Nel 376 Valente aveva permesso ai goti, minacciati dagli unni, di attraversare il confine del Danubio, per dare loro terre incolte. Ogni goto che coltivava la terra o veniva reclutato nell’esercito era un vantaggio per l’impero: o coltivavano terre ormai desolate oppure, sotto le armi, erano da un lato una risorsa preziosa, dall’altro permettevano a dei cittadini romani di pagare le tasse con cui retribuirli. Ormai, da oltre un secolo, seguendo questo meccanismo, e da quando Caracalla quasi due secoli prima aveva dato la cittadinanza a tutti gli abitanti dell’impero, sempre più barbari erano sotto le armi.

In quel momento l’imperatore, dal 375, si trovava in oriente per preparare una spedizione contro i persiani, dove i patti del 363 erano ormai in bilico. Fu allora che gli giunse notizia della richiesta gota di attraversare il confine; Valente aveva dovuto spostare molte truppe a occidente per affrontare i quadi, dove era morto l’imperatore Valentiniano per un colpo apoplettico nel corso della campagna, e aveva bisogno di nuove truppe per rinforzare i confini.

La situazione era tuttavia degenerata rapidamente: funzionari romani corrotti avevano permesso che i goti attraversassero il confine in modo disordinato, senza confiscare le armi e prendere in ostaggio i giovani, come ordinato dall’imperatore. Sempre più “immigrati” volevano passare il confine, ormai si era sparsa la voce, ma i romani alla fine avevano chiuso la frontiera, mentre distribuivano razioni ai goti, che controllavano con sempre maggiore preoccupazione.

ll duMassimino e il comes Lupicino avevano fiutato il guadagno e cominciarono a lucrare sulle razioni, spingendo i goti perfino a vendere come schiavi i figli. Alla fine però capirono che bisognava spostare queste persone; nel frattempo l’imperatore stava ancora a Antiochia. I goti si fidavano ancora dei romani, ma quando furono scortati all’interno lasciarono alle loro spalle un vuoto: tutta la calca degli immigrati che volevano entrare ed erano stati respinti cominciarono ad attraversare il confine clandestinamente, ora che i romani erano impegnati a scortare i goti.

Dopo diverse difficoltà i goti giunsero a Marcianopoli, accampandosi fuori le mura, esausti. Molti pensavano che sarebbero stati accolti in città ma non era il piano dei romani. Vuoi per disorganizzazione, vuoi per incompetenza, vuoi per latrocinio, Lupicino, che era a capo delle operazioni, si chiuse a banchettare con i capi goti in città mentre fuori i goti si ribellavano e sterminavano i soldati romani che li accompagnavano. L’inetto Lupicino allora, credette alle false promesse dei capi (in primis un tale Fritigerno, che aveva assunto il comando, se così si può dire, dei barbari) che solo loro potevano calmare i goti e li lasciò incautamente andare.

Da allora, per quasi due anni, i goti non fecero altro che mettere a ferro e a fuoco la Tracia. Si potevano perfino vedere dalle mura di Costantinopoli; nel frattempo dal Danubio continuavano ad affluire nuovi profughi che ingrossavano le file barbare. Solo allora l’imperatore Valente decise di partire da Antiochia e intervenire, mentre da occidente Graziano, suo nipote, accorreva in ritardo dopo aver dovuto domare gli alemanni.

Mentre questi fatti avvenivano in Tracia, Graziano, informato per lettera lo zio con quanta energia avesse vinto gli Alamanni, fece mandare innanzi per via di terra le salmerie ed i carriaggi e, attraversato il Danubio con una schiera di armati alla leggera, dopo essere giunto a Bononia, entrò a Sirmio. Ivi si trattenne quattro giorni e discese il corso dello stesso fiume sino a Martis Castra sebbene affetto da febbri intermittenti. In questa zona subì un attacco improvviso degli Alani e perdette pochissimi uomini del suo séguito.

