Romolo per primo diede forma all’armata romana strutturandolo in un corpo stabile. L’organizzazione dell’esercito romuleo prevedeva una legione divisa in centurie censitarie, poichè l’equipaggiamento era portato dai combattenti e non fornito dallo stato. Tale regola venne mantenuta dall’esercito repubblicano, reclutato per classi e diviso in manipoli di hastati, principes, triarii, velites ed equites. Un manipolo riuniva due centurie di circa 80 uomini (60 per i triarii) e formava l’unità tattica base.

Dall’epoca regia alla tattica manipolare

In seguito alle guerre sannitiche l’esercito romano era andato strutturandosi nella sua forma classica descritta da Polibio nel II secolo a.C., diviso in base al censo. I meno abbienti e più giovani formavano i veliti, armati alla leggera, con scudo rotondo, giavellotti e spada. Il grosso delle legioni era invece formato dalla fanteria pesante, divisa in hastati, principes triarii. A questi si aggiungevano i cavalieri romani e gli alleati italici, organizzati in modo simile, e di numero generalmente all’incirca equivalente, posizionati sulle ali. Gli hastati, come indica il nome, dovevano essere dotati in principio delle hastae, le lunghe lance in dotazione ai triarii, ma che già nel III secolo a.C. dovettero abbandonarle a favore del pilum. Completava l’equipaggiamento lo scutum ovale, l’elmo (specialmente Montefortino) e la spada, sostituita dalla seconda guerra punica dal gladio ispaniense, oltre a una placca di metallo che fungeva da corazza, e uno schiniere per la gamba sinistra, posizionata più avanti in combattimento.

principes, più abbienti e anziani, formavano la seconda linea, e potevano generalmente contare su alcuni equipaggiamenti migliori, come cotte di maglia (loricae hamatae), che fornivano migliore protezione. L’equipaggiamento offensivo era analogo a quello degli hastati. Infine, l’ultima linea era formata dai triarii (tanto che per i romani dire “arrivare ai triarii” significava giungere a una situazione disperata), raramente usati in battaglia e solo se le cose volgevano al peggio. Erano equipaggiati come i principes, ma erano dotati di una lunga lancia al posto del pilum, e pare attendessero lo scontro in ginocchio. Infine i più abbienti, raccolti nelle diciotto centurie più abbienti degli equites durante i comizi centuriati, combattevano a cavallo, e se non potevano permetterselo gli veniva dato un cavallo pubblico, equus publicus. Tuttavia il combattimento a cavallo non era il preferito dai romani:

«Anche le lance non erano di alcuna utilità, principalmente per due motivi: prima di tutto, essendo sottili e fragili, non erano minimamente in grado di raggiungere il bersaglio e prima che la punta provasse a conficcarsi in qualcosa, spesso si spezzava a causa della vibrazione generata dal movimento del cavallo; [in secondo luogo], poiché erano costruite senza il puntale inferiore, potevano colpire di punta solo la prima volta, poi si spezzavano e non erano più utilizzabili.»

Polibio, Storie, VI, 25, 5-6

Tattiche

L’esercito veniva schierato su tre linee disposte a scacchiera, con i velites davanti gli hastati, e dietro di questi i principi; in ultima e terza fila i triarii, con centurie grandi generalmente la metà, mentre ai fianchi si disponevano i cavalieri e le coorti e ali ausiliarie dei socii. Le legioni non avevano un singolo comandante come in epoca imperiale, bensì erano comandate da sei tribuni militari:

«Da ciascuna di queste classi, ad eccezione per quella dei più giovani, i tribuni scelgono, in base al merito, dieci ufficiali subalterni (centuriones priores); poi ne scelgono altri dieci (centuriones posteriores). Tutti loro sono chiamati centurioni e quello che è stato scelto per primo, entra a far parte del consiglio militare […] non si può sapere come si comporti un comandante o cosa possa succedergli, e comunque, le necessità della guerra non ammettono scuse, essi hanno come obbiettivo che il manipolo non rimanga mai senza un comandante. »

Polibio, Storie, VI, 24, 1-2; 7

L’idea tattica alla base della legione manipolare era che quando una linea si stancava subentrava la successiva, con hastati e principes ad alternarsi, mentre i triarii subentravano solo in caso di assoluta necessità:

«Quando l’esercito aveva assunto questo schieramento, gli hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i principes li accoglievano negli intervalli tra loro. […] i triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l’alto, quasi fossero una palizzata… Qualora anche i principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai triarii. Da qui l’espressione in latino “Res ad Triarios rediit” (“essere ridotti ai Triarii”), quando si è in difficoltà.»

