In seguito alla caduta e alla decadenza dei regni ellenistici degli epigoni di Alessandro Magno, in oriente cominciò, specialmente dal II secolo a.C. e ancora di più in quello successivo, a diffondersi la pirateria. La mancanza di controllo statale, le continue guerre, le grandi ricchezze, erano causa della grande fortuna che avevano i pirati nel Mediterraneo orientale; specialmente luoghi come Creta o la Cilicia divennero ritrovi e covi di pirati di ogni genere. Tuttavia l’emergere della potenza di Roma fece sì che questo nemico venisse prima circuito, per avere appoggio militare, poi affrontato a viso aperto.

Spartaco

Esasperato dalle condizioni di vita cui era sottoposto, Spartaco guidò, nel 73 a.C., una rivolta dalle cucine dell’anfiteatro, usando come armi posate e altri attrezzi. Riuscì ad evadere insieme ai suoi compagni e rifugiarsi sul monte Vesuvio (all’epoca in cima ricoperto da foreste), dove nonostante i ribelli fossero meno di un centinaio riuscirono a respingere la guarnigione romana locale e si poterono armare; Spartaco insieme a Enomao Crisso vennero eletti capi della rivolta.

Il senato allora inviò due pretori, Gaio Claudio Glabro e poi Publio Varinio in Campania, con il compito di stroncare la ribellione. Tuttavia l’esercito del primo era raccogliticcio, anche se contava circa 3.000 uomini, poichè non ci si aspettava una grande minaccia. Glabro bloccò l’unica via di fuga, ma non costruì neanche il campo: i ribelli si calarono di notte con delle funi sull’altro versante del Vesuvio, accerchiando il campo romano e dandosi al massacro. L’eco della vittoria fece arrivare tra i ribelli numerosi fuggitivi, schiavi e poveri, che cercavano rivalsa verso Roma, ingrossando le fila dell’esercito di Spartaco. Quest’ultimo successivamente sconfisse anche il pretore Publio Varinio, aumentando ancora di più il suo prestigio. I consoli Gaio Cassio Longino e Marco Terenzio Varrone Lucullo avevano preso sottogamba la questione e ora si trovavano una rivolta che divampava in tutto il sud Italia. Ma anche tra i ribelli c’era aria di crisi: non essendo tutti d’accordo i germani e galli, capeggiati da Crisso ed Enomao volevano attaccare Roma mentre Spartaco era contrario. Si decise infine di spostarsi in Lucania e Calabria, dove i rivoltosi si diedero al saccheggio.

Nel 72 a.C. il console Lucio Gellio Publicola, incaricato insieme al collega Gneo Cornelio Lentulo Clodiano di schiacciare la ribellione, riportò una vittoria decisiva con le forza gallo-germaniche di Crisso, che trovò la morte nella battaglia del Gargano. Gellio si mosse poi verso nord, inseguendo Spartaco che si stava spostando verso le Alpi in fuga, il quale tuttavia riuscì a sconfiggere l’esercito di entrambi i consoli. Secondo Appiano, per vendicare la morte di Crisso, seguendo i riti funebri romani, Spartaco decise di far combattere come gladiatori, all’ultimo sangue, 300 soldati catturati. Continuando verso nord Spartaco sconfisse anche il proconsole Gaio Cassio Longino Varo nei pressi di Modena, il quale si salvò a stento. Tuttavia, arrivato quasi alla meta, per motivi sconosciuti, il gladiatore trace decise di tornare indietro, arrivando finoa Thurii, in Lucania, dove sconfisse un altro esercito romano.

