Cause ed effetti di lungo periodo

I primi scricchiolii nella struttura imperiale si avvertono all’epoca di Marco Aurelio (161-180 d.C.), quando iniziano i primi attacchi barbarici. Tuttavia la frontiera era sempre stata soggetta ad attacchi e incursioni reciproche, sia da parte dei romani che dei barbari, sia sul Reno che sul Danubio. Su quest’ultimo Traiano era poi passato all’offensiva dopo le razzie daciche sotto Domiziano, sottomettendo la Dacia e incamerando un’enorme quantità d’oro (e probabilmente Marco Aurelio avrebbe voluto fare lo stesso creando la provincia di Marcomannia, ma Commodo concordò subito la pace e tornò a Roma).

Gli attacchi di quadi e marcomanni erano stati infatti agevolati dalla carenza di truppe sul confine: dapprima queste erano impegnate nelle campagne partiche di Lucio Vero, che si conclusero con un trionfo romano e la presa di Ctesifonte, ma al ritorno portarono con sè la peste antonina, contratta a Seleucia sul Tigri, l’antica capitale del regno dei diadochi. Gli studiosi moderni hanno stabilito che probabilmente non si trattò di peste, bensì del ben peggiore vaiolo. L’epidemia, già terribile di per sè, si diffuse rapidamente in tutto l’impero tramite le numerose vexillationes e legioni che erano state prelevate in occidente per l’attacco ai parti e che dopo la vittoria erano tornate indietro: non solo tutto l’impero venne afflitto dalla pestilenza (che si stima abbia ucciso un quarto dei suoi abitanti), ma vennero colpiti in primis i reparti militari che precedentemente erano rimasti sguarniti.

L’anarchia militare e il IV secolo

Nonostante dunque la vittoria in oriente e poi di Marco Aurelio contro i barbari, l’impero si trovava in una situazione traballante; alla morte di Commodo scoppiò una nuova guerra civile, che portò Settimio Severo al potere (nel 193) , il quale aumentò ancora l’importanza dell’esercito, reclutando tre nuove legioni e raddoppiando gli effettivi dei pretoriani, le cui coorti furono riformate con legionari pannonici. Con la morte di Alessandro Severo, nel 235, si apre un periodo di un cinquantennio di crisi, chiamato anarchia militare: l’esercito diventa il perno del potere imperiale (ancora più di prima) e diversi imperatori, specialmente a partire dal 268, ascendono alla porpora facendo carriera nei ranghi. Gallieno proibirà anche ai senatori di comandare legioni, d’ora in poi comandate da cavalieri (come le tre legioni partiche di Settimio Severo).

Tuttavia l’importanza acquisita dal rango equestre nel III secolo (secondo le disposizioni di Settimio Severo i centurioni più anziani erano cooptati automaticamente nell’ordine dei cavalieri) verrà interrotta dalla riorganizzazione imperiale sotto Costantino, che crea una serie di nuovi uffici (magister officiorum, il quaestor sacri palatii etc.) e sdoppia il senato, creando quello di Costantinopoli, in cui vengono cooptati molti cavalieri: paradossalmente i cavalieri, che avevano acquisito importanza spariscono, per diventare tutti senatori e tra questi, per distinguere i più illustri, viene creato il rango di vir illustris. Le cariche civili e militari vennero infine separate: i senatori tenevano quelle civili mentre quelle militari erano tenute da soldati di professione, che sempre più frequentemente erano barbari.

Infine, in età costantiniana e dei suoi successori, l’esercito viene diviso tra limitanei (truppe sul confine) e comitatensi (le truppe di “movimento” dell’imperatore) e cominciano ad essere reclutati un numero maggiore di barbari (dopo l’editto di Caracalla, nel 212 d.C., tutti gli abitanti dell’impero sono cittadini: forse proprio una mossa per recuperare imposte dopo il disastro della peste antonina; già Cassio Dione suggeriva che questa fosse la motivazione), mentre molti altri, già dal III secolo, vengono fatti entrare e gli viene data terra da coltivare in qualità di coloni e inquadrati come laeti: liberi, ma barbari. E’ già Probo, alla fine del III secolo, ad ammettere che i barbari sono fondamentali per l’impero:

« Ormai tutti i barbari arano per voi, sono al servizio e combattono contro le tribù dell’interno […]. Le terre di Gallia sono arate dai buoi dei barbari, i gioghi catturati offrono il collo ai nostri agricoltori; le greggi di diversi popoli pascolano per nutrire noi, i cavalli si incrociano con i nostri, i granai sono pieni di frumento barbarico. »

Historia Augusta, Probus, 15



La svolta: Adrianopoli

Nel 376, tredici anni dopo la morte di Giuliano e la pace sfavorevole concordata da Gioviano, l’imperatore Valente si trovava ad Antiochia, pronto a preparare la sua campagna contro i persiani, forse anche per acquisire maggiore prestigio del nipote Graziano che si stava distinguendo contro i barbari in occidente. L’impero era ormai diviso in due fin dall’elevazione alla porpora di Valentiniano, padre di Graziano, nel 364 e tale resterà; anche se si attribuisce a Teodosio la divisione formale, tra il 364 e il 395 – anno della morte di Teodosio – l’impero fu unito solo nel suo ultimo anno. Infatti Valentiano, scelto come imperatore, pronunciò questo discorso:

« Pochi momenti fa, o miei compagni soldati, era in vostro potere di lasciarmi nell’oscurità di una condizione privata. Giudicando dalla testimonianza della passata mia vita, che io meritassi di regnare, mi avete posto sul trono. Adesso è mio dovere di provvedere alla salute ed al vantaggio della Repubblica. Il peso dell’Universo è troppo grande, senza dubbio, per le mani d’un debol mortale. Io so quali sono i limiti delle mie forze e l’incertezza della mia vita; e lungi dallo sfuggire, io sono ansioso di sollecitare l’aiuto di un degno collega. Ma dove la discordia può esser fatale, la scelta di un fedele amico richiede una matura e seria deliberazione. Di questo io avrò cura. La vostra condotta sia fedele e costante. Ritiratevi ai vostri quartieri; rinfrescate gli spiriti ed i corpi; ed attendete il solito donativo in occasione dell’innalzamento al trono d’un nuovo Imperatore. »

Ammiano Marcellino, XXVI, 2.3

Valente voleva dunque mostrare la sua importanza e supremazia sui nipoti Graziano e Valentiano II, anch’essi imperatori, con una campagna contro i persiani, per emulare forse la vittoriosa campagna di Galerio di meno di un secolo prima, quando giunse la notizia che l’intero popolo dei goti si era riversato in massa sul Danubio, pressato dagli unni, chiedendo asilo all’impero. A Valente la notizia sembrò fin da subito eccellente: permetteva di mettere nuovi uomini nei campi, spesso deserti e in rovina per le continue devastazioni, e reclutarne altri nella sua campagna contro i persiani; diede dunque l’ordine di farli entrare e stabilire in Tracia.

Dall’accoglienza alla rivolta

Sul Danubio non era presente alcun ponte: l’unico era quello costruito da Traiano che non esisteva più. Perciò i romani organizzarono un imponente ponte di barche, con segretari addetti alla registrazione dei nuovi immigrati sulla riva romana del Danubio. Tuttavia i romani si accorsero ben presto che il numero dei goti non accennava a diminuire: si era sparsa la voce che i romani avevano aperte le frontiere e continuavano ad affluire nuovi profughi e rifugiati, mentre i romani non riuscivano più a registrare l’enorme quantità di persone che arrivava. Infine gli ufficiali romani si videro costretti a chiudere l’ingresso. Le armi dei barbari sarebbero dovute essere confiscate, ma molti goti furono fatti passare con le loro armi corrompendo gli ufficiali romani. I romani cominciarono a scortare i barbari all’interno dell’impero.

Ma i goti e gli altri barbari erano troppi, per cui praticamente tutti i limitanei della zona furono costretti ad accompagnarli, lasciando sguarnito il fiume, che venne attraversato da altre bande e tribù, che cominciarono a creare scompiglio nelle campagne. Nel frattempo si era creato un enorme campo profughi, in cui gli ufficiali romani, comandati dal dux Massimino e dal comes Lupicino, avevano fiutato l’affare e si erano messi a vendere le razioni di cibo ai goti che erano state predisposte per i goti stessi. Molti, come racconta Ammiano Marcellino, furono costretti a vendere perfino i propri figli e non ci volle molto prima che giunsero anche mercanti di schiavi. I soldati romani, non da meno, si presero in questo modo molto spesso almeno uno schiavo a testa: in tutta la Tracia c’erano ormai moltissimi schiavi goti.