T. Livio, Ab Urbe Condita Libri VIII, 8, 9-12

Il processo di costruzione dell’esercito manipolare, passato per le guerre sannitiche, da cui i romani avevano sicuramente preso spunto, tanto nelle armi quanto nelle tattiche (scuta, pila, formazione meno falangitica), passò poi anche nella costruzione di castra, ossia accampamenti, che avevano un reticolo sempre ripetuto, di forma rettangolare. Anche lì i romani hanno preso spunto da altri:

«Pirro, re dell’Epiro, istituì per primo l’utilizzo di raccogliere l’intero esercito all’interno di una stessa struttura difensiva. I Romani, quindi, che lo avevano sconfitto ai Campi Ausini nei pressi di Malevento, una volta occupato il suo campo militare ed osservata la sua struttura, arrivarono a tracciare con gradualità quel campo che oggi a noi è noto.»

Sesto Giulio Frontino, Strategemata, IX, 1,14

Nel complesso l’esercito manipolare si dimostrò inizialmente incapace, durante la seconda guerra punica, di adattarsi alle tattiche più evolute di Annibale, per poi prendere spunto e adattarsi. Da lì in poi i comandanti romani saranno in grado di giocare con i manipoli, muovendoli in modo creativo sul campo di battaglia, uscendo dal tradizionale schema di alternanza delle linee e scontro frontale, passando invece per accerchiamenti e manovre più complesse; ad esempio a Cinocefale, nel 197 a.C., i manipoli romani, muovendosi in modo più libero, riuscirono ad avere la meglio sulla terribile falange macedone di Filippo V.

La riforma coortale

Però questo schieramento, per quanto bilanciato, era effettivo solo in campo aperto e contro nemici che combattevano lealmente: contro Annibale, la falange o gli elefanti era spesso messo in pericolo, complice la poca flessibilità dei comandanti romani. Fu proprio tra la fine del III e l’inizio del II secolo a.C. che Scipione fece adottare due innovazioni fondamentali alle legioni: il gladio e la coorte.

Combattendo in Spagna, in condizioni difficili e spesso tatticamente sconosciute ai romani, Scipione si rese conto di dover modificare qualcosa. Fece adottare ai suoi soldati una spada iberica che sembrava micidiale, il gladio (i cui primi modelli sono appunto chiamati “hispaniensis“), che se usato correttamente, di punta, provocava ferite micidiali. In secondo luogo per affrontare episodi di guerriglia e di bassa intensità decise di appropriarsi dell’unità tattica della coorte, usata fino ad allora dai soli socii italici.

La coorte, che contava circa 500 uomini, raggruppava in sé i tre manipoli di hastati, principes e triarii, permettendo dunque una maggiore flessibilità tattica: infatti non era usata solamente in azioni secondarie, ma anche sul campo di battaglia principale. Tuttavia perchè questo divenisse la norma bisognerà attendere la fine del II secolo a.C. e l’inizio del I secolo a.C. Ma i semi erano ormai piantati e i romani cominciavano a comprendere l’importanza della flessibilità tattica e di azioni fuori dagli schemi. Da allora infatti si comincerà ad uscire dagli schemi della classica azione di hastati-principes-triarii, per passare ad azioni più complesse, come per esempio usare i triarii per fermare la cavalleria o staccare principes e/o triarii per compiere un aggiramento su un fianco o rispondere ad un tentativo di aggiramento.

