«Mio padre Amílcare, quando io ero fanciullo, non avevo più di nove anni, partendo da Cartagine come comandante per la Spagna, sacrificò vittime a Giove Ottimo Màssimo; e mentre si svolgeva il sacro rito, chiese a me se volevo partire con lui per la guerra. Io accettai volentieri la sua proposta e cominciai a chiedergli che non esitasse a portarmi con sé; allora lui: “sì”, disse, “se mi farai la promessa che ti chiedo”. Così dicendo mi condusse all’ara sulla quale aveva cominciato il sacrificio e, allontanati tutti gli altri, mi fece giurare con la mano su di essa, che mai sarei stato amico del popolo romano. Io, questo giuramento fatto al padre, l’ho mantenuto fino ad oggi in modo tale che non può esservi dubbio per nessuno, che io non rimanga dello stesso avviso per tutto il resto della vita. Perciò se avrai sentimenti di amicizia nei confronti dei Romani, sarai stato prudente a tenermene all’oscuro; ma se preparerai la guerra, ingannerai te stesso, se non darai a me il supremo comando».

Cornelio nepote, de viris illustribus, 23 (Annibale), 2

A coloro i quali gli rimproverano che fosse impossibile attraversare i passi alpini, già innevati, Annibale avrebbe risposto “inveniam viam aut faciam” (troverò una strada o ne costruirò una).

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Una vittoria dietro l’altra

A questa età che abbiamo detto, partì dunque col padre per la Spagna; dopo la morte di questo, mentre Asdrubale prese il suo posto di generale, egli fu a capo di tutta la cavalleria. Ucciso anche costui, l’esercito trasferì a lui il comando supremo. Questa nomina, riferita a Cartagine, ebbe la ratifica ufficiale. Così Anníbale diventato generale non ancora venticinquenne, nei tre anni che seguirono sottomise con le armi tutte le genti della Spagna; espugnò con la forza Sagunto, città alleata; allestì tre poderosi eserciti. Di questi uno ne mandò in Africa; un altro lo lasciò in Spagna col fratello Asdrubale; il terzo lo condusse con sé in Italia. Attraversò il valico dei Pirenei6. Dovunque passò, venne a conflitto con tutti gli abitanti; nessuno lasciò alle spalle se non sconfitto. Dopo che fu giunto alle Alpi, che dividono l’Italia dalla Gallia, che nessuno mai prima di lui, aveva attraversato con un esercito eccetto il Graio, Ercole (e in seguito a quell’impresa quel valico è oggi chiamato Graio), sterminò gli alpigiani che cercavano di impedirgli il passaggio, rese accessibili i luoghi, fortificò i percorsi, fece sì che potesse passare un elefante equipaggiato, per dove prima a mala pena poteva arrampicarsi un uomo senza armi. Per questa via fece passare le truppe e giunse in Italia.

CORNELIO NEPOTE, DE VIRIS ILLUSTRIBUS, 23 (ANNIBALE), 3

Presa Sagunto senza che i romani intervenissero (in senato si dibatteva se aiutare una città alleata e quindi violare il trattato dell’Ebro che garantiva libertà ai punici in quel territorio, appunto a sud dell’Ebro), Annibale Barca decise di partire immediatamente per l’Italia. La voce si sparse a Roma, ma nessuno sapeva come sarebbe arrivato: qualcuno pensava in Sicilia, qualcun altro che si sarebbe imbarcato a Marsiglia. Invece prese la strada più difficile, valicando le Alpi con gli elefanti, ma cogliendo di sorpresa i romani, che inviarono subito a nord il console Cornelio Scipione.

Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano,  figlio dell’omonimo Publio Cornelio Scipione, apparteneva alla gens Cornelia, una delle più antiche e prestigiose della repubblica. Il ragazzo si distinse già diciassettenne durante la battaglia del Ticino: nel 218 a.C. avvenne il primo contatto tra le truppe di Annibale scese dalle Alpi e l’esercito romano. La prima battaglia della seconda guerra punica si trasformò in un disastro per i romani, come per molti anni a venire. Il padre, l’omonimo Publio Cornelio Scipione, era il console in carica e guidava l’esercito romano contro Annibale: finito completamente accerchiato dalla cavalleria numida del cartaginese, venne salvato miracolosamente dal giovane figlio che si gettò nella mischia da solo, riuscendolo a portare in salvo. Le doti del figlio erano già evidenti. Il padre propose per il figlio la corona civica, data a chi avesse salvato la vita a un cittadino romano in battaglia, ma il giovane Scipione rifiutò.