Ammiano Marcellino, Storie, XXXI, 11, 6

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Morte di un imperatore

In quegli stessi giorni Valente, spinto da due ragioni, cioè dalla notizia della sconfitta dei Lenziensi e dalle lettere che di tanto in tanto Sebastiano gli scriveva esagerando i suoi successi, partì da Melanthias poiché desiderava uguagliare con un’azione gloriosa il giovane nipote, delle cui doti era invidioso. Conduceva seco numerose truppe, né trascurabili né pigre, in quanto aveva aggiunto al suo esercito moltissimi veterani, fra i quali, oltre ad alcuni alti ufficiali, c’era Traiano, che poco tempo prima era stato comandante in capo ed in quei giorni era stato richiamato in servizio. Siccome da un’attenta indagine era risultato che i nemici pensavano di bloccare con forti guarnigioni le strade per le quali venivano trasportati i vettovagliamenti necessari all’esercito, i Romani si opposero convenientemente a questo piano inviando in fretta arcieri a piedi ed uno squadrone di cavalieri con l’incarico di assicurarsi le posizioni dominanti dei passi vicini. Nei tre giorni successivi, mentre i barbari s’avvicinavano lentamente e, temendo un attacco attraverso zone impraticabili, poiché erano ancora lontani quindici miglia dalla città, si dirigevano verso la stazione di Nice, non si sa in séguito a quale errore gli esploratori annunciarono che tutta quella parte della moltitudine, che avevano visto, assommava a diecimila persone, per cui l’imperatore, in preda ad una sfrenata febbre d’azione, si affrettò a marciare contro di loro. Perciò, avanzando in formazione quadrata, giunse nei pressi di Adrianopoli, dove, costruita una trincea con pali e con un fossato, aspettava con impazienza Graziano. Ivi ricevette Ricomere, comes della guardia del corpo, mandato innanzi da quest’ultimo con una lettera in cui gli annunciava il suo prossimo arrivo. Poiché Graziano lo invitava ad attendere per un po’ di tempo finché non giungesse egli pure ad affrontare assieme i pericoli, e lo esortava a non esporsi temerariamente a rischi gravissimi, Valente convocò parecchi alti dignitari e discusse sulla decisione da prendere. Mentre da un lato, per suggerimento di Sebastiano, alcuni insistevano di attaccare immediatamente, Vittore, generale di cavalleria, che, sebbene fosse Sarmata, era temporeggiatore e cauto, assieme a molti altri che condividevano il suo parere, riteneva che Valente dovesse aspettare il collega dell’impero in modo che, con un esercito rafforzato dalle truppe delle Gallie, più facilmente si potesse soffocare l’incendio provocato dalla superbia dei barbari. Tuttavia ebbero il sopravvento la funesta testardaggine del sovrano ed il parere di alcuni cortigiani adulatori che esortavano ad agire celermente per evitare che Graziano fosse partecipe di una vittoria che essi ritenevano ormai quasi scontata.

Ammiano Marcellino, Storie, XXXI, 12, 1-7

Alla fine Valente, anche per non dover dividere il successo con il nipote Graziano, che stava sopraggiungendo in forze, decise di dirigersi da solo contro i goti. In questa fase furono comunque avviate trattative di pace: l’imperatore ricevette infatti una delegazione di preti cristiani ariani, che gli consegnarono una lettera da parte di Fritigerno nella quale si prendeva in considerazione l’ipotesi di intavolare delle trattative sulla consegna ai goti di terre come era stato loro promesso ai tempi dell’attraversamento del Danubio. Ma il capo goto, in realtà, volle rimandare il più possibile l’inizio della battaglia (secondo la versione di Ammiano Marcellino) nella speranza che ritornassero in tempo la cavalleria che si era allontanata per foraggiare.

Valente perse molto tempo e nel frattempo cominciava anche a tramontare il sole: i soldati erano stati in attesa, tutto il giorno, sotto il sole rovente, senza né bere né mangiare. Con ogni probabilità l’imperatore voleva trattare, forse si era spaventato credendo di aver sottostimato i goti o forse voleva ancora cercare di reclutarli nel proprio esercito o di avere nuove braccia per l’agricoltura. Tuttavia questa attesa gli fu fatale.

I romani, nervosi (e qui Valente ebbe sicuramente colpe sul controllo dei suoi uomini), attaccarono senza attendere ordini: gli scutarii, un reparto di cavalleria d’élite e gli arcieri a cavallo sull’ala destra, giunti a tiro dei barbari, attaccarono di propria iniziativa; forse furono i goti a reagire ai romani troppo vicini, forse furono i romani ad attaccare per primi, ma il gesto diede comunque inizio alla battaglia. I romani erano disposti con la fanteria al centro e la cavalleria sulle ali, mentre la fanteria gota era schierata poco distante dal cerchio di carri.