Per giungere alla piena adozione della coorte si dovette attendere la riforma dell’esercito di Gaio Mario, i cui presupposti erano già stati lanciati dai Gracchi. Il nuovo esercito, formato da capite censi, ovvero nullatenenti, non disponeva di equipaggiamento (ormai già fornito dallo stato da qualche decennio e quindi già in parte uniformato) ed era inquadrato direttamente in coorti, essendo venuti meno i presupposti della leva in base al censo (mentre permaneva questa divisione dei comizi, dove le prime 98 centurie più ricche avevano il potere di decidere nei comizi centuriati, avendo la maggioranza assoluta essendo 193 in totale; non solo, le 18 centurie di cavalieri e 80 della prima classe votavano per prime).

Dopo l’elezione al consolato del 107 a.C., Gaio Mario, che aveva intenzione di porre fine alla Guerra Giugurtina, decise di arruolare anche i capite censi, ossia i proletari che non disponevano di proprietà, poiché il grosso dell’esercito precedentemente in Africa al comando di Metello era impegnato altrove, al comando dell’altro console Lucio Cassio Longino, per affrontare la minaccia dei germani che stavano migrando dal nord, in particolare i cimbri. Contravvenendo all’organizzazione secolare dell’esercito romano, formato da contadini-soldato, Mario arruolò dunque chiunque, promettendo bottino e paga. Le armi e uno stipendio sarebbero stati forniti dalla repubblica (già Gaio Gracco, nel 123 a.C., aveva fatto approvare una lex militaris, in cui si sanciva che l’equipaggiamento doveva essere fornito dallo stato). L’episodio era già avvenuto prima, in situazioni d’emergenza, ma da allora divenne la norma.

La “riforma” era l’epilogo di una serie di avvenimenti che avevano visto i soldati romani distanti per molto tempo dalle loro terre nel corso del II secolo a.C., quando Roma si espanse in tutto il Mediterraneo. Già Tiberio Gracco e Gaio Gracco avevano provato a ridistribuire le terre ai contadini romani, togliendole ai latifondisti (che se appropriavano, favoriti dai lunghi periodi di lontananza), venendo fortemente ostacolati – e infine uccisi – dall’aristocrazia senatoria, che formava in larga parte i latifondisti che volevano colpire. La soluzione di Mario risolveva in modo opposto il problema, sostanzialmente permettendo a chiunque di arruolarsi e di sostituire dei contadini-soldati che combattevano per difendere le loro proprietà e la res publica con dei soldati volontari professionisti, che combattevano per il soldo, il bottino e il loro comandante. E infatti proprio nel I secolo a.C. gli eserciti saranno reclutati da grandi figure senatorie e a loro legati, combattendo in numerose guerre civili, finché non uscirà vincitore Ottaviano.

Il principato

«Riguardo alla loro organizzazione militare, i romani hanno questo grande impero come premio del loro valore, non come dono della fortuna. Non è infatti la guerra che li inizia alle armi e neppure solo nel momento dei bisogno che essi la conducono […], al contrario vivono quasi fossero nati con le armi in mano, poiché non interrompono mai l’addestramento, né stanno ad attendere di essere attaccati. Le loro manovre si svolgono con un impegno pari ad un vero combattimento, tanto che ogni giorno tutti i soldati si esercitano con il massimo dell’ardore, come se fossero in guerra costantemente. Per questi motivi essi affrontano le battaglie con la massima calma; nessun panico li fa uscire dai ranghi, nessuna paura li vince, nessuna fatica li affligge, portandoli così, sempre, ad una vittoria sicura contro i nemici […]. Non si sbaglierebbe chi chiamasse le loro manovre, battaglie senza spargimento di sangue e le loro battaglie esercitazioni sanguinarie.»

Giuseppe Flavio, La guerra giudaica, III, 5.1.71-75

L’esercito così riformato vedeva una ferma di sedici anni (estesa poi a vent’anni e sotto Augusto a venticinque, di cui gli ultimi cinque come veterani); al congedo si riceveva anche un’appezzamento di terreno, che permetteva – paradossalmente – proprio di trasformare in proprietari terrieri coloro i quali inizialmente non lo erano. I veterani venivano inoltre spesso insediati in blocco in un territorio, diventando anche da congedati “clienti” politici dei generali che li avevano arruolati. Un tassello successivo fu la decisione di Mario, nel 101 a.C., dopo aver sconfitto cimbri e teutoni, di concedere la cittadinanza romana a tutti gli italici che avevano militato nelle sue legioni. Di lì a poco sarebbe scoppiata anche la guerra sociale, con gli italici che ottennero infine grazie alla Lex Iulia de civitate e la Lex Plautia Papiria la cittadinanza romana (a sud del Po, a nord ottennero con la Lex Pompeia la cittadinanza latina e solo sotto Augusto quella romana).

