Roma e Cartagine, le due potenze egemoni nel Mediterraneo all’alba del III secolo a.C., erano in contatto da molti secoli. Secondo Polibio i primi rapporti risalivano alla data della nascita della repubblica, il 509 a.C. e vedevano Roma in una posizione essenzialmente subordinata a Cartagine, con quest’ultima che riconosceva alla città capitolina il solo controllo del Lazio e la libertà commerciale. Andando avanti nei secoli, gli accordi del 348, 306 e 279 a.C. attribuivano a Roma progressivamente più libertà d’azione in Italia e di commercio verso il Mediterraneo. L’ultimo trattato era stato necessario visto lo sbarco di Pirro in Italia e la alleanza con Siracusa; i cartaginesi infatti non erano mai riusciti a completare la conquista della Sicilia:

«…in esso [il trattato, ndr.] conservano tutti gli altri punti alle condizioni esistenti e a questi viene aggiunto quanto scritto di seguito: “Qualora facciano alleanza con Pirro, gli uni e gli altri mettano per iscritto che sia permesso portarsi soccorso a vicenda nel territorio di chi viene attaccato; a quale dei due abbia bisogno di soccorso i Cartaginesi forniscano le imbarcazioni sia per l’andata sia per il ritorno, e gli uni e gli altri gli stipendi ai rispettivi uomini. I Cartaginesi portino soccorso ai Romani anche per mare, se c’è bisogno. Nessuno costringa gli equipaggi a sbarcare contro la loro volontà”.»

Polibio, storie, III, 25.3-5
Roma e Cartagine all’inizio della prima guerra punica (264 a.C.)


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Casus Belli: i Mamertini

Mentre i Romani fronteggiavano Pirro (280-275 a.C.), in Sicilia un gruppo di mercenari campani, i Mamertini (così chiamati perché onoravano Marte, dio della guerra), inizialmente al soldo del tiranno di Siracusa Agatocle (316-289 a.C.), avevano occupato la città di Messina, quando quest’ultimo era morto, nel 288 a.C. I Mamertini, dopo la vittoria di Roma su Pirro, continuavano a saccheggiare i territori circostanti Messina, ma vennero affrontati e sconfitti a Milazzo dal tiranno di Siracusa Gerone II, nel 270 a.C. Fu allora che i mercenari chiesero inizialmente aiuto a Cartagine contro Siracusa e poco dopo anche a Roma, forse temendo l’eccessivo controllo cartaginese, forse non ben consci del fatto che i trattati romano-cartaginesi imponevano ai Romani di non mettere piede in Sicilia.

A Roma il senato non riuscì a giungere a una decisione quando arrivò la richiesta di aiuto: da un lato alcuni non ritenevano corretto aiutare dei mercenari che si erano impossessati della città (nel 270 a.C. i Romani avevano ripreso la città di Reggio, anch’essa conquistata da mercenari, dei quali i 4.000 superstiti della presa “abusiva” della città nel 280 furono tutti fustigati e decapitati come monito), dall’altra si temeva che una volta presa Messina Cartagine avrebbe conquistato Siracusa e controllato totalmente la Sicilia, ponendo i Romani in grave difficoltà e intaccandone gli interessi. Si decise pertanto di rimettere la decisione ai comizi, i quali decisero di votare a favore dell’aiuto dei Mamertini: nel 264 a.C. il console Appio Claudio Caudice fu inviato in Sicilia ed entrò a Messina, violando l’ultimo trattato romano-cartaginese che imponeva ai Romani di restare in Italia.

I primi scontri: la guerra via terra e la costruzione della flotta. Milazzo e Capo Ecnomo

I Romani riuscirono a sconfiggere un primo esercito cartaginese e siracusano e quest’ultimi si tirarono fuori dalle ostilità, appoggiando i rifornimenti romani, mentre i Romani avanzavano verso sud-ovest: Catania si consegnò a Roma e i Romani giunsero fino ad Agrigento nel 262 a.C., ponendola sotto assedio. Il difensore Annibale Giascone attese l’arrivo dei rinforzi, comandati da Annone: i Romani si trovarono da assedianti ad assediati, motivo per cui puntarono sulla battaglia campale: i consoli Lucio Postumio Megello e Quinto Mamilio Vitulo ebbero la meglio nel 261 a.C. sull’esercito mercenario cartaginese e la città venne presa dopo sette mesi d’assedio. Poco dopo anche Segesta si alleò con Roma.

