Dopo il fallito assedio di Gergovia, Cesare si allontanò, inseguito da Vercingetorige, mentre inviava messaggeri a Labieno per chiedergli di ricongiungersi a lui. Il comandante gallico, convinto di essere vicino alla vittoria, inviò circa 15.000 cavalieri ad attaccare i romani in marcia, ma Cesare riuscì a schierare le legioni in assetto difensivo, mentre la cavalleria romana, divisa in tre colonne, contrattaccava l’attacco gallico; infine i cavalieri germanici sfondarono lo schieramento gallico, che dovette cessare l’attacco. La cavalleria gallica, sconfitta, ripiegò insieme all’esercito nella vicina città dei mandubi. Il luogo dello scontro finale sarebbe stato dunque la fortezza di Alesia, città sacra per i galli, in cui si rinchiuse Vercingetorige chiedendo aiuto a tutte le tribù galliche: prima che le fortificazioni di Cesare fossero pronte inviò l’intera cavalleria rimasta a chiedere soccorso in tutta la Gallia. Secondo Cesare il re arverno avrebbe avuto all’interno delle mura 80.000 armati, mentre lui disponeva di 10 legioni, ossia circa 50.000 uomini, tra legionari, ausiliari, frombolieri e cavalieri.

Cesare iniziò le opere d’assedio, costruendo una linea di controvallazione e alle spalle una linea di circonvallazione, scavando trincee e fossati profondi, torri, terrapieni, fossati, accampamenti e forti minori; nell’ottocento gli scavi voluti da Napoleone III confermeranno il resoconto dato da Cesare. Quest’ultimo si era basato a sua volta sull’assedio di Scipione Emiliano a Numanzia, in Spagna, circa un secolo prima. Oltre a queste imponenti opere di fortificazione i romani lanciarono nei fossati e negli spazi tra loro e i galli una serie interminabile di trappole: triboli, gigli e quant’altro, tutte perlopiù invisibili alla vista che funzionavano come vere e proprie mine antiuomo ante litteram.

Tuttavia l’appello di aiuto era stato recepito e marciavano in aiuto di Vercingetorige ben 250.000 armati, se si può fare affidamento sulle fonti. In ogni caso molti dovevano essere male armati, ma erano comunque molti più dei romani. In quella torrida estate del 52 a.C. l’assedio procedeva senza grandi colpi di scena, mentre nella città scarseggiava cibo e acqua, essendo costruita per contenere molte meno persone di quelle di cui disponeva l’esercito del re arverno:

«Parlò Critognato, il cui discorso merita di non essere trascurato per la singolare e aberrante crudeltà: “[…] Nel prendere una decisione dobbiamo considerare tutta la Gallia che abbiamo chiamato in nostro aiuto. Quale coraggio pensate che avranno i nostri amici e parenti dopo l’uccisione in un solo luogo [ Alesia, ndr] di ottantamila uomini? […] Dunque qual è il mio consiglio? Di fare come fecero i nostri antenati nella guerra contro i Cimbri ed i Teutoni […] quando, respinti nelle città e costretti da simile carestia, si cibarono dei corpi di coloro che per età non erano più adatti alla guerra e non si arresero ai nemici

Dopo che furono espresse le varie opinioni, stabilirono che coloro che non erano adatti per poca salute o per età alla guerra, uscissero dalla città; di sopportare quindi ogni sacrificio prima di accettare il parere di Critognate; tuttavia che si dovesse ricorrere a quella decisione se la necessità lo richiedesse e gli aiuti tardassero. piuttosto che subire una qualunque condizione di resa o di pace. I Mandubi, che li avevano accolti nella città, furono costretti ad andarsene colle mogli e coi figli. Arrivati alla linea delle fortificazioni romane, piangendo pregarono e supplicarono in tutti i modi di accoglierli in servitù e di dar loro del cibo. Ma Cesare, disponendo corpi di guardia sui parapetti, proibì che fossero accolti.

