« Siccome Romolo e Remo erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, interrogati mediante aruspici, chi avrebbe dato il nome alla città e chi vi avrebbe regnato. Per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi dodici quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re entrambi. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dallo scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium, il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ucciso aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura». In questo modo Romolo s’impossessò del potere e la città prese il nome del suo fondatore. »

T. LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, I, 7

Romolo avrebbe riunito quindi alcune tribù, se non famiglie, che vivevano attorno al Palatino, dove avrebbe stabilito la sua dimora. Romolo creò anche il primo senato, composto di 100 membri, i patres (da cui il nome patrizi). Successivamente raddoppiato, quando Romolo divise il regno con il re sabino Tito Tazio (la popolazione fu divisa tra sabini e quirini, i primi romani) in seguito alla pace concordata al termine delle ostilità per il ratto delle sabine.

L’assolutismo del primo re

Romolo voleva unire romani e sabini, ma molti non erano d’accordo. Perciò decise di usare la forza: i sabini sarebbero stati invitati con l’inganno e le donne prese con la forza, per unire il seme romano col ventre sabino. I romani si prepararono dunque a compiere il rapimento in cui tutti i sabini erano distratti dalla corsa; moltissimi erano i presenti, curiosi di vedere la nuova città. L’atto, studiato e repentino, fu un successo, mentre tra i sabini scoppiava in panico:

«Quando giunse il momento dello spettacolo, mentre l’attenzione e gli occhi di tutti su quello erano concentrati, allora secondo il piano prestabilito cominciò il tumulto, e al segnale convenuto i giovani romani si gettarono a rapire le vergini. Per gran parte furono rapite a caso, secondo che a ciascuno capitavano sotto mano, ma alcune che si distinguevano per bellezza, destinate ai più eminenti senatori, furono portate alle case di questi da uomini della plebe cui era stato affidato quest’incarico. Narrano che una fanciulla di gran lunga superiore alle altre per la bellezza dell’aspetto fu rapita dalla squadra di un certo Talassio, e ai molti che domandavano dove mai la portassero ripetutamente gridavano, perché nessuno le recasse molestia, che la portavano a Talassio; da allora in poi questo grido divenne rituale nelle cerimonie nuziali. Dopo che sui giochi fu gettato lo scompiglio e lo spavento, i genitori delle vergini afflitti fuggono, lamentando la violazione del patto di ospitalità e invocando il dio del quale erano venuti a celebrare la festa e i giochi, rimanendo poi ingannati in dispregio della legge divina e della parola data. Non migliore speranza nella loro sorte né minore sdegno avevano le rapite. Ma lo stesso Romolo andava in giro a convincerle che ciò era avvenuto per la superbia dei genitori, i quali avevano negato il diritto di matrimonio ai loro vicini; esse tuttavia sarebbero state considerate come mogli legittime, e avrebbero condiviso con gli uomini il possesso di tutti i beni, della cittadinanza, e dei figli, cosa di cui nessun’altra è più cara all’umano genere; placassero dunque lo sdegno, e offrissero il loro animo a coloro cui la sorte aveva concesso il corpo. Spesso da un’offesa nasce poi un maggiore affetto, ed esse avrebbero trovato i mariti tanto più premurosi, in quanto ciascuno, oltre all’adempiere i suoi doveri di sposo, si sarebbe sforzato di non far sentire la lontananza dei genitori e della patria. Alle parole di Romolo si aggiungevano le blandizie dei mariti, i quali adducevano a giustificazione dell’accaduto la passione amorosa, argomento quanto mai efficace a piegare gli animi femminili.»

TITO LIVIO, AUC, I, 9, 10-16

Al segnale convenuto Romolo e i suoi estrassero le armi e catturarono le figlie dei ceninensi, crustumini, anemnati e sabini, lasciandone fuggire i padri. Ovviamente il gesto dei romani creò grande imbarazzo nei sabini e nei popoli vicini, che reclamavano vendetta; Romolo, che giustificava il gesto poiché tutte le donne catturate erano vergini o non sposate (tranne Ersilia), dovette affrontare anche delle razzie, con successo.

Romolo sposò proprio Ersilia e offrì alle donne tutti i diritti ma non la possibilità di tornare tra i sabini. Dopo aver sconfitto ceninensi, antemnati e crustumini, i sabini attaccarono Roma e presero il Campidoglio, attaccando poi battaglia al lago Curzio. Durante lo scontro le donne sabine si gettarono nella mischia per separare i contendenti. I due eserciti si separarono e Romolo e il sabino Tito Tazio deposero le armi, condividendo il regno unito di romani e sabini; tuttavia Tazio morì poco tempo dopo e i romani assorbirono i sabini, per distinguersi dai quali, tra i romani, si facevano chiamare quiriti.

Il governo del primo rex allora si fece via via sempre più dispotico. Dopo trentotto anni di regno Romolo sarebbe asceso in cielo, secondo la tradizione. Il racconto serviva probabilmente a mascherare il suo omicidio da parte dei senatori, che lo avrebbero poi fatto a pezzi, nascondendo ognuno di essi una parte del suo corpo. Si era infatti macchiato di derive assolutiste, mal tollerati dai padri coscritti. A comunicare l’evento sarebbe stato Proculo Giulio, il più antico antenato conosciuto della gens Iulia:

«Stamattina o Quiriti, verso l’alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. […] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell’arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane.»

Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 16

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La fine di Romolo
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