Si decise dunque di costruire una flotta composta di 100 quinqueremi e 20 triremi, copiandone anche dei modelli cartaginesi, con l’aiuto delle città greche d’Italia, mentre venivano arruolati contadini italici e venivano addestrati a remare con navi finte. Polibio racconta che i Romani avevano preso come modello una nave cartaginese che avevano catturato all’inizio della guerra:

«…una loro [dei Cartaginesi] nave coperta, nello slancio si spinse avanti fino a incagliarsi e cadere nelle mani dei Romani. Essi allora, usando questa come modello, sulla base di essa costruirono tutta la flotta.»

Polibio, Storie, I, 20

Tuttavia un primo scontro nel 260 a.C. alle Isole Lipari tra il console Gneo Cornelio Scipione Asina e le forze cartaginesi finì con la disfatta romana e la cattura del console (poi liberato forse dietro pagamento del riscatto e nuovamente rieletto console nel 254 a.C.). I Romani adottarono dunque una nuova arma, il corvo, una specie di enorme braccio che agganciava le navi nemiche per combattere come sulla terraferma. Tale stratagemma venne utilizzato dall’altro console, Gaio Duilio, sempre nel 260 a.C., a Milazzo:

«…restarono incerti, stupiti dal modo in cui gli attrezzi erano congegnati; tuttavia, avendo una pessima opinione dei nemici, quelli che navigavano davanti a tutti si gettarono audacemente all’attacco.»

polibio, storie, i, 23

La tattica si rivelò vincente e fu una grande vittoria per i Romani, nonostante i Cartaginesi riponessero fiducia estrema nella loro maggiore esperienza navale:

«Confidando nella loro velocità speravano di portare gli assalti a colpo sicuro, gli uni dai fianchi, gli altri da poppa.»

polibio, storie, i, 23

Seguirono altre battaglie navali e vittorie romane: il comandante cartaginese Annibale Giascone, dopo un’altra sconfitta a Sulci Tirrenica nel 258 a.C., venne catturato dai suoi stessi soldati e crocifisso.

Attilio Regolo e il fallimento della spedizione africana

I Romani, forti dei successi, organizzarono una flotta ancora più grande e si preparano ad attraversare il mare e invadere l’Africa. L’enorme flotta romana (all’incirca 300 navi per parte), guidata dai consoli Marco Attilio Regolo e Lucio Manlio Vulsone, si scontrò a Capo Ecnomo nel 256 a.C. con quella cartaginese: ancora una volta i corvi furono fondamentali e quella che probabilmente fu la più grande battaglia navale dell’antichità si risolse con la vittoria romana. Riparate le navi e aggiunte alla flotta sessantaquattro navi cartaginesi catturate, i Romani attraversarono il mare e sbarcarono a Clupea. Dopo un primo scontro favorevole a Roma a Adys, i due contendenti intavolarono trattative di pace, rigettate da Cartagine poichè considerate troppo dure. Racconta Polibio che i Cartaginesi si rifiutarono quasi anche di ascoltarle tanto erano dure:

«Il Senato dei Cartaginesi, dopo aver ascoltato le proposte del console romano, benché avesse quasi perduto le speranze di salvezza, si comportò con tanta fermezza e nobiltà d’animo da scegliere di sopportare tutto e tentare ogni mezzo e ogni opportunità, pur di non accettare nulla di ignobile e di indegno del proprio passato.»

POLIBIO, STORIE, I, 31

I Romani in sostanza pretendevano il pieno controllo della Sicilia, condizione a cui a Cartagine non erano disposti a cedere. I Cartaginesi assoldarono allora un comandante spartano, Santippo, per condurre le operazioni, il quale sconfisse Attilio Regolo, che sottovalutò il nemico, nel maggio del 255 a.C., nella battaglia di Tunisi. Fu una vittoria importantissima per Cartagine, dato che Regolo venne catturato e portato a Cartagine, mentre Santippo decideva, per evitare di rimanere invischiato nelle lotte politiche locali, di tornare in Grecia; tuttavia secondo Diodoro Siculo una fazione cartaginese fece affondare la nave che lo riportava in Grecia.

