Nel 293 Diocleziano predispose un’accurata riforma amministrativa e statale dell’impero romano: diviso in province raggruppate in diocesi affidate a prefetti, separava le cariche politiche e militari, raddoppiava le province e infine suddivideva l’impero tra due imperatori, chiamati Augusti, e due vice, chiamati Cesari. Ognuno di questi aveva la propria amministrazione ed esercito, i Cesari potevano fare esperienza finché non sarebbero entrati in carica al posto degli Augusti. Per mettere alla prova il sistema nel 305 Diocleziano, primo nella storia, abdicò, e costrinse Massimiano a fare lo stesso.

Un sistema quasi perfetto

Dopo un cinquantennio di anarchia militare (235-284 d.C.), come l’hanno definita gli storici, Diocleziano diventava imperatore, ponendo fine a l’instabilità precedente. Nato in Dalmazia nel 245 Gaio Diocle aveva scalato le gerarchie dell’esercito, come molti altri suoi colleghi, divenendo infine imperatore nel 284. Ben presto si rese conto di quanto fosse difficile tenere unito l’impero del suo tempo, per cui associò a sé come Augusto un vecchio compagno d’armi, Massimiano, a cui nel 286 affidò la parte occidentale dell’impero, tenendo per sé l’oriente.

Nel frattempo, già dal 287, Diocleziano e Massimiano avevano assunto i soprannomi rispettivamente di Iovio ed Erculio, a denotare sia la superiorità del dalmata sul suo collega, sia il tentativo di instaurare un’aura di sacralità nell’imperatore romano. Il culto del sole, introdotto da poco da Aureliano, rimase diffuso, ma passò in secondo piano. Ed è proprio in questo periodo infatti che viene introdotto il rito orientale della proskynesis, ossia della prostrazione di fronte l’imperatore, seguendo un ordo salutationis. L’adoratio dell’imperatore seguiva infatti un rituale preciso; anche ciò che lo circondava divenne sacro: l’assemblea il sacrum concistorum e la camera da letto il sacrum cubiculum, con un addetto che era tra i massimi ministri dell’impero tardoantico, il praepositus sacri cubiculi, primo funzionario nella Notitia Dignitatum dopo i prefetti al pretorio e i magistri militum.

Dopo un incontro avvenuto a Milano nel 290-91, mentre la città diveniva sede sempre più stabile di Massimiano (con Diocleziano che si stabiliva principalmente a Nicomedia in Asia Minore), nel 293 Diocleziano decise di suddividere ulteriormente l’impero, stabilendo una regola che secondo lui avrebbe garantito la sicurezza di successione, evitando guerre civili e proteggendo meglio i confini: la tetrarchia. Ogni Augusto avrebbe scelto un Cesare, a lui subordinato, che gli sarebbe subentrato nella carica, divenendo Augusto e scegliendo un nuovo Cesare e così via. I primi due Cesari sarebbero stati Galerio per Diocleziano e Costanzo Cloro per Massimiano, cui vennero affidate anche alcune regioni dei due Augusti, per “prepararli” all’amministrazione dell’impero.

Di conseguenza l’intero assetto amministrativo provinciale venne riorganizzato in base alle nuove esigenze: le province vennero in larga parte sdoppiate, divenendo più piccole, e anche le cariche politiche e militari vennero divise, con i praesides (già introdotti tra il finire del II e il principio del III secolo: aumentando le cariche svolte da cavalieri si creò questa figura “generica”) a reggere l’amministrazione e i duces a comandare le forze militari, seguendo l’idea che così sarebbe stato più difficile innescare una guerra civile. Inoltre le province furono raggruppate in diocesi, in numero di 12, rette da vicari dei prefetti al pretorio (che dopo Costantino diventeranno cariche puramente civili); l’Italia stessa venne equiparata al rango di provincia, perdendo i precedenti privilegi che gli concedeva in precedenza lo ius italicum, unificando anche la tassazione all’interno dell’impero.

L’Italia faceva parte della diocesi Italiciana. A differenza delle altre ebbe due vicarii, uno a Milano, con controllo delle province di funzione militare, come la Rezia e il Norico e l’annona militare, e uno a Roma, con controllo sul sud Italia e le isole. Infatti l’Italia del nord era detta annonaria perché doveva fornire l’annona militare, cosa cui era esclusa quella meridionale, detta suburbicaria, che invece doveva rifornire la città di Roma. Da questa divisione trasse vantaggio la città di Milano, che crebbe esponenzialmente, venendo costruite nuove mura, il palazzo imperiale, terme, anfiteatro, circo e dimore sfarzose.

