« Seguì un disastro, non si sa se dovuto al caso o alla perfidia del principe, in quanto le fonti tramandano entrambe le versioni, ma certamente più grave e più spaventoso di ogni altro che si sia mai abbattuto su Roma per la violenza del fuoco. »

Tacito, Annali, XV, 38.1

La notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 d.C. scoppiò il grande incendio di Roma: nel corso di circa una settimana bruciarono 10 dei 14 quartieri dell’Urbe. Già circolavano voci, come detto da Tacito, sulle presunte responsabilità di Nerone. Per questo il principe decise di incolpare quella che ai suoi occhi era una fervente setta ebraica, i cristiani. Sotto Traiano si cominciarono a palesare i primi problemi di convivenza con quest’ultimi. Plinio il giovane, legato di Bitinia, si ritrovò ad aver a che fare con loro. Scrisse a Traiano per chiedere cosa fare, e l’imperatore rispose con un rescritto imperiale che mostrava moderazione ed equilibrio:

«Mio caro Plinio, nell’istruttoria dei processi di coloro che ti sono stati denunciati come Cristiani, hai seguito la procedura alla quale dovevi attenerti. Non può essere stabilita infatti una regola generale che abbia, per così dire, un carattere rigido. Non li si deve ricercare; qualora vengano denunciati e riconosciuti colpevoli, li si deve punire, ma in modo tale che colui che avrà negato di essere cristiano e lo avrà dimostrato con i fatti, cioè rivolgendo suppliche ai nostri dei, quantunque abbia suscitato sospetti in passato, ottenga il perdono per il suo ravvedimento. Quanto ai libelli anonimi messi in circolazione, non devono godere di considerazione in alcun processo; infatti è prassi di pessimo esempio, indegna dei nostri tempi.»

Plinio il Giovane, Epistularum libri decem, X, 97

Le persecuzioni

I problemi di convivenza si cominciarono a palesare specialmente nel III secolo, quando l’impero entrò in crisi. Il primo grande persecutore fu l’imperatore Decio. Il senato concesse a Decio il nome di Traiano; non sappiamo se perché ottenne molte vittorie sul fronte danubiano o se per i suoi rapporti (buoni) con i senatori. Anche in quest’ottica va vista la politica tradizionalista dell’imperatore, che andando contro il sincretismo religioso promosso da Filippo e in qualche modo iniziato sotto i Severi, cercò di ripristinare la religione antica e il mos maiorum. Diede infatti ordine di intraprendere persecuzioni contro chi si rifiutava di sacrificare e onorare l’imperatore, lasciando comunque libertà di culto. Tra i maggiormente colpiti ci furono i cristiani; sebbene a Decio sembrasse sufficiente lasciare libertà di venerare il proprio dio e al contempo venerare l’imperatore, per i cristiani era qualcosa di incomprensibile. Molti vennero uccisi, molti tornarono pagani (lapsi), molti altri fecero finta di abbandonare il cristianesimo, molti altri comprarono attestati (libellatici) falsi di aver sacrificato. Alcuni andarono incontro al martirio.

Uno degli aspetti principali della politica diocleziana furono le persecuzioni religiose nei confronti dei cristiani, ritenuti un pericolo per l’ordine e la stabilità dell’impero. Dietro il fervore di Diocleziano c’era probabilmente Galerio, fortemente anticristiano, e il cui peso politico era molto aumentato dopo la vittoriosa campagna persiana. Dal 24 febbraio del 303 venne instaurata una feroce persecuzione anticristiana, terminata solo da Galerio nel 311 (riconoscendo che era impossibile fermare il cristianesimo, poiché sembravano giovare delle persecuzioni); i cristiani furono interdetti dai pubblici uffici e perseguitati se non avessero rinnegato la loro religione. I tetrarchi affermavano infatti che la loro figura oramai divina non fosse conciliabile con il cristianesimo, portatore di divisioni e contrapposizioni sociali.

Costantino

Da Costantino a Teodosio

Divenuto Augusto d’Occidente dopo la vittoria di Ponte Milvio, Costantino emanò l’editto di Milano nel 313 con il collega Licinio (che aveva sconfitto Massimino Daia), dando piena libertà religiosa (contrariamente alle persecuzioni di Diocleziano e Galerio).

« Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità. »

LATTANZIO, DE MORTIBUS PERSECUTORUM, 48

Tuttavia il gesto di Costantino non era il primo in tal senso. Il 30 aprile del 311 l’imperatore Galerio aveva emanato un editto di tolleranza a Serdica (l’attuale Sofia) verso tutti i culti (compreso il cristianesimo); l’imperatore, forte promotore della persecuzione lanciata insieme a Diocleziano, era infine giunto alla conclusione che era inutile perseguire i cristiani. La morte, avvenuta solo sei giorni dopo per via di una cancrena alla gamba, sarebbe stata interpretata dai cristiani come una vendetta divina. Così racconta Lattanzio, fervente cristiano:

«[Noi Augusti, Galerio e Licinio] Tra tutte le altre disposizioni che stiamo compiendo sempre per il bene e l’utilità dello stato, abbiamo finora voluto riparare tutte le cose in conformità con le leggi e la disciplina pubblica dei Romani, e garantire che anche i cristiani, che hanno abbandonato la pratica dei loro antenati, tornassero al buon senso […] quei cristiani, che non seguivano le pratiche degli antichi, alle quali i loro antenati li avevano, forse, istruiti, ma secondo la loro volontà e il loro piacere, avevano stabilito delle leggi per se stessi da osservare e hanno riunito vari popoli in diverse aree. Poi, quando il nostro ordine venne emesso ordinando loro di tornare alle pratiche degli antichi, molti si sono esposti al pericolo, e molti sono stati addirittura uccisi. Molti di più perseverarono nel loro modo di vita, e abbiamo constatato che essi continuarono a non offrire una corretta adorazione né al culto agli dei, né al dio dei cristiani. Considerando la nostra clemenza mite e il nostro costume eterno, con la quale siamo abituati a concedere la grazia a tutte le persone, abbiamo deciso di estendere la nostra più rapida indulgenza a queste persone, in modo che i cristiani possano ancora una volta stabilire i propri luoghi di incontro, purché non creino disordini. […] Di conseguenza, in accordo con la nostra indulgenza, dovranno pregare il loro dio per la nostra salute e la sicurezza dello Stato, in modo che lo Stato possa essere mantenuto sicuro su tutti i fronti, ed essi potranno vivere in modo sicuro nelle proprie case.»

LATTANZIO, DE MORTIS PERSECUTORUM, 34, 1-5

Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di Ponte Milvio le zecche orientali  continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore»; nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali continuarono a coniare monete dedicate «al Sole invitto compagno» e, in alcuni casi anche «a Marte salvatore» e «a Marte Protettore della Patria».

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Costantino

Verso il 319 la maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la legenda «Liete vittorie al principe perpetuo». E’ conosciuto un medaglione d’argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l’elmo piumato dell’imperatore, coniato a Pavia nel 315. Solo dopo la vittoria su Licinio compare la tipologia con il labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente, simbolo appunto di Licinio, e simultaneamente scompaiono del tutto dalle monete sia le immagini del sole invitto sia la corona radiata. Nel 326 appare il diadema, simbolo monarchico di derivazione ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo sguardo rivolto in alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il contatto privilegiato tra l’imperatore e la divinità.

Costantino cercava forse di riavvicinare i culti presenti nell’impero, nel quadro di un non troppo definito monoteismo imperiale. Le festività religiose più importanti del cristianesimo e della religione solare furono fatte coincidere. Il giorno natale del Sole e del dio Mitra, il 25 dicembre, divenne anche quello della nascita di Gesù. Continuarono a essere eretti templi pagani.

A tentare di invertire la rotta di un impero ormai sempre più cristiano ci fu solo l’imperatore Giuliano. Egli aveva deciso di abbracciare pienamente il paganesimo dopo aver fatto conoscenza dei filosofi neoplatonici Libanio e Massimo a Costantinopoli, dove tornò dopo una vera e propria reclusione di sei anni in Cappadocia, luogo ove era stato inviato dai cugini e allevato secondo gli insegnamenti cristiani. 