cesare, de bello gallico vii, 77-78

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Vallo e controvallo

«Cesare, dopo aver disposto la fanteria dalle due parti opposte della fortificazione, affinché ciascuno al momento dell’impiego avesse il posto fisso e lo riconoscesse, diede ordine alla cavalleria di uscire dall’accampamento e di attaccar battaglia. Dagli accampamenti che erano situati da ogni parte sulla sommità dei colli, la vista si stendeva al piano e tutti i soldati con l’animo sospeso erano intenti ad osservare l’esito della battaglia. I Galli avevano posto qua e là in mezzo ai cavalieri degli arcieri e dei soldati armati alla leggera. Questi dovevano correre in aiuto ai loro compagni se cadevano e arrestare l’assalto dei nostri cavalieri. Parecchi dei nostri, feriti all’improvviso da costoro, erano costretti ad abbandonare il combattimento. I Galli persuasi che i loro cavalieri fossero vincitori nella battaglia, poiché vedevano i nostri sopraffatti dal numero da tutte le parti, e quelli che si trovavano nelle fortificazioni e quelli che erano giunti in aiuto, innalzavano clamori ed urla per dar nuovo coraggio ai loro compagni. Poiché si combatteva al cospetto di tutti e non poteva rimaner celata alcuna azione eroica o vile, il desiderio della gloria e il timore dell’infamia spingevano gli uni e gli altri a mostrarsi valorosi. Si combatté con esito incerto dal mezzogiorno sino quasi al tramonto; infine i Germani a squadroni serrati assalirono da una sola parte i cavalieri nemici, li ricacciarono e li volsero in fuga; gli arcieri a loro volta furono circondati ed uccisi. Così pure dalle altre parti i nostri inseguirono i nemici in fuga fino all’accampamento e non diedero loro tempo di riordinarsi. Quelli che erano usciti da Alesia, non avendo quasi più speranza nella vittoria, mestamente si ritirarono nella città.»

cesare, de bello gallico vii, 80,1-9

Il primo combattimento durò a lungo finché al tramonto i due schieramenti stavano per ritirarsi senza vincitori nè vinti quando, nonostante la superiorità numerica dei galli, Cesare inviò sul loro fianco la sua cavalleria germanica, facendo strage non solo dei cavalieri ma anche dei fanti leggeri e degli arcieri galli che secondo la loro tradizione si erano mischiati alla cavalleria, inseguendoli fino all’accampamento nemico. Anche l’esercito di Vercingetorige si ritirò senza colpo ferire, segnando una prima vittoria dei romani.

Il secondo tentativo

«Dopo l’intervallo di un giorno e dopo aver preparato in questo breve periodo di tempo un gran numero di graticci, di scale, di arpioni i Galli verso la mezzanotte in silenzio uscirono dall’accampamento e si accostarono alle fortificazioni in pianura. Levato subito un gran clamore, perché con esso quelli che erano assediati nella città potessero conoscere il loro arrivo, cominciarono a gettar sulle fosse graticci, a respingere i nostri dal vallo con fionde, con saette e con pietre e ad usare tutti i mezzi necessari per l’espugnazione di fortificazioni. Nello stesso tempo Vercingetorige a quel clamore fece dare il segnale con la tromba ai suoi e li condusse fuori dalla città. I nostri corsero alle fortificazioni, al posto a cui ciascuno era stato assegnato nei giorni precedenti e, con le fionde che scagliavano pietre da una libbra, con i pali che avevano deposto nei fortilizi [e con proiettili di piombo], tennero discosti i Galli. Le macchine da guerra lanciavano moltissimi proiettili. Poiché le tenebre toglievano la possibilità di vedere, da una parte e dall’altra vi furono numerosi feriti. Ma i luogotenenti Marco Antonio e Caio Trebonio, ai quali era toccata la difesa di queste posizioni, dove vedevano che i nostri erano maggiormente premuti, mandavano in aiuto soldati tolti dai fortilizi più lontani. Finché i Galli erano parecchio lontani dalle fortificazioni, si avvantaggiavano molto scagliando grande quantità di proiettili; dopo che si appressarono, senza accorgersi s’impigliavano negli «stimoli» o si trafiggevano cadendo nelle fosse, o morivano colpiti dalle aste murali lanciate dal vallo e dalle torri. Molte perdite subirono da ogni parte i Galli, senza che riuscissero a sfondare in nessun punto la fortificazione. Quando già si avvicinava il giorno, temendo di essere accerchiati dal fianco scoperto per l’irruzione dei nostri dagli accampamenti posti sulle alture, si ritirarono presso i loro. Ma i Galli che si trovavano ad Alesia, mentre portavano innanzi i materiali preparati da Vercingetorige per la sortita e riempivano già le fosse più vicine, essendosi indugiati troppo in questo lavoro, prima che essi si fossero avvicinati alla fortificazione seppero che i loro alleati si erano ritirati. Allora, senza aver concluso nulla, ripiegarono anch’essi nella città.»

