Commodo, appena divenuto imperatore, decise di abbandonare le conquiste del padre oltre il Danubio e di ritornare a Roma. Era stato nominato Cesare e aveva ricevuto la tribunicia potestas nel 177. Strinse la pace con i barbari, contro i consigli dei collaboratori paterni e fermò le persecuzioni contro i cristiani che c’erano state sotto il padre. Probabilmente diversi dei suoi collaboratori lo erano.

Tuttavia il suo atteggiamento libertino e l’amore per i giochi e gli spettacoli, e la poca cura che riponeva nel governo, spinse la sorella Lucilla e il consolare Ummidio Quadrato, a organizzare una congiura, fallita, per eliminarlo:

«Le scelleratezze della vita di Commodo spinsero Quadrato e Lucilla a ordire una congiura per ucciderlo, non senza la complicità del prefetto del pretorio Tarrutenio Paterno. L’incarico di eseguire l’attentato venne affidato ad un parente, Claudio Pompeiano. Questi, entrato alla presenza di Commodo col pugnale sguainato e avendo l’occasione buona per agire, se ne venne fuori con queste parole: «Il senato ti manda questo pugnale», svelando così stupidamente il complotto e fallendo l’attuazione della congiura, nella quale erano implicate, oltre a lui, molte persone. Dopo di ciò furono messi a morte prima Pompeiano e Quadrato, poi Norbana e Norbano, nonché Paralio; la madre di questo e Lucilla vennero mandate in esilio.»

Historia Augusta, Commodo, 4, 1-4

La congiura, avvenuta nel 182, era fallita. Ma da allora Commodo, sconsolato e paranoico, si ritirò dagli affari pubblici, che delegava ad altri, preferendo dedicarsi agli spettacoli gladiatori, che amava oltremodo.

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Commodo il gladiatore

Commodo cominciò a passare sempre più tempo nel Colosseo, fino a voler scendere lui stesso nell’arena, azione considerata infamissima, in quanto chi vi partecipava era solitamente uno schiavo. Non solo, partecipava ai combattimenti travestito da Ercole, con una clava e una pelle di leone.

«Giunse a tal punto di follia e di stoltezza da rifiutare il nome paterno, e da farsi chiamare, anziché Commodo figlio di Marco, Ercole, figlio di Giove. Abbandonato il costume degli imperatori romani, indossava una pelle di leone reggendo in mano una clava; ma insieme portava un mantello di porpora intessuto d’oro: sicché tutti lo schernivano perché in un solo costume egli imitava lo sfarzo femminile e il vigore degli eroi. Cosí camuffato egli si mostrava al pubblico. Volle inoltre cambiare il nome ai mesi dell’anno, abolendo i nomi tradizionali e creandone di nuovi tratti dai propri appellativi, la maggior parte dei quali si riferiva, naturalmente, a Ercole, come all’eroe piú valoroso. Elevò anche statue con la propria effigie per tutta la città, una delle quali si trovava di fronte alla curia ed era in atto di tendere l’arco: voleva infatti intimorire i senatori anche per mezzo della propria immagine.»