Ottaviano, ottenuto il titolo di Augusto nel 27 a.C., continuò ad espandere la repubblica romana, che formalmente manteneva in vigore, con una parvenza di continuità costituzionale. Di fatto ormai Roma era sotto il suo controllo politico e militare, avendo ottenuto l’imperium proconsulare maius et infinitum. Durante tutto il suo principato i romani si espansero nel Norico, Illirico, Pannonia, Spagna e Germania; quest’ultima tuttavia fu persa nella sua parte oltre il Reno dopo la disfatta di Teutoburgo. Pertanto le legioni furono impegnate fino all’epoca di Tiberio in continue campagne militari, specialmente nella zona renana e danubiana. Al termine di queste lunghe campagne militari, che portarono il limes al Reno e al Danubio (e pacificarono la Spagna dopo secoli), le legioni vennero collocate inizialmente in zone non troppo vicine alla frontiera, seppure in province imperiali (ovvero sotto la giurisdizione dell’imperatore: all’incirca tutte quelle che confinavano con le popolazioni barbariche).

Alcune legioni erano raggruppate in campi che ne contenevano più di una; molte erano in Germania e nell’Illirico, pronte a intervenire in caso di necessità. Come ha detto giustamente Luttwak, queste legioni avevano un potere deterrente enorme: bastava il loro stazionamento e il timore dell’intervento romano, aiutato da una serie di stati clienti limitrofi e gli auxilia, per evitare gli sconfinamenti nelle province. Tuttavia a mano a mano le legioni (e le coorti e ali ausiliarie) vennero spostate sempre più lungo il confine (spesso coincidente coi fiumi naturali, come il Reno e il Danubio, mentre in oriente generalmente erano più vicine alle città), che divenne fortificato e sempre meno permeabile a spostamenti di popolazione incontrollati. Domiziano infine dispose, per evitare accentramenti militari e di finanze (conservate negli accampamenti per pagare le legioni) che avrebbero stimolato alcuni governatori a ribellarsi, decise di vietare accampamenti che contenessero più di una legione.

Oltre alle legioni, gli auxilia e i marinai della flotta erano presenti a Roma 9 coorti di pretoriani (poi diventate 10). Augusto le aveva stanziate in varie regioni italiane, ma già Tiberio decise di raggrupparle a Roma nei castra pretoria. In suo onore presero come simbolo lo scorpione, segno zodiacale dell’imperatore. Augusto creò anche un corpo di vigiles, divisi in 7 coorti (una ogni due quartieri in cui era divisa la città), reclutate perlopiù tra liberti, che avevano il compito di garantire la sicurezza dell’Urbe e fungere da pompieri all’occorrenza, demolendo gli edifici pericolanti per evitare il propagare delle fiamme. Infine tre coorti urbane (diventate poi cinque), sotto il controllo del prefetto dell’Urbe, un senatore, e quindi svincolate formalmente dal principe, completavano le forze di polizia di Roma.

L’imperatore aveva a sua disposizione per la sua difesa personale non solo i pretoriani, ma anche le guardie del corpo germaniche, usate per la prima volta da Cesare, chiamati germani corporis custodes, all’incirca 500-1.000 uomini, delle vere e proprie guardie private, perlopiù di origine batava. Sciolte dopo Nerone, furono riformate da Traiano come equites singulares, dei cavalieri scelti reclutati tra i migliori soldati a cavallo dell’impero. Erano alloggiati in un castra nel luogo dove oggi sorge la basilica di San Giovanni. Proprio l’accampamento, ormai inutile dopo lo scioglimento anche dei pretoriani dopo Costantino, funse da fondamenta per una delle prime basiliche di Roma.