Riorganizzazione militare

La moltiplicazione delle province e delle relative funzioni amministrative e militari, con la creazione di quattro corti imperiali, costrinse Diocleziano a suddividere i reparti militari e dare maggiore continuità alle vessillazioni create tra la fine del II secolo e tutto il III, che divennero stabili. Furono create anche nuove legioni, di cui alcune sappiamo avevano l’organico delle legioni del principato. Dunque la progressiva frammentazione dell’esercito in reparti più piccoli continua nel IV secolo, specialmente da Costantino in poi, mentre alcuni reparti come i successivi limitanei sono lievemente più grandi. Tuttavia la tendenza alla frammentazione fa sì che nel giro di alcuni decenni le legioni saranno formate da non più di 2.000 effettivi, contro i circa 5-6.000 precedenti.

L’esercito, che faceva ora affidamento su reparti molto più variegati e specializzati (e molti più ausiliari e truppe a cavallo, anche pesanti), venne disposto principalmente lungo le frontiere, rafforzate con la creazione di forti e fortini militari, come un muro che impedisse ai nemici di entrare. Anche in oriente e in Africa vennero creati forti nel deserto, con strade che li collegavano. Zosimo era convinto che questa idea fosse quella giusta, al contrario di Costantino che stabilì parte dell’esercito (comitatense) nelle città di frontiera, sguarnendo i confini:

« Queste misure di sicurezza vennero meno con Costantino, che tolse la maggior parte dei soldati dalle frontiere e li insediò nelle città che non avevano bisogno di protezione; privò dei soccorsi quelli che erano minacciati dai barbari e arrecò alle città tranquille i danni provocati dai soldati: perciò ormai moltissime risultano deserte. Inoltre lasciò rammollire i soldati, che frequentavano i teatri e si abbandonavano a dissolutezze: in una parola fu lui a gettare il seme, a causare la rovina dello Stato che continua sino ai giorni nostri. »

Zosimo, Storia nuova, II, 34,2

Zosimo tuttavia era un autore pagano, che cercava di screditare Costantino; Lattanzio, che invece era cristiano, sostiene nel suo De mortis persecutorum che la causa del principio dei mali fu proprio Diocleziano, che avrebbe quadruplicato l’esercito, rendendo le spese insostenibili. Anche tale assunzione è falsa, poichè stime moderne hanno stimato in circa 450.000 effettivi l’esercito della tetrarchia (con stime ottimistiche di 600.000 per l’esercito del periodo), quindi molto lontano da una quadruplicazione, poiché l’esercito precedente contava proprio all’incirca 425-450.000 effettivi.

Una quadruplicazione sarebbe stata impossibile sia a livello fiscale (tanto nell’annona quanto nel pagamento) sia a livello demografico. Lo storico bizantino Giovanni Lido, che scrive nel VI secolo d.C. (all’epoca di Giustiniano) scrive che l’esercito contava circa 435.000 uomini (389.704 di terra e 45.562 di marina), una cifra talmente precisa e simile alle stime moderne che si suppone sia stata tratta dagli archivi ufficiali. Diocleziano impose anche che i figli seguissero il lavoro paterno (e quindi i figli dei soldati sarebbero stati anche loro soldati) e per ovviare alla carenza di reclute impose il reclutamento forzato, il dilectus, tra i coloni dei proprietari terrieri. I quali tuttavia spesso non volevano privarsene e per questo potevano sostituire la recluta con una tassa, l’aurum tironicum, che serviva dunque spesso a reclutare dei barbari al loro posto. Anche i romani stessi cercavano di scampare alla coscrizione fuggendo o infliggendosi automutilazioni.

In sostanza, per quanto l’esercito del tardo III secolo (e ancora di più quello post-costantiniano) si discostasse profondamente da quello del principato, ponendo a compimento una serie di trasformazioni avvenute tra II e III secolo, si dimostrò altamente efficiente: nel 298 il Cesare Galerio riuscì a lanciare una vittoriosa campagna contro la Persia. Dopo la vittoria di Satala i romani dilagarono in Mesopotamia, che tornò in larga parte sotto il dominio romano; i persiani furono costretti a siglare una pace umiliante, dopo la cattura di Ctesifonte e di un larghissimo bottino

L’editto dei prezzi e le persecuzioni religiose

Uno degli scopi di Diocleziano era quello di riportare stabilità economica, rivalutando la moneta argentea, creandone una simile al denario neroniano per peso (nel III secolo la moneta era arrivata ad essere solo bagnata nell’argento e Aureliano era riuscito a riportare l’argento nella moneta al 5%: infatti le sue monete segnavano la scritta XX I, ossia per venti parti di metallo una di argento).