«Egli intanto aveva già perduto ogni freno; e organizzò pubblici spettacoli, impegnandosi a uccidere tutte le fiere di sua mano, e a misurarsi in duello con i giovani piú valorosi. Quando si diffuse questa notizia, accorse gente da tutta l’Italia e dalle province vicine, per assistere a uno spettacolo che fino allora nessuno aveva visto, e nemmeno udito narrare. Per di piú si sapeva che egli era molto abile, e poneva somma cura nel colpire sempre il bersaglio, sia con il giavellotto, sia con l’arco. Curavano il suo allenamento i migliori arcieri parti e i Numidi piú esperti nel giavellotto: ma egli li superava tutti in destrezza. Quando venne il giorno dello spettacolo, l’anfiteatro era pieno. Per Commodo era stata predisposta intorno all’arena una corsia, dalla quale egli potesse bersagliare le fiere stando in alto e al sicuro, senza arrischiarsi ad affrontarle da vicino; in tal modo egli dava spettacolo di destrezza piuttosto che di coraggio. Quando entravano nell’arena cervi e caprioli, o altri erbivori (eccettuati beninteso i tori) li colpiva correndo in mezzo a loro e inseguendoli; riusciva infatti, nonostante la loro velocità, a raggiungerli con colpi ben aggiustati. Quanto ai leoni, alle pantere, e in genere agli animali che si difendono, li colpiva dall’alto, correndo intorno all’arena. E nessuno vide che egli dovesse ripetere un colpo, e tutti i colpi andati a segno furono mortali. Calcolando il balzo della fiera, dirigeva l’arma al muso, oppure al cuore; non mirò mai ad altro bersaglio, né mai le sue armi colpirono altre parti del corpo, dove le ferite avrebbero potuto non essere mortali. Per il suo spettacolo erano state raccolte fiere di ogni paese: vedemmo allora per la prima volta ciò che avevamo potuto ammirare solo nei dipinti. Egli infatti, avendo raccolto tutte le fiere dell’India, dell’Etiopia, delle terre settentrionali e delle meridionali, se mai qualche animale era sconosciuto l’offerse in spettacolo ai Romani nell’atto in cui l’uccideva. Tutti rimasero stupiti della sua bravura. Contro gli struzzi africani, che corrono rapidissimi, servendosi insieme delle zampe e delle ali, egli usò frecce munite di una lama falcata, mirando al collo e tagliandolo; dopo che la freccia aveva reciso la testa, essi continuavano a correre come se non fossero stati colpiti. A un certo momento una pantera aveva raggiunto con un balzo rapidissimo uno degli inservienti, e stava per sbranarlo, ma Commodo riuscí a prevenirla con un colpo, uccidendo la fiera e salvando l’uomo; anzi, può dirsi che con la punta del giavellotto prevenisse la punta delle zanne. E quando furono fatti uscire dai sotterranei cento leoni tutti in una volta, egli li uccise tutti con altrettanti giavellotti: i corpi rimasero per lungo tempo giacenti, sicché tutti ebbero modo di contarli; e non si vide un’arma caduta a vuoto. Fin qui le sue azioni, sebbene fossero indegne di un imperatore, gli conferivano agli occhi della plebe il prestigio del valore e della destrezza; ma quando egli scese nell’anfiteatro, e, spogliatosi dei suoi abiti, cinse le armi per impegnare combattimenti da gladiatore, allora il popolo vide uno spettacolo ripugnante: un imperatore romano di nobile stirpe, dopo tanti trionfi del padre e degli avi, cingeva armi che non erano quelle del soldato, e non servivano per combattere i barbari, come si addice allo stato romano; anzi infangava la propria maestà con un abito turpe e dispregiato. Egli naturalmente, nel combattere, superava facilmente gli avversari, e riusciva a ferirli: poiché tutti si lasciavano battere, cedendo al sovrano se non al guerriero. E giunse a tal punto di follia, che non voleva piú nemmeno abitare il palazzo imperiale, e meditava di trasferirsi alla caserma dei gladiatori; inoltre rinunciò al nome di Ercole, e si fece chiamare con il nome di un gladiatore famoso che era morto qualche tempo prima. Ordinò poi di togliere la testa alla statua colossale che rappresenta il Sole, ed è oggetto di venerazione da parte dei Romani, e vi sostituí la propria effigie, iscrivendo sulla base, come è consuetudine, i titoli imperiali suoi e del padre; ma, in luogo di «vincitore sui Germani» vi fece iscrivere «vincitore su mille gladiatori».»

ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, I, 14, 8-9; 15, 1-9

Commodo era ormai impazzito e, racconta Cassio Dione, in un’occasione decapitò uno struzzo e procedette verso i senatori seduti con la sua testa in una mano e il gladio nell’altra, limitandosi a scuotere la testa e sghignazzare. Fu proprio la prontezza di Cassio Dione a salvare tutti; infatti prese una foglia dell’alloro che aveva in testa e prese a masticarla, facendo cenno agli altri di imitarlo, in modo da nascondere il riso:

«Avendo ucciso uno struzzo e tagliato la sua testa (nel Colosseo), Commodo si avvicinò a dove eravamo seduti, tenendo nella sinistra la testa decapitata e alzando la destra che impugnava la spada insanguinata; e sebbene non disse una parola, tuttavia scrollava la testa con una smorfia, lasciando presagire che ci avrebbe trattati allo stesso modo. E molti altri infatti sarebbero morti in questo modo, per aver riso di lui, se non avessi masticato delle foglie di alloro, che presi dalla mia ghirlanda e avessi convinto gli altri seduti vicino a me a fare lo stesso, in modo che il movimento calmo delle nostre braccia avesse nascosto il fatto che stessimo ridendo.»