Alla fine i romani ripresero la marcia e dopo diverse difficoltà i goti giunsero a Marcianopoli, accampandosi fuori le mura, esausti. Molti pensavano che sarebbero stati accolti in città ma non era il piano dei romani. Vuoi per disorganizzazione, vuoi per incompetenza, vuoi per latrocinio, Lupicino, che era a capo delle operazioni, si chiuse a banchettare con i capi goti in città mentre fuori i goti si ribellavano e sterminavano i soldati romani che li accompagnavano. L’inetto Lupicino allora, credette alle false promesse dei capi (in primis un tale Fritigerno, che aveva assunto il comando, se così si può dire, dei barbari) che solo loro potevano calmare i goti e li lasciò incautamente andare.

Da allora, per quasi due anni, i goti non fecero altro che mettere a ferro e a fuoco la Tracia. Si potevano perfino vedere dalle mura di Costantinopoli; nel frattempo dal Danubio continuavano ad affluire nuovi profughi che ingrossavano le file barbare. Solo allora l’imperatore Valente decise di partire da Antiochia e intervenire, mentre da occidente Graziano, suo nipote, accorreva in ritardo dopo aver dovuto domare gli alemanni. Per non sembrare da meno del neanche ventenne nipote quella mattina Valente aveva deciso di attaccare senza attendere i rinforzi. Insieme le forze romane avrebbero schiacciato senza difficoltà i barbari.

La battaglia di Adrianopoli

Alla fine Valente, anche per non dover dividere il successo con il collega Graziano, che stava sopraggiungendo in forze, decise di dirigersi da solo contro i goti. In questa fase furono comunque avviate trattative di pace: l’imperatore ricevette infatti una delegazione di preti cristiani ariani, che gli consegnarono una lettera da parte di Fritigerno nella quale si prendeva in considerazione l’ipotesi di intavolare delle trattative sulla consegna ai goti di terre come era stato loro promesso ai tempi dell’attraversamento del Danubio. Ma il capo goto, in realtà, volle rimandare il più possibile l’inizio della battaglia (secondo la versione di Ammiano Marcellino) nella speranza che ritornassero in tempo la cavalleria che si erano allontanata per foraggiare.

I romani, nervosi (e qui Valente ebbe sicuramente colpe sul controllo dei suoi uomini), attaccarono senza attendere ordini: gli scutarii, un reparto di cavalleria d’élite e gli arcieri a cavallo sull’ala destra, giunti a tiro dei barbari, attaccarono di propria iniziativa; forse furono i goti a reagire ai romani troppo vicini, forse furono i romani ad attaccare per primi, ma il gesto diede comunque inizio alla battaglia. I romani erano disposti con la fanteria al centro e la cavalleria sulle ali, mentre la fanteria gota era schierata poco distante dal cerchio di carri.

Fu allora che sul fianco sinistro romano, che avanzava con difficoltà per via del terreno, fu attaccato dai cavalieri goti e alani di ritorno dal foraggiamento. I romani assorbirono l’urto e respinsero i goti: fu necessario l’intervento dei catafratti, i cavalieri corazzati. Avanzarono, mentre la fanteria combatteva, così tanto che il fianco sinistro romano si spinse fino ai carri goti, senza però essere seguiti da nessuno. Se la battaglia non fosse nata per caos e l’attacco fosse stato adeguatamente sostenuto da Valente, i romani avrebbero sopraffatto i goti senza difficoltà. Invece l’ala sinistra si scollegò dal centro e rimase isolata, lasciando il fianco sinistro delle legioni scoperto. Fu allora che la cavalleria gota e alana, messa in fuga, ritorno e piombò sul fianco sinistro romano, annientandolo.