L’editto dei prezzi

Tuttavia l’effetto fu contrario alle intenzioni, portando a una drammatica inflazione, con il prezzo dell’argento che saliva, spingendo infine l’imperatore a promulgare un edictum de pretiis nel 301 d.C., dove l’imperatore stabiliva pedissequamente il prezzo di ogni merce. Ma neanche questo ebbe effetto, favorendo il contrabbando e finendo rapidamente in disuso. La questione monetaria sarà risolta solo da Costantino, che adotterà la moneta aurea come moneta di riferimento, il nuovo solidus, lasciando libero il prezzo dell’oro: la situazione si stabilizzerà a scapito dei piccoli consumi.

Altro aspetto della politica diocleziana furono le persecuzioni religiose nei confronti dei cristiani, ritenuti un pericolo per l’ordine e la stabilità dell’impero. Dietro il fervore di Diocleziano c’era probabilmente Galerio, fortemente anticristiano, e il cui peso politico era molto aumentato dopo la vittoriosa campagna persiana. Dal 24 febbraio del 303 venne instaurata una feroce persecuzione anticristiana, terminata solo da Galerio nel 311 (riconoscendo che era impossibile fermare il cristianesimo, poiché sembravano giovare delle persecuzioni); i cristiani furono interdetti dai pubblici uffici e perseguitati se non avessero rinnegato la loro religione. I tetrarchi affermavano infatti che la loro figura oramai divina non fosse conciliabile con il cristianesimo, portatore di divisioni e contrapposizioni sociali.

Costantino

Sul finire del 303 Diocleziano visitò Roma con Massimiano, per festeggiare i suoi vent’anni di governo, i vicennalia, e il trionfo sui persiani, ma non restò particolarmente entusiasta della città, che secondo lui non lo accolse con i dovuti onori divini. Dopo aver visitato anche le nuove grandi terme a lui dedicate (le più grandi mai costruite), decise di andare via dall’Urbe. Nell’anno seguente si ammalò e si rifugiò a lungo nel suo palazzo a Nicomedia; molti lo credettero morto, ma infine il primo gennaio del 305 riapparve e dichiarò che avrebbe abbandonato la carica di imperatore davanti una statua di Giove a poche miglia da Nicomedia, nei pressi della quale era stato acclamato imperatore circa vent’anni prima. Costrinse anche Massimiano a fare lo stesso, anche se non era della stessa idea. Il 2 maggio dello stesso anno dopo una lunga cerimonia Diocleziano rimise la porpora e Massimiano fece lo stesso; Galerio e Costanzo Cloro divennero Augusti, con rispettivamente Cesari Massimino Daia e Severo. Diocleziano si ritirò nella sua villa-fortezza di Spalato, nelle sue terre natali.

Quando però, alla morte di Costanzo Cloro, avvenuta nel luglio dell’anno seguente, le truppe britanniche acclamarono il figlio Costantino imperatore, seguendo un’usanza consolidata nel III secolo, si ruppe il sistema della tetrarchia. In Italia Massenzio, figlio di Massimiano, costretto ad abdicare insieme a Diocleziano, decise di comprare l’esercito e farsi acclamare anch’egli imperatore. Tuttavia Costantino riuscì a mantenere una parvenza di legalità e ottenere l’appoggio di Massimiano e quindi di Diocleziano, che non riconobbero, in seguito agli accordi di Carnuntum del 308, Costantino come Cesare e Massenzio come usurpatore.

Costantino

Dopo essersi liberato del suocero Massimiano (aveva infatti sposato Fausta, sorella di Massenzio) e una lunga marcia e alcune battaglie vittoriose, tra cui Torino e Verona, Costantino giunse alle porte di Roma, dove Massenzio aveva deciso di aspettarlo. Con ogni probabilità quest’ultimo aveva un numero di forze maggiori, anche se i numeri forniti da Zosimo appaiono esagerati (90.000 fanti e 8.000 cavalieri per Costantino; 170.000 fanti e 18.000 cavalieri per Massenzio, tra i quali ben 80.000 italici); sembrerebbe più attendibile la stima dei Panegyrici latini, che racconta di 40.000 uomini per Costantino e 100.000 per Massenzio. In ogni caso Costantino partiva numericamente svantaggiato.

Secondo Lattanzio Costantino ebbe una visione in cui Cristo lo esortava ad apporre un segno sugli scudi dei propri soldati, forse uno staurogramma, ossia una croce latina con la parte superiore cerchiata come una P, forse il simbolo di Cristo, il chi-rho, una XP incrociata. Eusebio riporta due versioni. La prima, contenuta nella Storia ecclesiastica, afferma esplicitamente che il dio cristiano abbia aiutato Costantino, ma non menziona nessuna visione. Nella Vita di Costantino Eusebio racconta che Costantino stava marciando col suo esercito quando, alzando lo sguardo verso il sole, vide una croce di luce e sotto di essa la frase greca “eν tουτω nικα”, reso in latino come in hoc signo vinces, ossia “con questo segno vincerai”.