Dopo la morte di Costanzo, il 3 novembre del 361, Giuliano rimase unico imperatore, senza avere altri oppositori; raggiunse Costantinopoli senza problemi, grazie all’appoggio di Saluzio, che era stato suo quaestor sacri palatii in Gallia e che, allontanato da Costanzo, aveva permesso poi di farlo accogliere pacificamente in oriente. Giuliano promosse innanzitutto il culto pagano a discapito del cristianesimo, nonostante un primo editto di tolleranza del dicembre 361, impedendo poi ai maestri cristiani di insegnare (dicendo che gli insegnamenti, perlopiù pagani, erano in contraddizione con la fede), dall’estate del 362. Anche per questo motivo, e per aver rinnegato gli insegnamenti ricevuti in tenera età, venne chiamato dai cristiani Apostata.

«Sebbene dalla prima fanciullezza fosse piuttosto incline al culto degli dèi e con il passare degli anni ne fosse sempre più acceso, tuttavia, temendo per molte ragioni, praticava alcuni di questi riti nella massima segretezza. Allorché però, venuti meno i motivi della paura, si rese conto che era giunto il tempo di fare liberamente ciò che voleva, manifestò apertamente i suoi segreti pensieri e con decreti chiari e ben definiti ordinò di riaprire i templi, di portare vittime agli altari ed insomma di ristabilire il culto agli dèi. Per rafforzare l’effetto di queste disposizioni fece venire alla reggia i vescovi cristiani, che erano in discordia fra loro, assieme al popolo pure in preda ad opposte fazioni, e li esortò con belle maniere a mettere da parte le discordie ed a praticare ciascuno la propria religione senz’alcun timore e senza che nessuno l’impedisse. Egli era fermo in questa linea di condotta in modo che, aumentando i dissensi per effetto dell’eccessiva libertà, non avesse da temere successivamente un popolo compatto, poiché ben sapeva per esperienza che nessuna fiera è così ostile agli uomini, come la maggior parte dei Cristiani sono esiziali a se stessi. Soleva spesso dire: «Ascoltate me, cui prestarono ascolto gli Alamanni ed i Franchi», ritenendo di imitare il detto dell’antico imperatore Marco Aurelio. Ma non si rese conto che i casi erano troppo diversi. Quello infatti, attraversando la Palestina diretto in Egitto, nauseato spesso dal fetore e dai tumulti dei Giudei, si dice esclamasse disgustato: «O Marcomanni, o Quadi, o Sarmati, ho trovato finalmente un popolo più inquieto di voi.»

AMMIANO MARCELLINO, STORIE, XXII, 5, 1-5
Giuliano

Tuttavia Giuliano non perseguitò mai direttamente i cristiani, cercando invece di favorire in ogni modo i pagani, realizzando una gerarchia sacerdotale analoga, e di combattere la povertà, togliendo dunque due delle basi su cui la fortuna del cristianesimo si basava. Scrisse anche moltissimo, tra cui il Misopogon (Odiatore della barbara), un’operetta satirica contro chi, ad Antiochia, lo prendeva in giro per la barba. Ancora più famoso fu Contro i Galilei, in cui l’imperatore muoveva un durissimo attacco ai cristiani, definendo la religione dei seguaci di Cristo basata essenzialmente sulla superstizione e credenze erronee e prive di fondamento. Ma comunque Giuliano era un filosofo, e fu più che altro un propugnatore del neoplatonismo. In seguito alla sua morte, avvenuta durante la ritirata della campagna persiana, vennero ripristinati gli antichi privilegi ai cristiani, la cui religione diverrà con Teodosio religione di stato.

Morto Giuliano, nessuno pensò di ristabilire il paganesimo. Il 27 febbraio del 380 d.C. venne promulgato l’editto di Tessalonica da Graziano e Teodosio, in cui stabilirono il cristianesimo come unica religione praticabile. La chiusura totale al paganesimo arriverà nel 391-92 con i cosiddetti decreti teodosiani, seguiti all’incidente di Tessalonica e il perdono chiesto ad Ambrogio, dove verrà decisa la chiusura totale dei templi e la persecuzione per chi praticava culti pagani:

“GLI IMPERATORI GRAZIANO, VALENTINIANO (II) E TEODOSIO AUGUSTI. EDITTO AL POPOLO DELLA CITTÀ DI COSTANTINOPOLI.
Vogliamo che tutti i popoli che ci degniamo di tenere sotto il nostro dominio seguano la religione che san Pietro apostolo ha insegnato ai Romani, oggi professata dal Pontefice Damaso e da Pietro, vescovo di Alessandria, uomo di santità apostolica; cioè che, conformemente all’insegnamento apostolico e alla dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo in tre persone uguali. Chi segue questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, gli altri invece saranno considerati stolti eretici; alle loro riunioni non attribuiremo il nome di chiesa. Costoro saranno condannati anzitutto dal castigo divino, poi dalla nostra autorità, che ci viene dal Giudice Celeste.
DATO IN TESSALONICANEL TERZO GIORNO DALLE CALENDE DI MARZO, NEL CONSOLATO QUINTO DI GRAZIANO AUGUSTO E PRIMO DI TEODOSIO AUGUSTO”

Codice teodosiano, XVI, 1,2

Un triste epilogo

«Ipazia nacque ad Alessandria dove fu allevata ed istruita. Poiché aveva più intelligenza del padre, non fu soddisfatta dalla sua conoscenza delle scienze matematiche e volle dedicarsi anche allo studio della filosofia. La donna era solita indossare il mantello del filosofo ed andare nel centro della città. Commentava pubblicamente Platone, Aristotele, o i lavori di qualche altro filosofo per tutti coloro che desiderassero ascoltarla. Oltre alla sua esperienza nell’insegnare riuscì a elevarsi al vertice della virtù civica. Fu giusta e casta e rimase sempre vergine. Lei era così bella e ben fatta che uno dei suoi studenti si innamorò di lei, non fu capace di controllarsi e le mostrò apertamente la sua infatuazione. Alcuni narrano che Ipazia lo guarì dalla sua afflizione con l’aiuto della musica. Ma la storia della musica è inventata. In realtà lei raggruppò stracci che erano stati macchiati durante il suo periodo e li mostrò a lui come un segno della sua sporca discesa e disse, “Questo è ciò che tu ami, giovanotto, e non è bello!”. Alla brutta vista fu così colpito dalla vergogna e dallo stupore che esperimentò un cambiamento del cuore ed diventò un uomo migliore.»

(Damascio, Vita Isidori, 102)

Ipazia era figlia del filosofo alessandrino neoplatonico Teone, da cui prese l’amore per la filosofia, che divenne la disciplina che insegnava, insieme alla matematica. Infatti non era sposata, il che gli permise una certa libertà, seppure nel clima sempre più fortemente cristianizzato dell’Egitto tardoromano. Ipazia dunque, atteggiandosi come un filosofo, dispensava le sue conoscenze di matematica e filosofia; non solo le sue conoscenze erano vaste e approfondite, ma le descrizioni concordano nel ritenerla brava a parlare e moderata nelle azioni:

«Per la magnifica libertà di parola e di azione che le veniva dalla sua cultura, accedeva in modo assennato anche al cospetto dei capi della città e non era motivo di vergogna per lei lo stare in mezzo agli uomini: infatti, a causa della sua straordinaria saggezza, tutti la rispettavano profondamente e provavano verso di lei un timore reverenziale.»

(Socrate Scolastico, Storia Ecclesiastica, VII, 15)

«[Ipazia] era pronta e dialettica nei discorsi, accorta e politica nelle azioni, il resto della città a buon diritto la amava e la ossequiava grandemente, e i capi, ogni volta che si prendevano carico delle questioni pubbliche, erano soliti recarsi prima da lei, come continuava ad avvenire anche ad Atene. Infatti, se lo stato reale della filosofia era in completa rovina, invece il suo nome sembrava ancora essere magnifico e degno di ammirazione per coloro che amministravano gli affari più importanti del governo.»

(Damascio, Vita Isidori, 102)

Ipazia era pertanto esperta di neoplatonismo, matematica e forse anche astronomia; un suo allievo, Sinesio, narra che Ipazia avrebbe perfezionato le teorie di Ipparco e Tolomeo, costruendo un astrolabio di più precisa fattura. Tuttavia ricostruire il suo pensiero filosofico e matematico, così come quello astronomico, è estremamente arduo, non essendoci pervenuta nessuna sua opera, ma solo testimonianze di altri. Di sicuro riuscì a conquistare un ruolo di primo piano ad Alessandria, forse tenendo la cattedra di filosofia platonica del padre, basata sugli insegnamenti di Plotino; Ipazia non si accontentava di tramandare, ma era attiva nella ricerca e nella sperimentazione.

