Roma deriva con ogni probabilità dall’etrusco Ruma, mammella (a ricordare la storia della lupa) o dal nome che portava il fiume Tevere, Roma, trasposto all’intero agglomerato urbano in via di definizione. Tuttavia la storia si perde nella leggenda e non è dato sapere se il nome di Romolo derivi da quello della città o se la città abbia preso il nome del primo rex. 

Riguardo la data di fondazione storici e archeologi convengono che la Roma romulea sia stata fondata attorno alla metà dell’VIII secolo a.C.: la data del 753 a.C. appare non solo plausibile, ma perfino verosimile. Infatti indagini archeologiche condotte negli ultimi anni concordano nel forte sviluppo urbanistico nell’area della zona del Palatino e tutt’attorno nella seconda metà dell’VIII secolo a.C., sintomo di un rafforzamento politico di quelli che prima dovevano essere solo dei villaggi, sviluppatisi fin dall’inizio dell’età del ferro sui colli di quella zona del Tevere, particolarmente importante per gli scambi commerciali.

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La nascita dell’Urbe

Per convenzione la nascita di Roma è fatta risalire al 21 aprile del 753 a.C., momento in cui Romolo fonda la città secondo la tradizione sul colle Palatino, in opposizione al fratello Remo che la voleva fondare sull’Aventino.

« Siccome erano gemelli e il rispetto per la primogenitura non poteva funzionare come criterio elettivo, toccava agli dei che proteggevano quei luoghi indicare, interrogati mediante aruspici, chi avrebbe dato il nome alla città e chi vi avrebbe regnato. Per interpretare i segni augurali, Romolo scelse il Palatino e Remo l’Aventino. Il primo presagio, sei avvoltoi, si dice toccò a Remo. Dal momento che a Romolo ne erano apparsi dodici quando ormai il presagio era stato annunciato, i rispettivi gruppi avevano proclamato re entrambi. Gli uni sostenevano di aver diritto al potere in base alla priorità nel tempo, gli altri in base al numero degli uccelli visti. Ne nacque una discussione e dallo scontro a parole si passò al sangue: Remo, colpito nella mischia, cadde a terra. È più nota la versione secondo la quale Remo, per prendere in giro il fratello, avrebbe scavalcato le mura appena erette [più probabilmente il pomerium, il solco sacro] e quindi Romolo, al colmo dell’ira, l’avrebbe ucciso aggiungendo queste parole di sfida: «Così, d’ora in poi, possa morire chiunque osi scavalcare le mie mura». In questo modo Romolo s’impossessò del potere e la città prese il nome del suo fondatore. »

T. Livio, Ab Urbe condita libri, I, 7

Subito dopo Romolo traccia un pomerium, un confine sacro e inviolabile (cosa che ripeterà, simbolicamente, Costantino, nell’atto di ri-fondare Bisanzio come Costantinopoli) e fonda un asylum per accogliere genti stranieri tra i romani, i cui discendenti saranno chiamati quiriti per distinguerli da questi “immigrati” e dai nuovi cittadini romani. Infatti sarà sempre tratto caratteristico della civiltà romana quello di accogliere gli stranieri, senza distinzione di razza e di cultura, e di farne romani – purché essi si assimilino alla cultura romana e non viceversa – tanto da avere imperatori africani come Settimio Severo o addirittura un arabo, Filippo l’Arabo per l’appunto. Anche se tra le popolazioni del Lazio non doveva esserci grande differenza né linguistica né culturale, i romani mantennero intatto questo spirito ben oltre i confini dell’Italia centrale, facendone un punto di forza.