«Si era scontrato presso il Ròdano col console P. Cornelio Scipione e lo aveva respinto. Con questo stesso combatte a Casteggio presso il Po e lo lascia ferito e in fuga. Per la terza volta lo stesso Scipione gli andò incontro col collega Tiberio Longo presso la Trebbia. Venne a battaglia con loro; li sbaragliò entrambi. Da lì attraverso la Liguria superò l’Appennino, diretto in Etruria. Durante questa marcia viene colpito da una malattia degli occhi tanto grave che poi dall’occhio destro non vide più bene. Mentre ancora era affetto da questo malanno e veniva trasportato in lettiga, trasse in un agguato presso il Trasimeno il console C. Flaminio con l’esercito e lo uccise e poco dopo il pretore C. Centenio che con truppe scelte presidiava i passi. Da qui arrivò in Puglia. Là lo affrontarono due consoli, C. Terenzio e L. Emilio. In una sola battaglia sbaragliò gli eserciti dell’uno e dell’altro, uccise il console Paolo ed inoltre un certo numero di ex consoli, tra i quali Gn. Servilio Gèmino, che era stato console l’anno precedente.»

CORNELIO NEPOTE, DE VIRIS ILLUSTRIBUS, 23 (ANNIBALE), 4

Dopo la resa di Sagunto in Spagna, assediata da Annibale, Quinto Fabio Massimo venne inviato come ambasciatore a Cartagine (insieme a senatori importantissimi in seguito come Marco Livio Salinatore e Lucio Emilio Paolo), per capire se le azioni del cartaginese fossero appoggiate dalla madrepatria. Alla fine del discorso di Fabio, che chiedeva spiegazioni, i cartaginesi accettarono la guerra:

«[…] Perciò, smettetela di citare Sagunto e l’Ebro, e una buona volta il vostro animo dia alla luce ciò che da tanto tempo cova in sé!». Allora il Romano, fatta una piega con la toga, disse: «Qui vi portiamo la guerra e la pace; delle due cose, prendete quella che volete». Sùbito dopo queste parole, non meno fieramente gli fu risposto con grida che desse quella che volesse; ed avendo egli per contro lasciato andare la piega e detto che dava la guerra, tutti risposero che la accettavano e l’avrebbero combattuta con il medesimo ardimento con cui l’accettavano.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXI, 18, 12-14

Dopo l’arrivo in Italia di Annibale e la sconfitta del Trasimeno nel 217 a.C., in quello stesso anno Massimo venne nominato dittatore. La sua scelta, a differenza dei predecessori, fu di attendere ed evitare lo scontro diretto, dove Annibale sembrava invincibile, lasciandolo libero di scorrazzare ma seguendolo sempre da vicino e stando pronto a fare piccole sortite, ma ponendo il campo in zone rialzate e impervie dove la cavalleria numida non avrebbe potuto dispiegare la sua forza. Nonostante l’opposizione la tattica si rivelò vincente e si guadagnò il sopranome di cuntactor (dice Ennio che qui cunctando restituit rem, “temporeggiando ripristinò lo stato), ossia “temporeggiatore“:

«Fabio aveva deciso di non esporsi al rischio e di non venire a battaglia [con Annibale]. […] Inizialmente tutti lo consideravano un incapace, e che non aveva per nulla coraggio […] ma col tempo costrinse tutti a dargli ragione e ad ammettere che nessuno sarebbe stato in grado di affrontare quel momento delicato in modo più avveduto e intelligente. Poi i fatti gli diedero ragione della sua tattica.»

POLIBIO, STORIE, III, 89, 3-4

Tuttavia le critiche verso la sua strategia restavano forti e il magister equitum  Marco Minucio Rufo, alla guida dei suoi detrattori, cercarono nuovamente di tornare ad affrontare Annibale, mentre il tribuno della plebe Marco Metilio presentava una legge per dividere in parti uguali il potere tra il dittatore e il suo vice, come se fossero stati due consoli. La legge fu comunque accettata e votata dai comizi e ratificata dal senato (si ebbero così due dittatori), ma quando Rufo fu quasi ucciso da Annibale e il suo esercito in forte pericolo vennero salvati dall’intervento risolutivo di Massimo, l’ex magister equitum lasciò la sua carica lasciando di nuovo la dittatura a Fabio, che però la rimise al termine dei sei mesi di mandato. Dei due consoli che seguirono, Lucio Emilio Paolo seguì i suoi insegnamenti, mentre Gaio Terenzio Varrone, più avventato, guidò i romani nel disastro di Canne del 216 a.C.

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L’arrivo di Annibale Barca in Italia

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