A Roma il senato, venuto a conoscenza della disfatta, organizzò una flotta di soccorso, secondo Polibio, composta da ben 350 navi e guidata dai due consoli del 255 a.C., Marco Emilio Paolo e Servio Fulvio Petilio Nobiliore: i Romani e i Cartaginesi si scontrarono al largo di Capo Ermeo e 114 navi furono catturate dai Romani insieme all’equipaggio; se le cifre di Polibio fossero veritiere si tratterebbe di una battaglia ancora più grande di quella di Capo Ecnomo (Diodoro d’altra parte parla di sole 24 navi perse dai cartaginesi). A Clupea vennero raccolti i 2.000 sopravvissuti della precedente battaglia, ma sulla via del ritorno una tempesta distrusse gran parte della flotta. Nel frattempo Attilio Regolo era prigioniero dei Cartaginesi:

«Da tale obbrobrio s’era guardato il senno preveggente di Regolo, quando non consentiva alle inique condizioni di pace, e […] presagiva la rovina per l’età futura, se non si fosse sacrificata senza rimpianto la gioventù prigioniera. «Ho visto (disse) le nostre insegne confitte ai templi di Cartagine, e ai nostri soldati strappate le armi, senza spargimento di sangue; ho visto con questi occhi le braccia di liberi cittadini avvinte dietro le loro schiene, e spalancate le porte di Cartagine, e coltivati i campi già devastati dalla nostra guerra. E sì che, riscattato con l’oro, tornerà più valoroso il nostro soldato! Alla sventura voi volete aggiungere il danno. Né la lana, tinta una volta col fuco, riprende il colore primitivo, né il vero valore, una volta caduto, cura di tornare nei degeneri. Com’è atta a respingere il cacciatore una cerva, che sia sfuggita alle maglie della rete, così sarà forte colui, che si arrese a nemici senza fede, e così in una nuova battaglia distruggerà i Cartaginesi colui, che potè sentire impassibile i lacci attorcigliati alle braccia, ed ebbe timore della morte. Questi, che non seppe d’onde ricavare la sua salvezza, ha fatto un sol fascio della guerra e della pace. o disonore! o Cartagine potente, che t’innalzi sulle rovine vergognose dell’Italia!» Si narra ch’egli respingesse da sé il bacio della consorte pudica e i piccoli figli, come un cittadino menomato ne’ suoi diritti, e tenesse il maschio volto fisso a terra, finché non ebbe convinti i titubanti senatori ad accettare il suo consiglio, non mai dato altra volta; e, fra le lagrime degli amici, si affrettasse generosamente a partire per l’esilio. Sapeva bene ciò, che gli preparava il carnefice barbaro: tuttavia allontanò i parenti, che cercavano di opporglisi, e il popolo, che voleva tardare la sua partenza; come se, avendo a lungo patrocinate le ragioni dei clienti, dopo pronunziata la sentenza, si ritirasse ai campi di Venafro o alla spartana Taranto.»

Orazio, odi, iii, 5

Questa invece la versione di Tito Livio:

«Attilio Regolo in Africa uccise un serpente di straordinaria grandezza, con la perdita di molti suoi soldati; dopo aver riportato il successo in alcuni combattimenti contro i Cartaginesi, poiché il senato non gli mandava un successore in quanto la guerra veniva condotta felicemente, si lamentò di questo in una lettera al senato, e tra i motivi per chiedere un successore addusse il fatto che il suo podere era stato abbandonato dai lavoratori salariati. In seguito, volendo la Fortuna mostrare in Regolo un esempio di entrambi gli estremi, egli fu vinto in battaglia da Santippo, generale spartano chiamato dai Cartaginesi, e fu fatto prigioniero. Successivamente tutti i generali romani ottennero successi per terra e per mare; ma questi furono oscurati dal naufragio delle flotte. Fu eletto il primo pontefice massimo plebeo, Tiberio Coruncanio. I censori Manio Valerio Massimo e Publio Sempronio Sofo, facendo la rassegna del senato, ne allontanarono sedici senatori. Tennero il censimento, in cui furono censiti 297.797 cittadini. Regolo fu mandato dai Cartaginesi al senato per trattare della pace, e, se non fosse riuscito ad ottenerla, per concordare lo scambio dei prigionieri; pur essendosi obbligato con giuramento a ritornare a Cartagine, se i Romani non avessero approvato lo scambio dei prigionieri, egli consigliò il senato a rispondere negativamente ad entrambe le richieste, e tornato indietro secondo la parola data, morì torturato dai Cartaginesi.»

tito livio, periochae, xviii

Regolo, prigioniero dei Cartaginesi, aveva accettato di essere mandato a Roma per trattare la pace, promettendo che in caso di mancato accordo sarebbe tornato a Cartagine e avrebbe subito la pena di morte. Attilio Regolo, arrivato a Roma, spinse i senatori a non accettare le condizioni di pace, avendo visto le difficoltà in cui versava la città africana, pertanto poi decise di tornare indietro e affrontare la morte, forse dopo che gli furono strappate le palpebre e chiuso in una botte di chiodi gettata da una collina (Seneca invece parla di crocifissione).