cesare, de bello gallico vii, 81-82

Nel giorno seguente i galli prepararono una serie di materiali per superare le difese romane: scale, graticci, arpioni. Uscirono infine dal campo di notte, assaltando il vallo romano. Tuttavia i romani erano pronti e risposero all’attacco lanciando contro di tutto, senza contare i galli falciati dai triboli e i gigli invisibili di notte. In quest’occasione viene menzionato per la prima volta da Cesare Marco Antonio, che insieme a Gaio Trebonio, guidarono la difesa. Con lo spuntare del giorno i romani ricacciarono vigorosamente gli assalitori, potendo mirare con più precisione con le loro macchine da getto (catapulte, balliste, scorpioni). Ancora una volta i galli dentro Alesia non si erano coordinati bene e uscirono troppo tardi quando i loro compagni si stavano già ritirando, ritornando dunque ancora una volta in città senza combattere.

«I Galli, respinti due volte con grande danno, si consultarono sul da fare; chiamarono degli uomini esperti dei luoghi; da questi riconobbero dove si trovavano gli accampamenti romani delle alture e come erano difesi. A settentrione vi era un colle che i nostri non avevano potuto comprendere nel giro delle fortificazioni per la larghezza della sua circonferenza, ond’essi per necessità avevano posto l’accampamento in un luogo quasi sfavorevole e in leggero declivio. Questo accampamento era tenuto dai luogotenenti Caio Antistio Regino e Caio Caninio Rebilo, con due legioni. Fatta fare una ricognizione della regione dagli esploratori, i duci nemici scelsero da tutta la massa 60.000 uomini di quelle popolazioni che godevano maggior fama di valore; stabilirono in segretezza tra loro ciò che si dovesse fare ed in qual modo; fissarono che il momento dell’assalto fosse verso il mezzogiorno. Posero a capo di queste truppe Vercassivellauno d’Arvernia, uno dei quattro capi supremi, parente di Vercingetorige. Partito dal campo verso le otto di sera, giunse al termine della marcia verso l’alba. Ivi si occultò dietro il monte e fece riposare i soldati della fatica sopportata nella notte. Quando gli sembrò che già fosse vicino il mezzogiorno, si diresse contro l’accampamento di Regino, di cui ho sopra parlato; nello stesso tempo la cavalleria incominciò ad accostarsi alle fortificazioni di pianura, mentre le altre truppe si schieravano dinanzi all’accampamento. Vercingetorige, scorgendo i suoi alleati dalla rocca di Alesia, uscì dalla città e fece portare avanti graticci, pertiche, muscoli, falci e tutto ciò che aveva preparato per la sortita. Si combatté contemporaneamente in tutti i luoghi e non si lasciò nulla d’intentato; dove la nostra posizione sembrava meno salda, ivi lo scontro si faceva più violento. Le schiere romane si assottigliavano divise in così vaste linee di difesa e non era facile tener fronte in più luoghi. Ad atterrire i nostri molto contribuiva il clamore che si levava alle spalle dei combattenti, perché vedevano che il proprio pericolo dipendeva dal valore dei compagni; Infatti sono le cose non viste che turbano di più le menti umane.»

