine di Nerone), che diventerà imperatore dopo la morte di Nerone. Iniziava così il periodo “buio” di Nerone. Forse sotto l’influenza di Poppea cercò di far assassinare la madre simulando un incidente, ma questa si salvò, e quindi fu costretto a inviare dei soldati a farla fuori: Nerone voleva ingombrarsi dell’ombra pesante di Agrippina, che lo condizionava. Morta Agrippina, nel 62 d.C. Nerone ripudiò Ottavia accusandola di sterilità, per sposare Poppea. Infine la spinse al suicidio. Nello stesso anno morì il prefetto al pretorio Burro (forse avvelenato da Nerone) e fu sostituito da Tigellino, persona senza scrupoli nel macchiarsi di delitti. Divenne ricchissimo e potentissimo. Pompea morì forse attorno al 66 d.C. e Nerone sposò Statilia Messalina.

La dimora degna di un Principe

Quando scoppiò l’incendio di Roma, nel luglio del 64 d.C. Nerone si trovava ad AnzioIl mito ha voluto che fosse lui l’incendiario, ma in realtà probabilmente l’imperatore non aveva alcuna colpa. L’incendio, come narrato dallo stesso Tacito (che di sicuro non era favorevole a Nerone), scaturì probabilmente dal Circo Massimo.

«Seguì un disastro, non si sa se dovuto al caso oppure al dolo del principe (poiché gli storici interpretarono la cosa nell’uno e nell’altro modo. Iniziò in quella parte del circo che confina lungo il Palatino e il Celio, dove il fuoco, scoppiato nelle botteghe che contenevano prodotti altamente infiammabili, divampò subito violento, alimentato dal vento, e avvolse il circo in tutta la sua lunghezza, visto che non esistevano palazzi con recinti o templi cinti con mura o qualcosa che potesse fermare le fiamme. »

TACITO, ANNALI, XV, 39,1-2

Dei 14 quartieri in cui era divisa Roma si salvarono solo le zone periferiche a est e ovest: Capena (la valle tra Celio e Esquilino), EsquilinoAlta Semita (tra la Nomentana e la Salaria) e Trastevere. Infatti già si era sparsa la voce che Nerone avesse appiccato l’incendio. L’imperatore era rientrato precipitosamente da Anzio, dove risiedeva in quel momento, per prestare i primi soccorsi. Anche le 7 coorti di vigili entrarono subito in azione, ma i mezzi dell’epoca erano limitati; non potevano fare molto, a parte radere al suolo gli edifici attigui e cercare così di limitare le fiamme:

« Questi provvedimenti per quanto di carattere popolare cadevano nel vuoto, poiché si era diffusa la voce che proprio nel momento in cui Roma bruciava egli fosse salito sul palcoscenico del suo palazzo e avesse cantato la distruzione di Troia, paragonando il disastro presente alle antiche sventure. »

«Ma non risparmiò neanche il popolo né le mura della patria. Quando un tale, durante una conversazione, citò il verso: Quando sarò morto, bruci pure nel fuoco tutto il mondo! Nerone esclamò: «Al contrario, mentre sono vivo!». E così appunto fece. Infatti, quasi non sopportasse la bruttezza delle case vecchie e i vicoli stretti e tortuosi, fece incendiare Roma, in modo così palese che molti uomini di rango consolare non osarono fermare i loro camerieri sorpresi nelle loro proprietà con stoppa e torce. Alcuni depositi di grano, vicini alla Domus Aurea, dei quali egli desiderava fortemente possedere l’area, furono demoliti con macchine da guerra e poi dati alle fiamme, poiché erano costruiti in pietra. Per sei giorni e sei notti imperversò quel flagello e la plebe fu costretta a cercare asilo all’interno dei monumenti e dei sepolcreti. Allora, oltre un’enorme quantità di caseggiati, arsero nelle fiamme palazzi di antichi comandanti ancora decorati con le spoglie dei nemici e templi edificati per voto e dedicati agli dèi, fin dal tempo dei re e poi durante le guerre puniche e galliche e tutto ciò che di memorabile e insigne era rimasto dai tempi antichi. Contemplando lo spettacolo dell’incendio dall’alto della torre di Mecenate, compiaciuto, come egli stesso diceva, «per la bellezza delle fiamme», cantò La distruzione di Troia, indossando il suo abito di scena. E, per non perdere neanche quest’occasione di arraffare bottini e prede il più possibile, promettendo di provvedere a far rimuovere a sue spese i cadaveri e le macerie, non consentì ad alcuno di avvicinarsi a quanto rimaneva dei propri beni. Con i contributi, non solo quelli che gli offrirono spontaneamente, ma anche quelli richiesti, mandò quasi in rovina cittadini privati e province.»