Il senato decise quindi di dare pieni poteri al proconsole Marco Licinio Crasso per sedare la rivolta. Forte delle sue enormi ricchezze, ottenne il comando di otto legioni, prendendone sei per affrontare Spartaco (più due raccolte tra i sopravvissuti degli scontri con il ribelle), che vennero però decimate tramite il sistema della verberatio, ossia a bastonate, dopo una prima sconfitta inflitta dal trace a Mummio, uno degli ufficiali del proconsole. Fu allora che Spartaco decise di abbandonare l’Italia e mettersi d’accordo con i pirati cilici, i quali però non arrivarono mai, forse comprati dall’oro del governatore di Sicilia Gaio Licinio Verre. Intrappolati in Calabria, Crasso diede ordine di costruire un enorme muro che tagliasse la punta dello stivale per affamarli. Tuttavia il trace riuscì ad aggirarlo e risalire verso nord, inseguito da Crasso.

Il rapimento di Cesare

Dopo la morte di Silla, Marco Emilio Lepido, padre del triumviro e comandante di Cesare, cercò di ridurre il peso delle riforme sillane con una rivolta armata; sperava che Cesare lo appoggiasse visti i suoi trascorsi con Silla e aveva già organizzato un esercito in Etruria, ma Cesare si mantenne distante (come avrebbe fatto poi con Catilina). Lepido venne sconfitto e si ritirò in Sardegna, dove morì poco dopo, afflitto anche dalla notizia del pubblico adulterio della moglie Apuleia, da lui amatissima. Cesare approfittò dell’occasione non per combattere militarmente, ma con le parole, che sapeva usare egregiamente: accusò di concussione Cneo Cornelio Dolabella, un consolare sillano, tra i più conservatori, che venne salvato solo da due dei più grandi oratori del tempo, Quinto Ortensio Ortalo e Gaio Aurelio Cotta, che ancora una volta riprese l’accusa di sodomita nei confronti di Cesare. Quest’ultimo l’anno successivo attaccherà invece Gaio Antonio Ibrida, zio di Marco Antonio e collega di Cicerone durante il consolato del 63 a.C., quando Catilina tentò di prendere il potere. Stavolta Cesare mise all’angolo lo zio del suo futuro pupillo, reo di aver saccheggiato la Grecia di ritorno dall’Asia; Antonio si salvò per il rotto della cuffia, appellandosi ai tribuni della plebe, che riconobbero che un romano non doveva difendersi poiché il reato sarebbe stato nei confronti dei greci e pertanto non poteva essere giudicato.

Cesare aveva ottenuto grande fama da questi processi; decise pertanto di perfezionare i suoi studi intraprendendo un viaggio verso Rodi, dove avrebbe studiato filosofia e retorica. Era il 74 a.C. Poco tempo prima Cicerone aveva visitato l’isola, dove insegnavano i famosi Posidionio e Apollonio figlio di Molone. Tuttavia durante la navigazione, al largo dell’isola di Farmacussa, nei pressi di Mileto, Cesare fu intercettato e catturato dai temibili pirati cilici, che all’epoca imperversavano nel Mediterraneo (e che verranno stroncati da Pompeo alcuni anni dopo). I pirati capirono che avevano catturato qualcuno di importante e chiesero un riscatto di venti talenti (circa mezza tonnellata d’argento); al che Cesare, indispettito, avrebbe risposto che per lui ne avrebbero dovuti chiedere cinquanta.

Cesare inviò i suoi servi a racimolare il denaro nelle città vicine. Dopo quaranta giorni tornarono con il denaro. E’ Velleio Patercolo a specificare che il denaro fu dato dalle città costiere (Polieno specifica che fu Mileto ad accollarsi la spesa) a causa dell’insufficiente controllo contro la pirateria (“publica civitatium pecuniam redemptus est” – Vell. Pat., II, 42, 2); a quell’epoca era dilagante nel Mediterraneo e i cittadini romani venivano tutelati in questo modo. Nel frattempo la situazione era diventata surreale: i pirati in parte increduli della cifra, in parte irretiti dal romano, in parte succubi dello stesso, venivano comandati a bacchetta da Cesare, che sembrava il loro capo più che il loro ostaggio.