Le legioni erano reclutate tra i cittadini romani, principalmente italici. All’epoca di Traiano questi rappresentavano all’incirca un terzo: i restanti erano discendenti dei soldati stanziati nelle province, a loro volta reclutati, o uomini raccolti sul posto, principalmente discendenti di veterani nelle colonie. In oriente tuttavia non era raro che i legionari venissero reclutati tra la popolazione autoctona e concessa la cittadinanza all’atto dell’immissione nell’esercito: in fondo l’oriente grecofono era già molto civilizzato.

Inizialmente Augusto aveva prefissato una ferma di 16 anni e 4 come veterani, per un totale di 20 anni. Tuttavia le lunghe campagne militari in Illirico e Germania lo spinsero ad allungare i tempi a 25 anni, 20 di servizio e 5 come evocati (veterani). Finché Augusto fu in vita i legionari accettarono loro malgrado questa estensione, ma quando Tiberio divenne imperatore divampò la protesta, controllata solo grazie all’intervento di Druso minore:

«La rivolta divampa sempre più forte, si moltiplicano i caporioni. Un soldato semplice, un certo Vibulento, sollevato su le spalle dei compagni davanti al seggio di Bleso, si volse a quegli uomini eccitati e intenti a vedere che cosa si proponeva di fare e disse: «Voi avete restituito la luce e lo spirito a questi infelici innocenti; ma chi renderà a mio fratello la vita, a me il fratello? vi era stato mandato dall’esercito di Germania per trattare degli interessi comuni; ebbene, la notte stessa questi l’ha fatto massacrare dai suoi gladiatori, che tiene in armi per il danno dei soldati. Rispondi, Bleso: dove hai nascosto il cadavere? Quando avrò dato sfogo al mio dolore con baci, con lacrime, ordina che sia trucidato io pure, affinché gli uomini ci seppelliscano insieme, uccisi non per aver commesso un delitto, ma perché ci adoperavamo a vantaggio delle legioni». Rendeva ancor più acceso il suo dire col pianto, si percuoteva con le mani il petto e il volto. Poi, allontanò quelli che lo sostenevano su le spalle, balzò a terra e prostrandosi ai piedi di ciascuno, suscitò costernazione e furore a tal punto che alcuni dei soldati incatenarono i gladiatori di Bleso, alcuni i suoi schiavi, altri si sparsero alla ricerca del cadavere. E se ben presto non si fosse visto che non si trovava nessun cadavere e gli schiavi, sottoposti a tortura, non avessero dichiarato che non c’era stata alcuna uccisione e che quello non aveva mai avuto un fratello, non sarebbero andati molto lontano dall’assassinare il comandante. Comunque, espulsero i tribuni e il Prefetto dell’accampamento e distrussero i loro bagagli mentre fuggivano e uccisero il centurione Lucilio, al quale i soldati per scherno avevano appioppato il soprannome: «Un’altra!», perché quando gli si spezzava una verga su la schiena d’un soldato subito a gran voce ne chiedeva un’altra e poi un’altra ancora. Gli altri centurioni si rifugiarono in nascondigli; fu trattenuto uno, Giulio Clemente, ritenuto atto a farsi latore delle richieste dei soldati per la sua prontezza. E già la legione ottava e la quindicesima si apprestavano a impugnare le armi, poiché quella chiedeva la morte d’un centurione di nome Sirpico, questa lo difendeva, fino a che intervennero i soldati della nona con preghiere e, con quelli che non li ascoltavano, con minacce.»

TACITO, ANNALI, I, 22-23

A partire da Cesare la paga del legionario era di 225 denari annui, cioè 900 sesterzi. La cifra è modesta, ma garantiva ai soldati, reclutati spesso tra proletari che non generalmente avevano altre fonti di reddito, una modesta rendita, che insieme alla liquidazione che ricevevano al congedo (in denaro o terre) permetteva loro di farsi un piccolo appezzamento di terra o avviare una piccola attività commerciale. D’altro canto in alcune zone di frontiera, come la Germania e la Pannonia, la moneta circolava principalmente grazie alle paghe fornite all’esercito, che le reimmetteva nell’economia reale acquistando beni e servizi. Alla paga, già di per sé non elevata, venivano sottratte le spese per il cibo e i rifornimenti, come i vestiti.

