« A vent’anni Ottaviano prese il consolato, facendo avanzare minacciosamente le sue legioni verso Roma e inviando quei [soldati] che chiedessero per lui a nome dell’esercito; quando il Senato sembrò esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettando indietro il suo mantello e mostrando l’impugnatura del suo gladio, non esitò a dire nella Curia: “Se non lo farete [console] voi, questa [spada] lo farà”. Per dieci anni fece parte del triumvirato, creato per dare un nuovo ordine alla Repubblica: come suo membro cercò inizialmente di impedire che si iniziassero le proscrizioni, ma quando esse cominciarono si mostrò più spietato degli altri due. […] lui solo si batté in modo ostinato affinché non venisse risparmiato nessuno, arrivando a proscrivere anche C. Toranio, suo tutore, che era stato, inoltre, collega di suo padre come edile. […] più tardi si pentì di questa sua ostinazione e promosse al rango di cavaliere T. Vinio Filopomeno, che sembra avesse nascosto il suo padrone, quando era proscritto»

svetonio, augusto, 26-27

In seguito alla morte di Cesare alle idi di marzo del 44 a.C., Marco Antonio, rimasto unico console, chiese una permutatio provinciarum per l’anno seguente, chiedendo che gli venisse scambiata la Macedonia con la Gallia Cisalpina, ma mantenendo le sue legioni (che erano 5 contro 2). La provincia incombeva dell’Italia, permettendone il controllo, e inoltre era stata assegnata da Cesare al cesaricida Decimo Bruto, sopravvissuto al linciaggio e alla morte solo grazie all’amnistia votata in senato per i congiurati e alla loro fuga da Roma. Antonio si trovava ad assediarlo a Modena quando, iniziato l’anno 43 e terminato il suo consolato, venne dichiarato nemico pubblico dal senato su istigazione di Cicerone, mentre veniva formato un esercito per liberare Bruto, comandato dai consoli (cesariani) Irzio e Pansa. Ottaviano, 19enne, organizzò con l’eredità di Cesare alcune legioni di veterani per appoggiare i consoli e gli venne conferito un imperium proconsulare, secondo solo ai consoli, su proposta di Cicerone, che credeva di manipolarlo. Sconfitto Antonio a Forum Gallorum e Mutina il 14 e 21 aprile, mentre Cicerone pronunciava l’ultima Filippica, Ottaviano si trovò unico al comando, dopo la morte di Irzio in battaglia e due giorni dopo quella di Pansa, ufficialmente per le ferite riportate in battaglia (ma forse con l’aiuto di Ottaviano). Marciò su Roma ed entrato in senato, dopo aver detto in modo ambivalente a Cicerone di “essere l’ultimo dei suoi amici”, si fece eleggere, dietro minaccia dei soldati, console a soli 19 anni, insieme al cugino Quinto Pedio. Cicerone, sconvolto, finirà di lì a poco sulle liste di proscrizione formate dai triumviri Ottaviano Antonio e Lepido, che subito dopo si erano messi d’accordo per spartirsi la repubblica e uccidere gli assassini di Cesare.

Princeps

«Per dieci anni fece parte del triumvirato per la riorganizzazione dello Stato. In esso, per qualche tempo veramente resistette ai colleghi perché non si facessero proscrizioni, ma, una volta iniziate, le esercitò più spietatamente degli altri due. In effetti, mentre quelli, dinanzi a molte personalità, si mostravano spesso arrendevoli alle influenze e alle preghiere, lui solo insistette molto perché non si risparmiasse nessuno, e arrivò a proscrivere il suo tutore Gaio Toranio, che per giunta era stato collega di suo padre Ottavio nella carica di edile. Giulio Saturnino riferisce in più anche questo, che allorché, conclusa la proscrizione, Marco Lepido in Senato giustificava il passato e prospettava una speranza di clemenza per il futuro giacché si era punito abbastanza, lui al contrario dichiarò di aver fissato come limite alle proscrizioni il momento in cui avesse completamente mano libera. Ciò nonostante, in compenso di tanta ostinazione, onorò più tardi con la dignità di cavaliere Tito Vinio Filopèmene, perché si diceva che a suo tempo avesse tenuto nascosto il suo patrono proscritto. Durante l’esercizio di questa stessa magistratura accese molti odii contro di sé. Una volta, mentre teneva un discorso alle truppe – e c’era presente anche una folla di civili – notò che un certo Pinario, cavaliere romano, prendeva furtivamente qualche appunto; allora, ritenendolo un curioso o una spia, lo fece ammazzare seduta stante. A Tedio Afro, console designato, per aver criticato con parole maligne un suo atto, incusse tanta paura con le sue minacce, che quello si buttò giù nel vuoto. Il pretore Quinto Gallio durante la cerimonia del saluto teneva sotto la toga un dittico di tavolette; Augusto sospettò che nascondesse un’arma; ma, non osando sul momento indagare oltre, perché non si trovasse dell’altro, lo fece poco dopo da centurioni e soldati trascinare via dal tribunale e sottoporre a tortura come uno schiavo; non confessò nulla, ma egli lo fece uccidere dopo avergli cavato gli occhi di sua mano. Veramente, egli scrive che Gallio, chiestogli un colloquio, aveva attentato alla sua vita, per cui lo aveva gettato in prigione; poi lo aveva rilasciato interdicendogli però la capitale; e quello era perito per naufragio o per un attacco di pirati. Ricevette la potestà tribunizia a vita: in essa, una prima e una seconda volta si aggregò per cinque anni un collega. Gli attribuirono anche la sovrintendenza ai costumi e alle leggi, anch’essa a vita. Con questa prerogativa, anche senza la carica di censore, fece però tre volte il censimento della popolazione, il primo e il terzo con un collega, il secondo da solo.»