Pagato il riscatto di cinquanta talenti, Cesare raccolse privatamente delle navi, per dar loro la caccia (aveva infatti minacciato di impiccarli) – senza alcun imperium – e li sorprese nei pressi di Mileto, dove in seguito a uno scontro navale li catturò, comprese le loro ricchezze. Li portò nella prigione di Pergamo, ma il governatore Marco Iunco tergiversava, visto anche il grande bottino, su cui forse mirava di mettere le mani. Cesare allora decise di agire e li fece crocifiggere; Svetonio aggiunge un particolare “benevolo”, ossia che il futuro dittatore prima di crocifiggerli li fece strangolare:

«Non passò però molto tempo che s’imbarcò di nuovo, ma giunto al largo dell’isola di Farmacussa fu catturato dai pirati, che già allora dominavano il mare con vaste scorrerie e un numero sterminato di imbarcazioni. I pirati gli chiesero venti talenti per il riscatto, e lui, ridendo, esclamò: «Voi non sapete chi avete catturato! Ve ne darò cinquanta!». Dopodiché spedì alcuni del suo seguito in varie città a procurarsi il denaro e rimasto lì con un amico e due servi in mezzo a quei Cilici, ch’erano gli uomini più sanguinari del mondo, li trattò con tale disprezzo che quando voleva riposare gli ordinava di fare silenzio. Passò così trentotto giorni come se fosse circondato non da carcerieri ma da guardie del corpo, giocando e facendo ginnastica insieme con loro, scrivendo versi e discorsi che poi gli faceva ascoltare, e se non lo applaudivano li redarguiva aspramente chiamandoli barbari e ignoranti. Spesso, scherzando e ridendo, minacciava d’impiccarli, e quelli, attribuendo la sua sfrontatezza all’incoscienza tipica dell’età giovanile, a loro volta gli ridevano dietro. Ma appena giunse da Mileto il denaro del riscatto e pagata la somma fu rilasciato, allestì subito delle navi e dal porto di quella stessa città salpò alla caccia dei pirati. Li sorprese che stavano alla fonda nelle vicinanze dell’isola, li catturò quasi tutti, saccheggiò i frutti delle loro razzie, fece rinchiudere gli uomini nella prigione di Pergamo e si recò difilato dal governatore d’Asia, Marco Iunco, che in qualità di propretore [con imperium proconsulare, ndr.] aveva il compito di punire i prigionieri. Ma quello, messi gli occhi sul bottino (piuttosto cospicuo, in verità), disse che si sarebbe occupato a suo tempo dei prigionieri. Allora Cesare, mandatolo alla malora, tornò di corsa a Pergamo e tratti fuori dal carcere i pirati li fece crocifiggere tutti quanti, così come […], con l’aria di scherzare, gli aveva spesso pronosticato.»

Plutarco, vita di Cesare, 1-2

La guerra di Pompeo

Infatti nel corso del I secolo a.C. l’attività piratesca nel Mediterraneo orientale si era intensificata, fino a giungere addirittura a proporre l’aiuto per la fuga a Spartaco da parte dei pirati cilici, che però poi si ritirarono misteriosamente dall’accordo.

In parte erano colpevoli di ciò anche i romani, che proibivano sistematicamente alle città che venivano sconfitte e stavano sul mare di riarmarsi e costruire flotte, favorendo dunque la creazione di zone franche. Lo stesso Cesare in gioventù era stato catturato dai pirati e si salvò con grandi difficoltà. I pirati si erano arricchiti oltremodo, spingendosi anche a razziare l’interno, specialmente i ricchi santuari d’Asia, mentre sbeffeggiavano i cittadini romani che catturavano (compreso lo stesso Cesare), fingendo di onorarli oltre ogni misura per poi gettarli in mare.