Le condizioni però migliorarono nel corso del tempo: Domiziano aggiunse una quarta rata al pagamento (prima fatto in tre rate annuali) di 75 denari, portandolo a 300 denari (1.200 sesterzi). A partire dall’epoca di Marco Aurelio fu istituita l’annona militare, prima in via provvisoria, poi definitiva da Settimio Severo. Grazie all’annona veniva requisito o acquistato a prezzo conveniente per lo stato l’occorrente per l’esercito, vettovagliamento e armi da fornire all’esercito, che quindi non se lo vedeva più sottratto dalla paga.

Dall’età dei severi inoltre la paga fu aumentata da Settimio Severo e di un altro 50% da Caracalla; inoltre venne garantito il matrimonio durante il servizio (prima consentito praticamente solo ai senatori) e dato l’accesso al ceto equestre ai primipili. Dal III secolo inoltre saranno sempre più frequenti i donativi, una tantum, in oro, dati all’esercito, che arricchiranno la paga e forniranno spesso il pretesto per acclamare un nuovo imperatore (il quale era tenuto a donare oro quando scelto).

L’esercito tardoantico

Nel corso del III secolo l’impero romano subisce una profonda crisi, che coinvolge ogni aspetto della società: esercito, politica, demografia, religione. I primi sintomi di un maggiore peso dell’esercito si hanno già nella tarda età antonina e specialmente sotto i Severi: Marco Aurelio è costretto ad arruolare due nuove legioni (ed è il primo a fare uso di vessilazioni, ossia distaccamenti, di legioni, per non sguarnire eccessivamente il confine) per affrontare le sue campagne contro quadi e marcomanni, mentre Settimio Severo, conscio dell’importanza dell’esercito, scioglie le coorti pretorie, riformandole con legionari pannonici e raddoppiandone gli effettivi (rendendole truppe che effettivamente accompagnavano l’imperatore in guerra) e arruolando tre nuove legioni partiche, che affida a prefetti equestri e non a legati di rango senatorio.

Due legioni sono inviate in Osroene, al confine con i parti, mentre la II Parthica si stabilisce nel castra di Albano Laziale, nei pressi di Roma: Settimio Severo era il primo imperatore a disporre di una forza di ben 30.000 uomini tra pretoriani, II Parthica, equites singulares e coorti urbane, che fungono sia da deterrente nei confronti del senato sia come forza mobile, un vero e proprio comitatus ante litteram che segue l’imperatore in guerra, prefigurando dunque un’evoluzione dell’esercito romano del III secolo, il quale vede ogni imperatore avere un comitatus di truppe scelte che lo seguono, scelte fra le legioni che lo acclamano imperatore, finché Gallieno non stabilizza l’idea del comitatus stesso.

Secondo Zosimo l’idea di Diocleziano era quello di fare del limes un muro impenetrabile: evidenze archeologiche confermano che durante la tetrarchia vengono costruite moltissime fortezze lungo i confini, specialmente in oriente e lungo il Danubio; ma anche altre zone non sono affatto esenti da questo processo. Diocleziano arruola anche nuove legioni, e probabilmente la tetrarchia vede un lieve aumento degli effettivi totali nell’esercito, per quare in modo che ogni tetrarca possieda una forza militare sufficiente: studi moderni hanno stimato in circa 435.000 uomini l’esercito di Diocleziano, comunque non troppo dissimile in quanto ad effettivi a quello del II secolo d.C.  Alcuni, come Jones, hanno ritenuto che i limitanei fossero raggruppati in legioni più grandi di quelle comitatensi, portando il numero totale dei soldati attorno ai 600.000.
La necessità di maggiori reclute si scontra con le persecuzioni dioclezianee che vedono esclusi i cristiani dall’esercito e soprattutto dalla necessità di maggiore denaro e reclute, entrambi carenti. Per il primo cerca di rivalutare la moneta e di emanare un edictum de pretiis, per calmierarli, ma entrambi falliscono. Per i secondi riforma l’esazione fiscale, nel sistema di iugatio-capitatio, ossia legando le imposte al numero di persone che lavoravano la terra; i proprietari terrieri sono costretti a fornire reclute per l’arruolamento (dilectus), che però possono negare pagando una tassa in oro, l’aurum tironicum, con cui presumibilmente si arruolavano volontari, spesso oltre frontiera. Infatti l’altro bacino di reclutamento, oltre i figli dei soldati (ora obbligati a seguire la carriera paterna), sono i barbari, volontari o meno, che entrano a far parte dell’esercito. Non è un caso che molti comandanti romani del IV secolo abbiano nomi di origine chiaramente barbarica.