Fu allora che il fianco sinistro romano, che avanzava con difficoltà per via del terreno, fu attaccato dai cavalieri goti e alani di ritorno dal foraggiamento. I romani assorbirono l’urto e respinsero i goti: fu necessario l’intervento dei catafratti, i cavalieri corazzati. Avanzarono, mentre la fanteria combatteva, così tanto che il fianco sinistro romano si spinse fino ai carri goti, senza però essere seguiti da nessuno. Se la battaglia non fosse nata per caos e l’attacco fosse stato adeguatamente sostenuto da Valente, i romani avrebbero sopraffatto i goti senza difficoltà. Invece l’ala sinistra si scollegò dal centro e rimase isolata, lasciando il fianco sinistro delle legioni scoperto. Fu allora che la cavalleria gota e alana, messa in fuga, ritorno e piombò sul fianco sinistro romano, annientandolo.

I legionari romani, schierati in ordine compatto e con scarso margine di manovra, non potevano reggere prolungatamente l’urto e alla fine la loro formazione, dopo una strenua resistenza iniziale, si sfaldò e si dette alla fuga. Valente rimase fino al calar delle tenebre a comandare le ultime legioni rimaste compatte (quella dei lanciarii e quella dei mattiarii); ma ad un certo momento lo stesso imperatore rimase ucciso (o fuggì) e i resti delle forze romane andarono allo sbando.

Non si è mai saputo di preciso in che modo l’imperatore morì: forse fu colpito da una freccia o forse, come si raccontò dopo la battaglia, bruciò vivo nell’incendio di una fattoria nella quale, ferito, si era riparato nottetempo e a cui i goti avevano dato fuoco; con lui caddero anche due comites (Sebastiano e Traiano) e un numero imprecisato di romani (c’è discordanza sul numero esatto dei romani, tra i 10 e i 40.000 uomini). In seguito alla vittoria i barbari dilagarono nei territori intorno alla città compiendo ogni genere di razzie e massacrando le popolazioni romane. Il magister equitum Vittore si salvò e portò la notizia della sconfitta a Graziano, che si sarebbe potuto congiungere qualche giorno dopo allo zio e annientare i goti.

Mentre da ogni parte cozzavano le armi ed i dardi e Bellona, che infuriava più ferocemente del solito, faceva risuonare le luttuose trombe di guerra per la rovina dei Romani, i nostri, che si ritiravano, si arrestarono fra le grida di molti e la battaglia, crescendo a guisa di fiamma, terrorizzava gli animi dei soldati, alcuni dei quali erano stati colpiti da frecce e da proiettili lanciati da roteanti fionde. Quindi i due schieramenti, scontratisi come navi rostrate e respingendosi a vicenda, fluttuavano con reciproco movimento simili ad onde. Il fianco sinistro s’avvicinò addirittura ai carri, pronto a spingersi oltre se qualcuno gli avesse portato aiuto, ma, abbandonato dalla rimanente cavalleria ed incalzato da una moltitudine di nemici, fu sopraffatto e distrutto come se una diga possente si fosse abbattuta su di lui. I fanti rimasero scoperti in gruppi così stipati gli uni sugli altri, che difficilmente potevano sguainare le spade o tirare indietro le braccia. Né a causa della polvere, che s’era levata, si poteva vedere il cielo che risuonava di orrende urla. Perciò i dardi, che d’ogni parte scagliavano la morte, cadevano su sicuri bersagli con effetto fatale poiché non si potevano prevedere né era possibile alcuna difesa. Ma quando i barbari, riversatisi in immense schiere, calpestarono cavalli e uomini, né era possibile in mezzo alla calca trovare un po’ di spazio per ritirarsi e la ressa toglieva ogni possibilità di fuga, i nostri, dimostrando disprezzo della morte pur nell’estremo pericolo, riprese le spade, fecero a pezzi quanti incontravano e con reciproci colpi di scure si spezzavano gli elmi e le loriche. Si poteva vedere un barbaro, superbo per la sua ferocia e con le gote contratte in un urlo di dolore, il quale, essendogli stato tagliato un garetto o amputata la destra da un colpo di spada o ferito un fianco, volgeva minacciosamente gli occhi feroci ormai prossimo alla morte. A causa della strage reciproca dei combattenti i corpi erano disseminati per terra ed i campi erano coperti di cadaveri. Diffondevano un profondo terrore i gemiti dei morenti e di quanti erano stati colpiti da profonde ferite. In una situazione così confusa ed in un disordine così grave i fanti, sfiniti dalla fatica e dai pericoli, poiché a poco a poco non bastavano loro né le forze né la mente per decidere e s’era spezzata la maggior parte delle lance a causa dei continui scontri, si gettavano, accontentandosi delle sole spade, contro le compatte schiere dei nemici senza curarsi della propria vita, poiché vedevano che tutt’attorno non c’era alcuna possibilità di fuga. Siccome il terreno, coperto da rivi di sangue, era sdrucciolevole, tentavano in tutti i modi di vendere cara la propria vita e si opponevano con tale energia ai nemici che incalzavano, che alcuni caddero colpiti dai dardi dei propri compagni. Insomma tutto era insozzato da nero sangue e, dovunque si volgesse lo sguardo, s’incontravano mucchi di uccisi e si calpestavano senz’alcun riguardo corpi privi di vita. Ed il sole, che molto alto, dopo aver terminata la corsa attraverso il Leone, passava nella sede della Vergine celeste, bruciava con i suoi raggi particolarmente i Romani, indeboliti dall’inedia, sfiniti dalla sete ed oppressi dal peso delle armi. Infine le nostre schiere cedettero sotto la pressione dei barbari che incalzavano, e si diedero ad una fuga disordinata volgendosi ciascuno dove poteva, il che rappresentava l’unica via di salvezza dall’estremo pericolo.