SVETONIO, AUGUSTO, 27

Nel 33 a.C. terminava il triumvirato e Ottaviano, con un colpo di scena, annunciò pubblicamente di rinunciare ai suoi poteri. Nel 32 entrarono in carica due consoli antoniani, Gneo Domizio Enobarbo e Gaio Sosio. Ottaviano si presentò nel foro con una guardia armata, entrando in senato e dicendo che poteva dimostrare i piani eversivi di Antonio. I senatori filoantoniani fuggirono da lui, mentre Ottaviano aveva carenza di denaro e per questo dovette imporre imposte straordinarie, creando malcontenti, mentre ad Antonio non mancava denaro e aveva una flotta migliore. Ma ancora una volta il tentennamento gli fu fatale; Ottaviano poté mettere insieme le forze e dichiarare guerra a Cleopatra. Lo scontro finale sarebbe avvenuto ad Azio nel 31 a.C., dove non sappiamo perché la regina tolemaica si diede alla fuga, seguita da Antonio.

“Due volte Augusto pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.”

SVETONIO, AUGUSTO, 28

Ormai per loro era la fine: tutte le legioni avevano disertato a favore del nipote di Cesare, che nel 30 a.C. prese anche Alessandria. Cleopatra e Antonio si trovavano in due palazzi differenti (la regina era nel tempio di Iside, mentre Antonio vagava nel palazzo e la incolpava della fuga a Azio) e mandò a dire al secondo che si era suicidata. Ma mentre Antonio ancora una volta le credette e si suicidò, Cleopatra attendeva. Tuttavia il romano non era morto e fu infine tirato con delle funi da lei e poco dopo spirò, contento di averla vista un’ultima volta. Cleopatra credeva forse di circuire anche Ottaviano, forse di salvare i figli, ma il nipote di Cesare era di tutt’altra pasta. Cleopatra pertanto decise di togliersi anche lei la vita, forse con un morso d’aspide come riporta Plutarco.

Rimasto solo, Ottaviano rimise tutti i poteri, ritornando formalmente ad essere un privato cittadino. Dal 30 al 23 a.C. ricoprì ininterrottamente il consolato, motivo per cui i senatori decisero, dopo il suo rifiuto a prendere il consolato o la dittatura perpetua, a trovare una soluzione. Nel 27 a.C. il senato gli attribuì il titolo di Augustus. Sommati a una serie di poteri straordinari (l’imperium proconsulare maius, ossia il comando militare assoluto, il titolo di princeps senatus, la possibilità di parlare per primo in senato), ottenne sostanzialmente il potere assoluto sebbene da privato cittadino (anche se gli veniva dato quasi annualmente il consolato). Nel 23 a.C. ricevette l’ultimo potere che legittimava la sua “superiorità”: una tribunicia potestas a vita, che gli permetteva di essere sacro e inviolabile come i tribuni della plebe e gli concedeva la possibilità di porre il veto a qualunque azione del senato. Inoltre, alla morte di Lepido assunse il titolo di pontefice massimo, in modo da essere la massima autorità religiosa. Grazie a questi poteri potè smettere di assumere il consolato annuale, essendo ormai divenuto formalmente superiore ai suoi colleghi. Infine nel 2 a.C. ottenne il titolo di pater patriae.

«Augusto assunse cariche ed onori anche prima del tempo legale, alcune poi nuove ed a vita. Si pigliò il consolato a diciannove anni, avvicinando a Roma minacciosamente le sue legioni e inviando chi lo chiedesse per lui a nome dell’esercito; e poiché il Senato si mostrava esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettò indietro il mantello, mostrando l’impugnatura della spada, e non esitò a dire in piena Curia: «Lo farà questa, se non lo farete voi». Esercitò il secondo consolato dopo nove anni, e il terzo con l’intervallo di un solo anno; i successivi, fino all’undicesimo, tutti di séguito. Dopo averne rifiutati molti che gli venivano conferiti, chiese egli stesso, dopo un lungo intervallo – erano trascorsi diciassette anni – il dodicesimo, e, due anni dopo, il tredicesimo: voleva accompagnare nel Foro rivestito della suprema magistratura i due figli Gaio e Lucio per il loro tirocinio, ciascuno a suo turno. I cinque consolati centrali – dal sesto al dodicesimo – li esercitò per tutto l’anno, gli altri, invece, o per nove mesi, o per sei o per quattro o per tre; il secondo, poi, per pochissime ore: il primo di gennaio sedette per un po’ sul seggio curule dinanzi al tempo di Giove Capitolino, poi rinunciò alla carica, mettendo un altro al suo posto. Non tutti i consolati inaugurò a Roma: il quarto in Asia, il quinto nell’isola di Samo, l’ottavo e il nono a Tarragona.»

SVETONIO, AUGUSTO, 26

È innegabile che l’opera politica di Ottaviano si configuri come un tentativo, all’apparenza, di preservare le istituzioni e i mores repubblicani. Tuttavia nella pratica il princeps accettò e accentuò l’accentramento dei poteri (l’imperium proconsulare maius, la tribunicia potestas, il pontificato massimo etc.), rifiutando il consolato a vita e la dittatura ma di fatto tenendo i poteri di un dittatore. Tiberio, suo successore, accetterà malvolentieri il potere, nonostante quanto ci dicano gli storici filosenatori a lui avversi, ma nei fatti non poté fare altro che accettare la nuova forma statale, necessaria ad amministrare un impero sviluppato su tre continenti e che altrimenti avrebbe condotto – in quel periodo storico – a nuove guerre civili.⠀


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La fine della repubblica
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