Nel III secolo si sviluppa anche l’idea di un comitatus che accompagnasse l’imperatore; essa vede i suoi prodromi con Settimio Severo (avendo a disposizione i pretoriani, gli equites singulares, e la II Parthica), ma è solo con Gallieno che viene in quale modo istituzionalizzato un vero e proprio comitatus di truppe scelte, comandato da Aureolo, inizialmente probabilmente composti da pretoriani, equites singulares, vessilazioni legionarie, reparti ausiliari, numeri, cavalieri mauri e illirici (promoti).

«Infatti, per la previdenza di Diocleziano tutto l’impero era stato diviso […] in città, fortezze e torri. Poiché l’esercito era posizionato ovunque, i barbari non potevano penetrarvi. In ogni sua parte le truppe erano pronte a opporsi agli invasori ed a respingerli.»

Zosimo, Storia nuova, II, 34.1

Tali reparti erano necessari nel III secolo per affrontare le continue emergenze. Diocleziano, con la tetrarchia, non abbandona del tutto l’idea del comitatus (ci sono epigrafi di soldati che lo seguono in ogni sua campagna militare), ma privilegia la difesa di frontiera, costruendo numerosi forti lungo il confine, tanto da far dire a Zosimo che l’esercito romano stava tutto lungo il limes, pronto a respingere ogni invasore e inveendo invece contro Costantino, che aveva spostato parte dei soldati (comitatensi) in città (secondo le stime moderne circa il 60% dei soldati erano limitanei).

« Queste misure di sicurezza vennero meno con Costantino, che tolse la maggior parte dei soldati dalle frontiere e li insediò nelle città che non avevano bisogno di protezione; privò dei soccorsi quelli che erano minacciati dai barbari e arrecò alle città tranquille i danni provocati dai soldati: perciò ormai moltissime risultano deserte. Inoltre lasciò rammollire i soldati, che frequentavano i teatri e si abbandonavano a dissolutezze: in una parola fu lui a gettare il seme, a causare la rovina dello Stato che continua sino ai giorni nostri. »

Zosimo, Storia nuova, II, 34,2

L’esercito viene infatti diviso, a partire da Costantino, tra ripenses (i soldati sui fiumi) e comitatenses, divisi in legioni o auxilia, che diventano le truppe di movimento e non più di accompagnamento dell’imperatore. Nel corso del IV secolo il sistema si perfeziona e l’esercito viene diviso tra eserciti presentali (d’élite), sotto il comando dei magister militum magister equitum, reparti comitatensi (legioni, vessilazioni, cavalleria etc.) e limitanei (legioni, auxilia, reparti di cavalleria).

L’idea alla base, oltre alla divisione dei comandi militari per evitare rivolte (che invece ci saranno ancora nel IV e V secolo) e alla frammentazione dei reparti, di dimensioni più piccoli delle legioni altoimperiali (una legione limitanea poteva contare al massimo 3.000 uomini contro i 6.000, ancora meno una comitatense, di massimo 1.500-2.000 uomini), era quella di avere i limitanei che si occupassero delle minacce minori o comunque rallentassero i nemici, per poi far intervenire in caso di necessità l’esercito presentale o – come accadeva di solito – i comitatensi . Quest’ultimi venivano per la prima volta stanziati all’interno delle città, anche di frontiera, ma non vivevano più all’interno di campi e avevano una serie di vantaggi e una paga migliore, che li vide gradualmente diventare la forza di riferimento.