In questa situazione confusionaria fu affidato dal senato, su proposta del tribuno della plebe Gabinio, il comando straordinario e senza limiti per tre anni, unimperium maius et infinitum, a Pompeo su tutto il Mediterraneo e le coste fino a 70 km all’interno. Nessuno aveva mai avuto un potere simile nella res publica. Pompeo, dotato di 200 navi, divise il Mediterraneo (compreso il Mar Nero) in tredici settori, assegnandolo ognuno a un suo subordinato (gli era stato concesso di nominarne 15 a piacimento oltre ad aver ottenuto 6.000 talenti per la guerra. Iniziando da occidente, fece fuori le navi che navigavano in acque italiche, procedendo mano mano verso oriente. Catturati i pirati, concesse loro di ritornare a vivere civilmente nei luoghi designati se avessero comunicato dove si trovavano gli altri. Nel giro di pochi mesi riuscì a sradicare la pirateria da tutto il Mediterraneo orientale, specialmente l’isola di Creta e le coste meridionali dell’Anatolia, mentre la Cilicia, covo di pirati, divenne provincia romana. 10.000 pirati furono uccisi e furono catturate 446 navi e 20.000 prigionieri.

Contrariamente a quanto temuto da molti, dopo aver anche conquistato gran parte dell’oriente grazie alla lex Manilia, Pompeo sciolse l’esercito e non si presentò alle elezioni consolari per l’anno successivo anche se avrebbe voluto, perché varcare il pomerium gli avrebbe fatto perdere il diritto al trionfo. Pompeo non si impuntò e si adeguò al volere del senato, ma fece pressioni per far eleggere un suo pupillo, Afranio; pare che ci furono grossi esempi di corruzione per la sua elezione, con moltissimi che si recavano a casa di Pompeo fuori dal pomerium.


«Furono catturate e condotte nei porti 700 navi armate di tutto punto. Nella processione trionfale vi erano due carrozze e lettighe cariche d’oro o con altri ornamenti di vario genere; vi era anche il giaciglio di Dario il Grande, figlio di Istaspe, il trono e lo scettro di Mitridate Eupatore, e la sua immagine a quattro metri di altezza in oro massiccio, oltre a 75.100.000 di dracme d’argento. Il numero di carri adibiti al trasporto di armi era infinita, come pure il numero dei rostri delle navi. […] Davanti a Pompeo furono condotti satrapi, figli e comandanti del re [del Ponto] contro i quali [Pompeo] aveva combattuto, che erano (tra quelli catturati e quelli dati in ostaggio) in numero di 324. Tra questi c’era il figlio di Tigrane II, cinque figli maschi di Mitridate, chiamati Artaferne, Ciro, Osatre, Dario e Serse, ed anche due figlie, Orsabari ed Eupatra. […] su un cartello era rappresentata questa iscrizione: rostri delle navi catturate pari a 800; città fondate in Cappadocia pari a 8; in Cilicia e Siria Coele pari a 20; in Palestina pari a quella che ora è Seleucis; re sconfitti erano l’armeno Tigrane, Artoce l’iberico, Oroze d’Albania, Dario il Mede, Areta il nabateo ed Antioco I di Commagene. […] Tale era la rappresentazione del trionfo di Pompeo.»

(Appiano di Alessandria, Guerre mitridatiche, 116-117)

Mare nostrum

Vinti i pirati da Pompeo il Mediterraneo diventò un mare sicuro, il Mare Nostrum, permettendo la prosperità e i commerci. Tuttavia negli ultimi anni della res publica, dopo la morte di Cesare, la situazione rimase ancora turbolenta, poiché uno dei figli di Pompeo, Sesto Pompeo, prese possesso della Sicilia, da cui lanciava operazioni di pirateria verso le navi che portavano grano a Roma, mettendo dunque in grande difficoltà Ottaviano. Fu solo con la vittoria di Nauloco, il 3 settembre 36 a.C., ad opera di Agrippa (e poi di Azio, sempre da parte sua, il 2 settembre 30 a.C.) che il Mediterraneo divenne un mare sicuro, almeno fino alle prime scorrerie di barbari attorno il 270 d.C.

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La pirateria nel Mediterraneo
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