cesare, de bello gallico vii, 83-84

L’ultimo attacco

I galli, non riuscendo a prendere le fortificazioni romane le ispezionarono, trovando un punto debole, il campo superiore, ai piedi del Monte Rea, che non era stato possibile inglobare all’interno delle fortificazioni per via del terreno scosceso. Decisero che quello sarebbe stato il punto dove avrebbero sferrato l’attacco finale e decisero che lo avrebbe comandato Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige e uno dei quattro comandanti supremi dei galli. Quest’ultimo, uscito dal suo campo di notte, giunse con l’esercito ai piedi del monte prima dell’alba, nascondendovisi dietro. Dopo aver fatto riposare i soldati, verso mezzogiorno attaccò il campo romano, mentre nello stesso momento, nella piana di Laumes, dove si erano già scontrate le cavallerie, fu inviata la cavalleria e altre truppe a tenere impegnati i romani in un altro settore del vallo. Vercingetorige, visto l’attacco dei suoi alleati, lanciò anch’egli l’offensiva contro il vallo romano. Ora Cesare era attaccato su tre fronti e uno di questi era il suo punto debole:

«Cesare, trovata un’altura adatta, seguiva attentamente le operazioni e il luogo in cui esse si svolgevano: dove la resistenza era più debole, inviava rinforzi. Romani e Galli comprendevano che quello era il momento in cui soprattutto occorreva combattere: i Galli, se non spezzavano la linea di fortificazione, perdevano la speranza di salvezza; i Romani dalla vittoria si aspettavano la fine di tutti i loro travagli. Soprattutto le cose volgevano a male presso le fortificazioni sulle alture dove, come abbiamo detto, era stato mandato Vercassivellauno. La pendenza del colle, sfavorevole ai Romani, presentava la maggiore difficoltà. Alcuni lanciavano dardi, altri avanzavano formando una testuggine; a quelli già stanchi succedevano a turno quelli freschi di forze.Tutti i Galli gettavano materiali d’ogni genere nelle fosse e coprivano le insidie che i Romani avevano occultato in terra e così potevano avere l’accesso al vallo; né le armi, né le forze sostenevano più i nostri. Cesare, resosi conto di questa situazione, mandò in aiuto ai nostri in pericolo Labieno con sei coorti; gli ordinò che, se non poteva resistere, facendo uscire le sei coorti dal vallo, affrontasse il combattimento con una sortita; però doveva far ciò solo se costretto dalla necessità. Egli poi andò presso gli altri combattenti e li esortò a non lasciarsi piegare dalla stanchezza; in quel giorno, anzi in quel momento, era riposto il frutto di tutte le passate battaglie. I nemici dall’interno, non avendo più speranza di conquistare le linee romane di pianura per la grandezza delle fortificazioni, 〈si dirigono verso〉 colli scoscesi e attaccano dall’alto; ivi portano i materiali che avevano preparato. Scacciano i difensori dalle torri con una fitta pioggia di proiettili, riempiono con materiali e con graticci le fosse, con le falci sconvolgono il vallo e il rivestimento.