Amilcare e la seconda fase della guerra

Nel frattempo i Romani, nel 253 a.C., avevano tentato di riportare la guerra in Africa, nella zona di Sirte, ma al ritorno anche questa flotta venne distrutta da una tempesta. Nel 251 a.C. i Romani vinsero i Cartaginesi di Asdrubale a Palermo, ma inviarono una nuova armata in Sicilia che riprese Agrigento. I Romani, l’anno successivo, iniziarono l’assedio di Lilibeo (Marsala), senza successo. Nel 249 a.C. quasi tutta la flotta romana, che aveva tentato senza successo di sorprendere quella cartaginese comandata da Aderbale, venne distrutta nella battaglia di Trapani. La colpa venne data al console Publio Claudio Pulcro che, non ottenendo il risultato sperato dai polli augurali, i quali avevano deciso di non beccare il mangime (considerato di buon augurio), li fece gettare in mare esclamando: “se non vogliono mangiare, che bevano” (Polibio, Storie, I, 49-52).

«Quando i polli sacri avevan dato auspicio sfavorevole rifiutando il cibo, egli li buttò a mare, esclamando: “E allora bevano!”.»

Polibio, Storie, I, 49

«Il console Claudio Pulcro, che era uscito con la flotta contro il volere degli auspici (aveva fatto affogare i polli che non volevano mangiare) fu sconfitto in battaglia navale dai Cartaginesi; richiamato dal senato e ricevuto l’ordine di nominare un dittatore, nominò Claudio Glicia.»

tito livio, periochae, xIX

Morto Attilio Regolo, attorno al 246 a.C. (probabilmente più o meno nello stesso periodo di Claudio Pulcro, che rientrato a Roma pagò una multa e probabilmente si suicidò), dopo un periodo di scontri a bassa intensità tra il 248 e il 243 a.C., ripresero le ostilità con ancora più vigore, con i Cartaginesi che avevano scelto come comandante Amilcare Barca. Nonostante ciò anche Cartagine era in difficoltà poiché aveva tentato di finanziarsi, senza riuscirci, dal re Tolomeo II Filadelfo d’Egitto, a cui era stato chiesto un prestito di 2.000 talenti.

Sia Roma che Cartagine erano allo stremo e non sapevamo più dove reperire le risorse per combattere; d’altra parte Amilcare in Sicilia stava dando filo da torcere ai Romani, dato che si era asserragliato sul monte Erice, da cui lanciava continuamente attacchi ai Romani verso Lilibeo (Marsala) e Drepano (Trapani), che assediavano, ma anche verso altri centri siciliani e le coste del sud Italia.

La battaglia delle Isole Egadi

Nel 242 a.C. i Romani fecero un ultimo enorme sforzo e misero insieme una flotta di più di 200 quinquiremi, con l’aiuto di fondi privati e pubblici. Il console Lutazio Catulo si diresse verso la Sicilia e riuscì a occupare gli sgomenti Cartaginesi di Drepano, rinforzando l’assedio di Lilibeo. Il 10 marzo del 241 a.C., alle Isole Egadi, i Romani affrontavano la flotta inviata dai Cartaginesi e comandata da Annone. Dopo quasi 25 anni di guerra la situazione era ormai critica per entrambi i contendenti:

«L’impresa fu, essenzialmente, una lotta per la vita. Nell’erario, infatti, non c’erano più risorse per sostenere quanto si erano proposti.»

Polibio, Storie, I, 59, 6
Uno dei rostri trovati alle Egadi

La flotta comandata da Annone, anch’essa di circa 250 quinquiremi, era carica di vettovaglie per Amilcare; il comandante cartaginese ancorò la sua flotta ad una delle isole delle Egadi, chiamata Sacra (oggi Marettimo), per dare anche supporto ad Amilcare che comandava i cartaginesi nell’entroterra. Lutazio Catulo, saputo dell’arrivo di Annone, portò la flotta all’isola di Egussa (l’attuale Favignana), il 9 marzo del 241 a.C.