I legionari romani, schierati in ordine compatto e con scarso margine di manovra, non potevano reggere prolungatamente l’urto e alla fine la loro formazione, dopo una strenua resistenza iniziale, si sfaldò e si dette alla fuga. Valente rimase fino al calar delle tenebre a comandare le ultime legioni rimaste compatte (quella dei lanciarii e quella dei mattiarii); ma ad un certo momento lo stesso imperatore rimase ucciso (o fuggì) e i resti delle forze romane andarono allo sbando.

Pressione sull’impero d’occidente

Negli anni seguenti Teodosio, che era succeduto a Valente, cercò di sconfiggere i goti, ma l’esiguità delle forze di cui disponeva e la mancata fedeltà delle nuove reclute barbare secondo la visione dell’imperatore (in alcuni casi i reparti erano in maggioranza barbarica e l’imperatore temeva per insurrezioni) portò Teodosio a firmare la pace, il 3 ottobre del 382, tra romani e goti. In cambio i goti avrebbero dovuto fornire contingenti all’esercito romano, con condizioni di pace favorevolissime, cosa mai avvenuta in precedenza.

Negli anni seguenti Teodosio si ritrova a dover affrontare altre minacce e usurpazioni, come quella di Eugenio, in cui nella battaglia finale del Frigido manda in prima linea i goti, che vengono in larga parte massacrati. Teodosio, che muore l’anno seguente, lascia l’impero ai figli Onorio, in occidente, e Arcadio, in oriente, rispettivamente sotto la tutela di Stilicone e Rufino, entrambi comandanti di origine barbarica.

Mentre in oriente si forma un partito antibarbarico che finisce per far pressioni su Alarico, a capo dei goti, e magister militum per Illyricum, verso occidente e cercare di rimuovere i barbari dalle cariche di comando (ma non come soldati), in occidente, a causa della penuria di uomini, si finisce per reclutare le orde che varcano i confini o i nemici sconfitti: spesso ormai vengono reclutati come interi popoli. Lo stesso Stilicone, nonostante vinca a più riprese con Alarico, non lo sconfigge mai definitivamente, forse perché crede di poter farlo tornare a combattere sotto le armi romane:

« Taccio di re Alarico con i suoi Goti, spesso vinto, spesso circondato, ma sempre lasciato andare. »

(Orosio, Storia contro i Pagani, VII,37.)

Il 31 dicembre del 406 ebbe luogo la più massiccia migrazione di popoli all’interno dell’impero: complice il Reno ghiacciato e la frontiera in grossa parte sguarnita per combattere Alarico e affidata praticamente solo ai franchi, alleati dell’impero e alcuni reparti limitanei, numerosi popoli barbari passarono senza troppe difficoltà il fiume. Con la dipartita di Stilicone (che probabilmente aveva intenzione, insieme ad Alarico, di attaccare Arcadio e insediare in oriente i goti), mal gradito da Onorio, e aiutata dal disastro che si stava compiendo in Gallia (con ulteriori rivolte e i barbari che procedevano verso la Spagna), Alarico poté accampare ulteriori pretese sull’imperatore d’occidente, che vennero tuttavia respinte da Onorio e condussero al sacco di Roma del 410 d.C.

Negli anni seguenti i romani faranno sempre più affidamento su truppe barbare, non riuscendo a reclutare altri soldati e mantenerli, oltre a dare loro terre (in qualità di foederati: ad esempio i visigoti riceveranno l’Aquitania), che sottrarranno ancora più introiti alle casse dello stato. Infine, con la perdita dell’Africa a opera dei vandali, attorno al 440, la situazione diventerà ancora più critica e costringerà i romani d’occidente a fare praticamente solo affidamento a truppe barbare: alla fine sarà il loro comandante Odoacre, che chiedeva terre in Italia, a deporre l’ultimo imperatore d’occidente, Romolo Augustolo.

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La fine dell’impero romano d’occidente
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2 pensieri su “La fine dell’impero romano d’occidente

  • 23 Novembre 2020 alle 6:53
    Permalink

    Ringrazio vivamente di queste vere e proprie “lezioni” di Storia romana, cosa ch a scuola abbiamo appena sfiorato per una sistematica sintesizzazione didattica. Molte cose le sapevo, ma veri e propri brani, sulle invasioni barbariche e la caduta dell’impero romano d’occidente. Grazie di cuor.

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