Cesare dapprima manda in aiuto il giovane Bruto con alcune coorti, dopo il luogotenente Caio Fabio con delle altre, in ultimo vi accorre lui stesso con truppe fresche, poiché il combattimento era troppo accanito. Volte le sorti della lotta a proprio favore, respingendo i nemici si porta verso la posizione dove aveva mandato Labieno; fa uscire da un vicino fortilizio quattro coorti; ordina ad una parte dei cavalieri di seguirlo, a un’altra parte di girare intorno alla linea esterna delle fortificazioni e di assalire i nemici alle spalle. Labieno intanto vedendo che né il terrapieno né le fosse potevano contenere l’impeto dei nemici, radunati una delle quaranta coorti che erano state ritirate dai vicini presidi e che il caso gli aveva offerte, manda messi a Cesare per avvertirlo di quanto era necessario fare. Cesare allora si affretta per esser presente a questo combattimento. Conosciuto il suo arrivo dal colore del mantello che egli soleva portare come insegna nei combattimenti, e alla vista degli squadroni di cavalleria e delle coorti cui egli aveva ordinato di seguirlo, poiché si scorgeva dalle alture ciò che avveniva nella valle e su per il pendio, i nemici attaccarono battaglia. Dalle due parti si leva il clamore; ne risponde un altro dal vallo e da tutta la linea di fortificazioni. I nostri, messe da parte le aste, dànno di piglio alle spade. All’improvviso si scorge alle spalle dei nemici la nostra cavalleria; altre coorti avanzano. I nemici volgono le spalle; fuggendo si trovano di fronte ai nostri cavalieri. Avviene un’immensa strage. Sedullo, duce e capo dei Lemovici, è ucciso; Vercassivellauno d’Arvenia è preso vivo, mentre fuggiva; settantaquattro insegne militari vengono portate a Cesare; ben pochi di una sì grande massa riescono a ritirarsi incolumi nel loro accampamento. Gli altri, vedendo dalla città la strage e la fuga dei loro alleati, senza più speranza di salvezza, ritirano le truppe dalle fortificazioni. A questa notizia, i Galli esterni si dànno a fuggire dall’accampamento. Che se i soldati non fossero stati sfiniti per i continui interventi nel combattimento e per il travaglio di una intera giornata, tutto l’esercito dei nemici avrebbe potuto essere annientato. Verso la mezzanotte la cavalleria mandata all’inseguimento raggiunge la retroguardia dei nemici; un gran numero viene preso ed ucciso; gli altri, fuggendo, se ne vanno ai loro paesi.»

cesare, de bello gallico vii, 85-88

La resa

Dunque i romani erano in grossa difficoltà. Cesare decise di inviare Labieno con sei coorti a soccorrere il campo sotto attacco, ma non fu sufficiente e ne dovette inviare altre sotto il comando di Decimo Bruto e Gaio Fabio. Infine fu egli stesso a dover intervenire, e mentre percorreva le linee romane incoraggiava i legionari a combattere. Raccolse più coorti che poté nel tragitto, infine prese quattro coorti e parte della cavalleria, cercando di aggirare il nemico. Nel frattempo Labieno aveva messo insieme 39 coorti (l’equivalente di 4 legioni), muovendo anch’egli contro il nemico. La manovra a tenaglia di Cesare sarebbe riuscita, restando nei libri di storia e nei manuali di tattica militare. I galli all’esterno, distrutti, si diedero alla fuga, mentre Vercingetorige, non riuscendo a vincere il vallo romano e avendo ormai finito i rifornimenti e non disponendo di ulteriori rinforzi, decise di capitolare:

«Il giorno dopo Vercingetorige, convocata un’assemblea, dichiarò che egli aveva intrapreso quella guerra non per propri interessi, ma per la comune libertà e, poiché bisognava piegarsi alla cattiva sorte, egli si offriva loro per una delle due soluzioni: o dar soddisfazione ai Romani con la sua morte, o consegnarlo ad essi vivo. Si mandano messi a Cesare per trattare questa questione. Cesare ordina di consegnare le armi e i capi. Egli se ne sta sulla linea di fortificazione, dinanzi all’accampamento; vengono condotti a lui i comandanti galli. Vercingetorige è consegnato; si gettano ai piedi di Cesare le armi. Vengono risparmiati gli Edui e gli Arverni, per tentare di ricuperare per mezzo di essi l’amicizia di quelle popolazioni; distribuisce gli altri prigionieri come schiavi a tutto l’esercito, uno per ciascun soldato.»

« Vercingetorige, indossata l’armatura più bella, bardò il cavallo, uscì in sella dalla porta della città di Alesia e, fatto un giro attorno a Cesare seduto, scese da cavallo, si spogliò delle armi che indossava e chinatosi ai piedi di Cesare, se ne stette immobile, fino a quando non fu consegnato alle guardie per essere custodito fino al trionfo. »

cesare, de bello gallico vii, 89,1-5 ; Plutarco, Vite Parallele, Cesare, 27, 9-10

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La resa di Vercingetorige ad Alesia
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