AMMIANO MARCELLINO, STORIE, XXXI, 13, 1-7

Ammiano così racconta la fine di Valente:

Mentre tutti si ritiravano e si disperdevano per ignoti sentieri, l’imperatore, in preda a funesto spavento, si era rifugiato, saltando con fatica da un mucchio di cadaveri sull’altro, presso i lancieri ed i mattiarii, i quali, finché si poté resistere alla moltitudine dei nemici, erano rimasti immobili e fermi. Quando lo vide, Traiano esclamò che ogni speranza era perduta, se l’imperatore, abbandonato dalla sua guardia, non fosse stato difeso almeno da ausiliari stranieri. A queste parole il comes chiamato Vittore si affrettò a raccogliere immediatamente a difesa dell’imperatore i Batavi schierati nelle vicinanze in posizione ausiliaria, ma, non riuscendo a trovare nessuno, si ritirò. Nello stesso modo sfuggirono al pericolo Ricomere e Saturnino. Così i barbari, spirando furore dagli occhi, inseguivano i nostri che erano storditi poiché il calore del sangue veniva meno nelle vene. Alcuni cadevano senza sapere chi li avesse colpiti, altri crollavano unicamente sotto il peso degli inseguitori, altri infine finirono uccisi dai propri compagni. Infatti spesso né si dava tregua a chi resisteva, né alcuno risparmiava quelli che si arrendevano. Inoltre le strade erano ostruite da molti soldati morenti che giacevano lamentandosi delle sofferenze provocate dalle ferite; assieme a loro, cavalli ammucchiati l’un sopra l’altro riempivano i campi formando, per così dire, dei terrapieni. A queste perdite, a cui mai si sarebbe potuto rimediare e che costarono care allo stato romano, pose fine la notte non illuminata dalla luna. Al primo scendere delle tenebre, l’imperatore — così almeno si poteva supporre in quanto nessuno dichiarò d’averlo visto o di essersi trovato presente — cadde fra i soldati colpito mortalmente da una freccia e subito spirò. Né poi fu visto in alcuna parte. Infatti, a causa di pochi nemici che per derubare i cadaveri s’aggirarono a lungo in quella zona, nessun fuggitivo o abitante delle vicinanze osò accostarvisi. È noto che con un destino simile Decio Cesare, mentre combatteva impetuosamente con i barbari, cadde dal cavallo che imbizzarrito era scivolato e che non riusciva a frenare e, gettato in una palude, non poté riemergere né più fu trovato. Altri dicono che Valente non sia morto subito, ma che, trasportato con alcune guardie del corpo e pochi eunuchi nei pressi di una casetta di campagna che aveva un secondo piano ben fortificato, mentre veniva curato da mani inesperte, sia stato circondato dai nemici, i quali ignoravano chi fosse, e sia sfuggito al disonore della prigionia. Infatti, poiché gli inseguitori avevano tentato di sfondare le porte che erano sbarrate, venivano attaccati dalla parte elevata della casa per cui, per non perdere l’occasione di saccheggiare a causa di un indugio da cui non avrebbero potuto liberarsi, raccolti fasci di paglia e legna, diedero loro fuoco e bruciarono l’edificio con quanti vi si trovavano. Una delle guardie del corpo, balzata dalla finestra, fu catturata dai barbari e narrò quant’era accaduto, il che li rattristò in quanto si videro privati di una grande gloria poiché non avevano preso vivo il capo dello stato romano.

AMMIANO MARCELLINO, STORIE, XXXI, 13, 8-16

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La tragica fine di Valente ad Adrianopoli
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