Gli insegnamenti della filosofa neoplatonica si svolgevano però in un clima sfavorevole, essendo stati promulgati nel 391-92 gli editti teodosiani (dopo il massacro di Tessalonica a opera dei goti, ordinato da Teodosio, quest’ultimo si era piegato alle richieste pubbliche di perdono di sant’Ambrogio e aveva promulgato leggi ancora più repressive contro il paganesimo, rendendo illegale qualsiasi forma di culto non cristiano e la mera contemplazione di statue pagane). Il vescovo di Alessandria Teofilo aveva chiesto all’imperatore che venissero eliminati gli antichi luoghi di culto pagani, tra cui il Serapeo (uno dei più grandi e sfarzosi templi del mondo antico, dedicato a Serapide), che venne distrutto, mentre il Cesareo (il maestoso tempio di Augusto) si salvò solo perché trasformato in cattedrale.

Quando divenne vescovo Cirillo, nel 412, il clima si fece ancora più aspro, mentre prendeva piede in città un gruppo di predicatori cristiani estremisti, chiamati parabolani. Cirillo perseguitò in ogni modo pagani ed ebrei, nonostante i vani tentativi di opporsi del prefetto di Alessandria Oreste, poiché in base alle legge teodosiane il clero era subordinato alla sola legge ecclesiastica. Non paghi, i parabolani tesero un agguato a Oreste, colpendolo con una pietra in testa, nonostante si professasse cristiano per salvarsi.

L’intervento degli alessandrini salvò Oreste, che si premurò di far arrestare il colpevole, Ammonio, che processò pubblicamente, secondo la legge romana, infischiandosene dei privilegi ecclesiastici; anzi, fu talmente duro nella tortura da ucciderlo. Cirillo, non contento del clima delirante in città, portò il corpo di Ammonio in una chiesa e lo rinominò Thaumasios, l’ “ammirevole”, martirizzandolo (Cirillo dopo la morte sarà nominato santo dalla chiesa ortodossa).

In questa situazione incandescente si consumò l’omicidio di Ipazia, nel 415, chiamata in causa nel conflitto tra Oreste e Cirillo, rea di fomentare coloro i quali andavano contro i principi cristiani e di rendere impossibile la riconciliazione tra prefetto e vescovo. Anche a lei fu teso un agguato dai parabolani, stavolta mortale:

«Ad Alessandria c’era una donna chiamata Ipazia, figlia del filosofo Teone, che ottenne tali successi nella letteratura e nella scienza da superare di gran lunga tutti i filosofi del suo tempo. Provenendo dalla scuola di Platone e di Plotino, lei spiegò i principi della filosofia ai suoi uditori, molti dei quali venivano da lontano per ascoltare le sue lezioni. Facendo conto sulla padronanza di sé e sulla facilità di modi che aveva acquisito in conseguenza dello sviluppo della sua mente, non raramente apparve in pubblico davanti ai magistrati. Né lei si sentì confusa nell’andare ad una riunione di uomini. Tutti gli uomini, tenendo conto della sua dignità straordinaria e della sua virtù, l’ammiravano di più. Fu vittima della gelosia politica che a quel tempo prevaleva. Ipazia aveva avuto frequenti incontri con Oreste. Questo fatto fu interpretato calunniosamente dal popolino cristiano che pensò fosse lei ad impedire ad Oreste di riconciliarsi con il vescovo. Alcuni di loro, perciò, spinti da uno zelo fiero e bigotto, sotto la guida di un lettore chiamato Pietro, le tesero un’imboscata mentre ritornava a casa. La trassero fuori dalla sua carrozza e la portarono nella chiesa chiamata Caesareum, dove la spogliarono completamente e poi l’assassinarono con delle tegole. Dopo avere fatto il suo corpo a pezzi, portarono i lembi strappati in un luogo chiamato Cinaron, e là li bruciarono. Questo affare non portò il minimo obbrobrio a Cirillo, e neanche alla chiesa di Alessandria. E certamente nulla può essere più lontano dallo spirito del cristianesimo che permettere massacri, violenze, ed azioni di quel genere. Questo accadde nel mese di marzo durante la quaresima, nel quarto anno dell’episcopato di Cirillo, sotto il decimo consolato di Onorio ed il sesto di Teodosio.»

Socrate Scolastico, Storia Ecclesiastica, VII, 15

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L’affermazione del cristianesimo
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