Il giorno dopo Catulo decise di dare battaglia ai cartaginesi, distendendo la flotta romana su una sola linea. Annone non si sottrasse allo scontro, facendo ammainare le vele per avere una migliore mobilità:

« Poiché i preparativi per gli uni e per gli altri venivano regolati in modo opposto rispetto allo scontro navale svoltosi presso Drepana, anche l’esito della battaglia, com’è naturale, risultò opposto per gli uni e per gli altri. »

Polibio, Storie, I, 61, 2

I Romani avevano copiato ulteriormente le navi cartaginesi, alleggerendole; gli equipaggi erano ottimamente addestrati, come sostenuto da Polibio: « soldati di marina scelti, più duri ad arrendersi delle truppe di terra » (Storie, I, 61, 3). D’altro canto i cartaginesi, carichi di rifornimenti, avevano le navi molto appesantite nonostante il vento fosse a loro favore. E, all’opposto, avevano equipaggi raccogliticci:

« gli equipaggi erano completamente privi di addestramento ed erano imbarcati per l’occasione, e i soldati di marina erano appena arruolati e sperimentavano per la prima volta ogni sofferenza e rischio. »

Polibio, Storie, I, 61, 4

La battaglia divenne ben presto una carneficina, con i romani che manovravano molto più efficacemente e avevano truppe molto meglio addestrate. Alla fine della giornata i romani affonderanno 50 navi nemiche e 70 verranno catturate, contro 30 navi perse dai romani e 50 danneggiate. Tuttora vengono trovati, per caso e per ricerca, numerosi rostri nella zona dove si è combattuto.

Fine delle ostilità

Il tempio di Iuturna a Largo di Torre Argentina, Roma

Perso ogni supporto da Cartagine, Amilcare, che da anni combatteva una guerriglia sul monte Erice, conscio del fatto che non ci sarebbe stato alcun aiuto dall’Africa e dell’impossibilità di continuare a combattere, decise di trattare la resa con Lutazio Catulo:

« … pose fine alla contesa, dopo che furono redatti i seguenti patti: “Ci sia amicizia fra Cartaginesi e Romani a queste condizioni, se anche il popolo dei Romani dà il suo consenso. I Cartaginesi si ritirino da tutta la Sicilia e non facciano la guerra a Gerone né impugnino le armi contro i Siracusani né contro gli alleati dei Siracusani. I Cartaginesi restituiscano ai Romani senza riscatto i prigionieri. I Cartaginesi versino ai Romani in vent’anni duemiladuecento talenti euboici d’argento”. »

Polibio, Storie, I, 61, 4

Catulo accettò la proposta, consapevole che anche i romani erano ormai esausti dopo 25 anni di guerra, tuttavia chiedendo che prima i patti venissero ratificati dai comizi e dal senato. Le condizioni di pace furono dunque: rinuncia di qualsiasi attacco a Siracusa, restituzione senza riscatto dei prigionieri, 1.000 talenti subito e 2.200 talenti da versare in dieci anni. Il vincitore delle Egadi, dal canto suo, fece erigere il tempio di Iuturna nel Campo Marzio, la ninfa delle fonti.

I rostri catturati dalle navi cartaginesi furono invece portati a Roma e affissi sul palco che si trovava nei pressi del senato, da cui parlavano i senatori e che da allora sarebbe stato chiamato genericamente “i rostri”. Subito dopo la fine della guerra Cartagine inoltre ebbe difficoltà a pagare i mercenari libici e numidi, che si ribellarono; i punici impiegarono tre anni per domare la rivolta, grazie solamente all’intervento di Amilcare Barca. Fu allora, nel 238 a.C., che Roma decise di prendere la Sardegna e la Corsica, ormai indifese. Non solo, pretesero un ulteriore tributo:

«… conclusa la guerra libica, già avevano approvato un decreto con cui dichiaravano guerra a Cartagine, ed i Romani aggiunsero la seguente clausola: “I Cartaginesi lasceranno la Sardegna e verseranno a Roma altri mille e duecento talenti”.»

Polibio, storie, III, 27.7-8
Roma e Cartagine nel 226 a.C., dieci anni dopo la conquista romana della Sardegna e le conquiste cartaginesi in Spagna

Autore: Giuseppe Concilio



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La prima guerra punica
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