Inizialmente insicuro del significato, Costantino ebbe nella notte un sogno nel quale Cristo gli spiegava di usare il segno della croce (lo stataurogramma o il cristogramma) contro i suoi nemici. Eusebio poi descrive il labarum, lo stendardo usato da Costantino (e poi divenuta l’insegna imperiale romana) nella guerra civile contro Licinio, recante il segno ‘chi-rho‘ (le prime due lettere di Cristo in greco).

Massenzio dispose i suoi soldati nei pressi di Saxa Rubra con il Tevere alle spalle e fece costruire un ponte di legno alle sue spalle. Probabilmente era convinto che con il fiume alle spalle avrebbero combattuto con più furore (secondo Nazario i soldati dell’ultima fila avevano i piedi nell’acqua; con ogni probabilità Massenzio dubitava delle fedeltà di molti e in questo modo li costrinse a combattere), e che la località poco pianeggiante avrebbe sfavorito la cavalleria del suo rivale ma non fu così. Costantino attaccò furiosamente i fianchi di Massenzio, guidando personalmente la cavalleria (secondo Nazario indossava un’armatura, uno scudo e un elmo dorato) mettendoli in fuga, dopodiché attaccò lateralmente la fanteria. Quest’ultima andò in rotta e rimasero a tenere il campo i soli pretoriani, che furono trucidati (Costantino ne sciolse il corpo per vendicarsi e non furono più ricostruiti); pare che i loro corpi furono ritrovati esattamente sul posto in cui avevano combattuto. Massenzio, in fuga, finì annegato nel Tevere poiché il ponte non resse il peso di tanti uomini in fuga e crollò.

Costantino non rimase a lungo a Roma. Il senato comunque gli dedicò un arco di trionfo, attualmente di fronte al Colosseo. Tuttavia sull’arco, fatto con ampio materiale di recupero, non compare mai nessun simbolo cristiano, nemmeno sugli scudi dei soldati di Costantino.

Le prime avvisaglie del cambiamento

L’imperatore vietò i sacrifici e proibì la crocifissione. Uccise i parenti di Massenzio e sciolse la guardia pretoria senza più riformala. Al suo posto vennero istituite le scholae palatinae, fatte di molti elementi germanici. Al contempo diede il via a un rinnovamento dell’esercito, affidandolo a un magister militum (per la fanteria) e un magister equitum (per la cavalleria). A partire da lui si comincerà a distinguere anche tra truppe di frontiera (limitanei) e di “movimento” (comitatensi). Infine immise molti barbari nell’esercito (in primis il re alemanno Croco, che lo aveva appoggiato) e anche nei suoi comandi.

Costantino Licinio, i due nuovi Augusti, si incontrarono a Milano nel 313. Qui decisero congiuntamente di terminare ogni persecuzione (Massimino Daia aveva ripreso a metterle in atto) con il celeberrimo editto di Milano:

« Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità. »

LATTANZIO, DE MORTIBUS PERSECUTORUM, XLVIII

Le monete coniate da Costantino forniscono indirettamente notizie sull’atteggiamento pubblico di Costantino verso i culti religiosi. Quando ancora ricopriva il ruolo di Cesare, alcune emissioni si inserirono nel classico filone della Tetrarchia, con dediche «al Genio del Popolo Romano»

Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di Ponte Milvio le zecche orientali  continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore»; nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali continuarono a coniare monete dedicate «al Sole invitto compagno» e, in alcuni casi anche «a Marte salvatore» e «a Marte Protettore della Patria».

Verso il 319 la maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la legenda «Liete vittorie al principe perpetuo». E’ conosciuto un medaglione d’argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l’elmo piumato dell’imperatore, coniato a Pavia nel 315. Solo dopo la vittoria su Licinio comparve la tipologia con il labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente, simbolo appunto di Licinio, e simultaneamente scomparirono del tutto dalle monete sia le immagini del sole invitto sia la corona radiata. Nel 326 apparve infine il diadema, simbolo monarchico di derivazione ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo sguardo rivolto in alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il contatto privilegiato tra l’imperatore e la divinità.

Costantino aveva associato inizialmente suo figlio Crispo come successore, ma venne coinvolto in una situazione poco chiara con la matrigna Fausta e fatto giustiziare dal padre. Rimanevano altri tre figli avuti da una seconda relazione, Costantino II, Costanzo II e Costante. Quando l’imperatore morì nel maggio del 337 e si fece battezzare in punto di morte, non solo lasciava una forte impronta cristiana allo stato, ma lo divideva tra i suoi tre figli come cosa privata, facendo scomparire ogni speranza di tetrarchia. L’impero sarebbe divenuto un potere sempre più assoluto e divino, il cui apice era Cesare, posto lì per grazia divina.

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La fine della tetrarchia
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