Tacito, Annali, XV, 39,3; Svetonio, Nerone, 38

Nerone probabilmente fu innocente. Ma fu costretto a dirottare la colpa sui cristiani, una fervente setta ebraica ai suoi occhi, per smentire le dicerie che già circolavano secondo cui era lui l’incendiario.

« Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo »

TACITO, ANNALES, XV, 44

Poco dopo si scoprì una congiura, la cosiddetta congiura dei Pisoni. Si progettava di uccidere Nerone, ma i congiurati vennero scoperti. Uno dei complici, Subrio Flavo, tribuno della guardia pretoriana, fu interrogato. Disse a Nerone che lo aveva cominciato a odiare da quando era diventato l’assassino della madre, della moglie, un auriga, un attore e un incendiario. Ma Subrio Flavo era stato accanto a Nerone durante l’incendio. L’imperatore aveva certamente fatto assassinare la madre e la moglie, era forse un pazzo, ma non uno stupido.

Nerone condannò molti congiurati a morte, costringendo al suicidio anche Seneca e Petronio. Approfittò comunque dell’incendio per costruire un’immensa casa, la domus aurea. La costruzione fu estremamente rapida, considerando che quattro anni dopo l’incendio Nerone morì. La costruzione di questa sfarzosa dimora è da sempre additata come prova della colpevolezza di Nerone. Piuttosto sarebbe da considerare, secondo l’uso romano, un ragionamento “post hoc ergo propter hoc” (“dopo di questo, a causa di questo”), cioè la domus aurea con è la causa ma la conseguenza, l’occasione intravista da Nerone e subito messa in atto. Si narra che l’imperatore, entrato per la prima volta nella dimora, abbia esclamato “finalmente una casa degna di un uomo”:

“Nerone si fece costruire una casa che si estendeva dal Palatino all’Esquilino che chiamò dapprima transitoria e poi, quando la fece ricostruire, perché era stata distrutta da un incendio, aurea. Della sua grandezza e magnificenza basterà dire questo: c’era un atrio in cui era stata eretta una statua colossale di Nerone alta centoventi piedi. Tale era l’ampiezza, che all’interno aveva porticati a tre ordini di colonne, lunghi un miglio; c’era anche un lago artificiale che sembrava un mare, circondato da edifici che formavano come delle città. Inoltre, all’interno c’erano campi, vigne, pascoli, boschi con svariati animali, selvatici e domestici, d’ogni genere. Nelle altre parti, ogni cosa era rivestita d’oro e ornata di gemme e madreperla. Il soffitto delle sale da pranzo era di lastre d’avorio mobili e forate, perché vi si potessero far piovere dall’alto fiori ed essenze. La sala principale era circolare e ruotava su se stessa tutto il giorno e la notte, senza mai fermarsi, come la terra. Nelle sale da bagno scorrevano acque marine e albule. Quando Nerone inaugurò questa casa, alla fine dei lavori, espresse il suo compiacimento, dicendo che «finalmente poteva cominciare ad abitare in modo degno di un uomo».”

Svetonio, Nerone, 31

In seguito alla sua morte, avvenuta nel 68, i terreni furono resi al popolo romano attraverso la costruzione di edifici pubblici: il laghetto venne prosciugato e Vespasiano ci edificò il Colosseo, una parte della domus fu interrata e usata come fondamenta per le terme di Traiano.

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La Domus Aurea
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