« Dopo la fondazione Romolo riunì uomini errabondi, indicò loro come luogo di asilo il territorio compreso tra la sommità del Palatino e il Campidoglio e dichiarò cittadini tutti coloro dei vicini villaggi che si rifugiassero lì. »

Strabone, Geografia, V, 3,2

Tuttavia l’insieme di genti che aveva creato la città di Roma era privo di donne, motivo di preoccupazione per il futuro:

« […] Romolo su consiglio dei Senatori, inviò ambasciatori alle genti vicine per stipulare trattati di alleanza con questi popoli e favorire l’unione di nuovi matrimoni. […] All’ambasceria non fu dato ascolto da parte di nessun popolo: da una parte provavano disprezzo, dall’altra temevano per loro stessi e per i loro successori, ché in mezzo a loro potesse crescere un simile potere. »

T. Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9

Romolo voleva unire romani e sabini, ma molti non erano d’accordo. Perciò decise di usare la forza: i sabini sarebbero stati invitati con l’inganno e le donne prese con la forza, per unire il seme romano col ventre sabino. I romani si prepararono dunque a compiere il rapimento in cui tutti i sabini erano distratti dalla corsa che avveniva nel luogo dove sarebbe sorto il Circo Massimo; moltissimi erano i presenti, curiosi di vedere la nuova città. L’atto, studiato e repentino, fu un successo, mentre tra i sabini scoppiava in panico:

«Quando giunse il momento dello spettacolo, mentre l’attenzione e gli occhi di tutti su quello erano concentrati, allora secondo il piano prestabilito cominciò il tumulto, e al segnale convenuto i giovani romani si gettarono a rapire le vergini. Per gran parte furono rapite a caso, secondo che a ciascuno capitavano sotto mano, ma alcune che si distinguevano per bellezza, destinate ai più eminenti senatori, furono portate alle case di questi da uomini della plebe cui era stato affidato quest’incarico. Narrano che una fanciulla di gran lunga superiore alle altre per la bellezza dell’aspetto fu rapita dalla squadra di un certo Talassio, e ai molti che domandavano dove mai la portassero ripetutamente gridavano, perché nessuno le recasse molestia, che la portavano a Talassio; da allora in poi questo grido divenne rituale nelle cerimonie nuziali. Dopo che sui giochi fu gettato lo scompiglio e lo spavento, i genitori delle vergini afflitti fuggono, lamentando la violazione del patto di ospitalità e invocando il dio del quale erano venuti a celebrare la festa e i giochi, rimanendo poi ingannati in dispregio della legge divina e della parola data. Non migliore speranza nella loro sorte né minore sdegno avevano le rapite. Ma lo stesso Romolo andava in giro a convincerle che ciò era avvenuto per la superbia dei genitori, i quali avevano negato il diritto di matrimonio ai loro vicini; esse tuttavia sarebbero state considerate come mogli legittime, e avrebbero condiviso con gli uomini il possesso di tutti i beni, della cittadinanza, e dei figli, cosa di cui nessun’altra è più cara all’umano genere; placassero dunque lo sdegno, e offrissero il loro animo a coloro cui la sorte aveva concesso il corpo. Spesso da un’offesa nasce poi un maggiore affetto, ed esse avrebbero trovato i mariti tanto più premurosi, in quanto ciascuno, oltre all’adempiere i suoi doveri di sposo, si sarebbe sforzato di non far sentire la lontananza dei genitori e della patria. Alle parole di Romolo si aggiungevano le blandizie dei mariti, i quali adducevano a giustificazione dell’accaduto la passione amorosa, argomento quanto mai efficace a piegare gli animi femminili.»

TITO LIVIO, AUC, I, 9, 10-16

Al segnale convenuto Romolo e i suoi estrassero le armi e catturarono le figlie dei ceninensi, crustumini, anemnati e sabini, lasciandone fuggire i padri. Ovviamente il gesto dei romani creò grande imbarazzo nei sabini e nei popoli vicini, che reclamavano vendetta; Romolo, che giustificava il gesto poiché tutte le donne catturate erano vergini o non sposate (tranne Ersilia), dovette affrontare anche delle razzie, con successo:

«L’animo delle rapite si era ormai molto calmato, ma i loro padri più che mai accendevano i concittadini con manifestazioni di lutto, pianti e lamenti. Né contenevano nelle loro città gli sdegni, ma si riunivano da ogni parte presso Tito Tazio, re dei Sabini; colà affluivano le ambascerie, perché il prestigio di Tazio era grandissimo in quella regione. I Ceninesi, i Crustumini e gli Antemnati erano fra i popoli colpiti da quella offesa; ad essi parve che Tazio e i Sabini tardassero troppo ad agire, e quindi si accordarono di intraprendere la guerra da soli. Neppure i Crustumini e gli Antemnati si muovevano abbastanza in fretta per l’ardore e l’ira dei Ceninesi, perciò il popolo di Cenina da solo invade il territorio romano. Ma mentre disordinatamente devastano le campagne, viene loro incontro con l’esercito Romolo, e con un facile scontro dimostra che vana è l’ira senza la forza. Sbaraglia e mette in fuga l’esercito nemico, lo insegue in rotta, uccide il re in battaglia e lo spoglia, e dopo la morte del condottiero dei nemici prende la città al primo assalto. Quindi ricondotto l’esercito vincitore, Romolo, che era uomo valoroso nelle imprese e non meno abile nel metterle in mostra, salì sul Campidoglio recando appese ad un’asta appositamente fabbricata le spoglie del condottiero nemico ucciso, e depostele ivi presso una quercia sacra ai pastori, offrendo il dono delimitò i confini di un tempio in onore di Giove e assegnò al dio l’appellativo dicendo: «O Giove Feretrio, io vincitore Romolo re regie armi ti porto, e ti consacro un tempio in questo spazio, che ora mentalmente ho delimitato, come sede per le spoglie opime che i posteri seguendo il mio esempio ti porteranno dopo aver ucciso i re e i condottieri nemici». Questa è l’origine del tempio che primo fra tutti fu consacrato a Roma. Gli dèi vollero poi che né vane fossero le parole del fondatore del tempio, laddove proclamò che i posteri avrebbero recato colà le spoglie, né la gloria di quella offerta fosse diminuita da un grande numero di partecipi: due volte sole in seguito, in tanti anni e con tante guerre, furono conquistate le spoglie opime, tanto rara fu la fortuna di quell’onore.»

TITO LIVIO, AUC, I, 10, 1-7

Romolo sposò proprio Ersilia e offrì alle donne tutti i diritti ma non la possibilità di tornare tra i sabini. Dopo aver sconfitto ceninensi, antemnati e crustumini, i sabini attaccarono Roma e presero il Campidoglio, attaccando poi battaglia al lago Curzio. Durante lo scontro le donne sabine si gettarono nella mischia per separare i contendenti. I due eserciti si separarono e Romolo e il sabino Tito Tazio deposero le armi, condividendo il regno unito di romani e sabini; tuttavia Tazio morì poco tempo dopo e i romani assorbirono i sabini, per distinguersi dai quali, tra i romani, si facevano chiamare quiriti:

«Là mentre stavano per tornare a combattere nuovamente, furono fermati da uno spettacolo incredibile e difficile da raccontare a parole. Videro infatti le figlie dei Sabini, quelle rapite, gettarsi alcune da una parte, ed altre dall’altra, in mezzo alle armi ed ai morti, urlando e minacciando con richiami di guerra i mariti ed i padri, quasi fossero possedute da un dio. Alcune avevano tra le braccia i loro piccoli… e si rivolgevano con dolci richiami sia ai Romani sia ai Sabini. I due schieramenti allora si scostarono, cedendo alla commozione, e lasciarono che le donne si ponessero nel mezzo.»

PLUTARCO, VITE PARALLELE, VITA DI ROMOLO, 19, 1-3

Il governo del primo rex allora si fece via via sempre più dispotico. Dopo trentotto anni di regno Romolo sarebbe asceso in cielo, secondo la tradizione. Il racconto serviva probabilmente a mascherare il suo omicidio da parte dei senatori, che lo avrebbero poi fatto a pezzi, nascondendo ognuno di essi una parte del suo corpo. Si era infatti macchiato di derive assolutiste, mal tollerate dai padri coscritti. A comunicare l’evento sarebbe stato Proculo Giulio, il più antico antenato conosciuto della gens Iulia:

«Stamattina o Quiriti, verso l’alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. […] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell’arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, I, 16

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