Si veniva a creare per la prima volta una forza all’interno dell’esercito romano formalmente privilegiata che non fosse strettamente di guardia o di accompagnamento dell’imperatore, perché ora queste funzioni le svolgevano perlopiù gli eserciti presentali (oltre alle scholae palatinae e i protectores domestici, visto che Costantino aveva sciolto i pretoriani): nel corso del IV secolo la differenza, anche qualitativa, tra limitanei e comitatensi non sarà marcata, ma si farà via via più ampia a partire da dopo Adrianopoli e in generale dal V secolo d.C., finché nel VI e VII secolo nell’impero d’oriente i limitanei saranno ormai declassati a una milizia di frontiera, preludio alla riforma militare bizantina dei temi.

Oltre alla riforma dell’esercito venivano create una serie di fabricae imperiali per l’equipaggiamento, specializzate, in scudi, archi, armi etc., in contrapposizione ai fabbri e gli artigiani che seguivano le legioni in precedenza e alle armi che venivano acquistate in loco. Sembrerebbe che l’equipaggiamento abbia avuto un lievo calo qualitativo: avendo il controllo diretto, lo stato avrebbe cercato di risparmiare qualcosa, producendo materiale standardizzato in massa; tale processo è ben visibile dagli elmi tardoantichi, ben più semplici di quelli altoimperiali (ma quelli dei comandanti si mostrano estremamente decorati e lussuosi, segno che le capacità tecniche restavano).

Alcuni armamenti, come la lorica segmentata e il pilum, vengono abbandonati, altri mutano, come il gladio rimpiazzato dalla simile ma più lunga spatha. L’iconica lorica segmentata è attestata per l’ultima volta in Spagna nel tardo III secolo, per poi sparire: probabilmente costi di produzione e mantenimento erano troppo onerosi; la sostituzione, nel III secolo, del gladio con la spatha e del pilum con la lancia, oltre al ritorno a scudi ovali, indica un cambio di tattiche. Non più un atteggiamento offensivo, che vedeva i legionari andare incontro al nemico, ma più difensivo, quasi falangitico. All’interno della legione vengono infatti creati, a partire dai Severi, reparti di lancearii, ossia legionari con lancia.

Nel corso del secolo successivo i reparti romani si specializzano sempre di più, l’uno a combattere contro la cavalleria, uno a schermagliare, etc., e al contempo aumentano notevolmente i reparti di cavalieri e arcieri a cavallo. Grazie a un documento del tardo IV, inizio V secolo, la Notitia Dignitatum, conosciamo i nomi e le insegne di praticamente tutti i reparti romani, sia occidentali che orientali.

Ciò che ne risulta, nel IV secolo, è un esercito molto più variegato e frammentato in piccoli reparti e diverse catene di comando (i duces per i limitanei della frontiera, i magistri militum per i comitatensi e i palatini), con un apporto maggiore di cavalleria. L’idea tattica, da Costantino in poi, è quella di avere pertanto i limitanei sul limes, pronti a intervenire contro le minacce minori e rallentare le invasioni maggiori, per poi aspettare l’intervento dei comitantensi e delle truppe palatine. Tuttavia il continuo calo qualitativo dei limitanei, le durissime guerre civili in occidente del IV secolo (Magnezio, Magno Massimo e Eugenio), fanno perdere continuamente uomini all’esercito gallico. Lo stesso Giuliano avrà forti difficoltà a respingere gli alemanni, con appena una decina di migliaia di uomini.

Quando nel 406 il Reno si ghiaccia e viene attraversato in massa dai barbari, né i limitanei, né i franchi (che erano stati accolti nell’impero e avevano con questo un trattato di amicizia e difesa), sono in grado di opporre resistenza, mentre le truppe migliori sono impegnate contro Alarico. Successivamente l’impotenza romana ad affrontare i barbari conduce ad accoglierli come foederati: forniranno contingenti, comandati dagli stessi barbari, in cambio di un terzo delle terre del luogo dove erano ospitati (nel caso dei visigoti, ad esempio, l’Aquitania); tale regime infatti avrà il nome di hospitalitas.

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La legione romana
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