CASSIO DIONE, STORIA ROMANA, 73, 21, 1-3

La congiura

«Sotto la spinta di questo stato di cose – sebbene troppo tardi – il prefetto Quinto Emilio Leto e la sua concubina Marcia ordirono una congiura per assassinarlo. E in un primo tempo gli somministrarono del veleno: ma poiché questo non si mostrava efficace, lo fecero strangolare da un atleta con il quale era solito allenarsi.»

Historia Augusta, Commodo, 17, 1-2

Alla fine, dopo diverse congiure sventate, Commodo fu strangolato da Narciso, il gladiatore con cui si allenava, dopo un primo tentativo di avvelenarlo. La congiura era stata organizzata da Marcia, concubina dell’imperatore, e Emilio Leto, prefetto al pretorio. Pare che un ragazzino con cui giocava l’imperatore, ribattezzato da lui Filocommodo, trovò un foglietto di carta, e non sapendo leggere lo usava per giocare. Lo diede poi a Marcia, che lesse su quel foglio la lista di persone che l’imperatore voleva far uccidere, e c’era anche lei. La congiura fu organizzata rapidamente, ma riuscì (ce n’erano state diverse negli anni precedenti). Era il 31 dicembre 192 d.C. Il primo gennaio del 193 sarebbe diventato imperatore il prefetto dell’Urbe Pertinace, già comandante durante le guerre marcomanniche.

Questa la versione narrata da Cassio Dione; la parte finale della sua Storia ci è stata tramandata soprattutto grazie ad epitomi bizantine, che riassumono gli eventi:

«Morì, o piuttosto fu ucciso, non molto tempo dopo. Leto ed Ecletto, infatti, in parte sdegnati contro di lui per ciò che faceva, in parte intimoriti (egli li minacciava perché cercavano di distoglierlo dalle sue stravaganze), ordirono una congiura ai suoi danni. Commodo aveva deciso di mandare a morte entrambi i consoli, Erucio Claro e Sossio Falcone e, nel primo giorno dell’anno, di uscire dal quartiere in cui vivono i gladiatori con la carica di console e insieme di secutor: difatti aveva il suo primo domicilio presso i gladiatori, proprio come se fosse uno di loro[…] Per queste ragioni Leto ed Ecletto congiurarono contro di lui, rendendo partecipe del loro piano anche Marcia. L’ultimo giorno dell’anno, dunque, durante la notte, quando la gente era occupata nella celebrazione della festività, per mezzo di Marcia gli propinarono del veleno nella carne di bue. Tuttavia, complice il suo abituale abuso di vino e di bagni, non poté morire subito, ma vomitò una parte del cibo; avendo quindi sospettato l’avvelenamento, prese a lanciare alcune minacce; a quel punto gli mandarono contro Narcisso, un atleta, dal quale lo fecero strangolare mentre si trovava nel bagno. Questa fine toccò a Commodo, il quale regnò dodici anni, nove mesi e quattordici giorni, e visse trentun anni e quattro mesi; con lui la vera dinastia degli Aureli cessò di regnare.»

Cassio Dione, Storia Romana, 73,22

Ben più dettagliata è la versione di Erodiano, secondo il quale la notizia della pompa gladiatoria sia giunta fino ai collaboratori dell’imperatore, grazie al foglietto dimenticato da Filocommodo:

«Ma senza dubbio, era destino che la sua follia e il dispotismo sui Romani avessero fine una buona volta; e ciò doveva accadere il primo giorno del nuovo anno. I Romani, in quel giorno, celebrano una festa in onore di un dio italico, indigeno e antichissimo: dicono infatti che lo stesso Saturno sia stato suo ospite quando scese sulla terra, spodestato da Giove. Saturno, temendo il potere del figlio, cercò rifugio nascondendosi presso quel dio italico: da ciò sarebbe venuto il nome a questa regione, che fu detta Lazio, dalla parola greca λανθάνω, adattata alla lingua locale. Perciò appunto gli Italici, ancor oggi, festeggiano i Saturnali in onore del dio che si nascose, e poi celebrano l’inizio dell’anno in onore del dio indigeno. La statua del loro dio ha due facce, perché con lui l’anno comincia e finisce. Era giunta questa solennità, in cui i Romani massimamente si scambiano visite e auguri, e si danno buon tempo, sia scambiandosi doni in denaro, sia consumando insieme i migliori cibi; e i consoli indossano per la prima volta le insegne annuali della loro gloriosa carica. Commodo intendeva, mentre le feste erano al culmine, presentarsi al popolo di Roma partendo dalla caserma dei gladiatori anziché, come era costume, dal palazzo imperiale; indossando l’armatura invece dell’augusto paludamento purpureo; e scortato dagli altri gladiatori. Egli comunicò il suo progetto a Marcia, la prediletta fra le sue concubine, che in nulla era inferiore a una moglie legittima e aveva tutti gli onori di un’imperatrice, eccettuate le fiaccole. La donna, venendo a conoscenza di un’idea cosí assurda e indegna, cominciò a supplicarlo, e si gettò ai suoi piedi, chiedendogli tra le lacrime di non fare oltraggio all’impero di Roma, e di non mettersi in pericolo affidandosi a uomini abietti come i gladiatori. Infine, poiché con tutte le sue preghiere non ottenne nulla, se ne andò piangendo. Commodo poi convocò Leto, il prefetto al pretorio, ed Eletto, il cubiculario, per incaricarli di preparare la caserma dei gladiatori in modo che egli potesse trascorrervi la notte, per uscirne quando si sarebbe recato al solenne sacrificio, mostrandosi con le sue armi al popolo romano. Essi pure lo supplicavano, e cercavano di persuaderlo a non far cosa indegna di un imperatore. Commodo, persa la pazienza, li congedò, e si ritirò nelle sue stanze mostrando di voler dormire, come era solito fare nelle ore meridiane. Colà prese uno di quei fogli sottilissimi che si ricavano dalla scorza di tiglio, e possono piegarsi per ogni verso; e vi scrisse una lista di persone che voleva far uccidere in quella notte. Il primo nome era quello di Marcia; subito dopo venivano Leto ed Eletto; quindi molti dei senatori piú eminenti. Voleva infatti eliminare i piú anziani, e gli amici di suo padre ancora viventi, perché gli rincresceva che le sue scelleratezze fossero giudicate severamente; meditava inoltre di spartire i beni dei piú ricchi, facendone dono ai soldati e ai gladiatori: agli uni, perché lo difendessero; agli altri, perché lo divertissero. Dopo aver compilato questo elenco, lo lasciò sul letto, pensando che nessuno sarebbe entrato nella camera. Ma c’era uno schiavo ancora infante, di quelli che non portano vesti, e sono invece coperti d’oro e di gemme preziose: i Romani amanti del lusso li tengono in gran pregio. Commodo lo aveva carissimo, e frequentemente lo teneva a dormire con sé; perciò era chiamato con il soprannome di Filocommodo, che alludeva alla predilezione dell’imperatore per lui. Quando Commodo uscí per il solito bagno e per darsi alle gozzoviglie, questo fanciullo, che sapeva solo giocare, entrò nella stanza a lui ben nota, e prese il foglio abbandonato sul letto, per farsene un trastullo; quindi uscí. Il destino volle che incontrasse Marcia. Poiché anche ella gli era affezionata, gli si avvicinò per abbracciarlo e baciarlo; ma gli tolse il foglio, pensando che nella sua incoscienza fanciullesca avrebbe potuto distruggere per gioco qualcosa d’importante. Riconobbe la mano di Commodo, e le venne curiosità di leggere lo scritto; allora si accorse che questo era un preannuncio di morte. Ella stessa per prima avrebbe dovuto morire; l’avrebbero seguita Leto ed Eletto, e cosí pure molti altri. Proruppe allora in lamenti, e cominciò a dire fra sé: «Commodo, e cosí mi compensi per la fedeltà e l’amore con cui ho sopportato per tanti anni la tua rozzezza e la tua ebrietà? Ma io, che sono sobria, avrò la meglio sulla tua mente ottenebrata dal vino». Subito mandò a chiamare Eletto (essendo questi il cubiculario, ella soleva aver rapporti con lui, e si diceva che ne fosse l’amante); e mostrandogli il foglio disse: «Ecco la festa che ci attende stanotte». Eletto era di sangue egiziano, e aveva un temperamento emotivo, pronto a decidere e ad agire. Fuori di sé per la notizia, mise il suo sigillo sul foglio, e per mezzo di un uomo fidato lo fece portare a Leto, perché lo leggesse. Questi, turbato anch’egli, si precipitò da Marcia, fingendo di doversi consultare con gli altri due, per eseguire gli ordini dell’imperatore circa la caserma dei gladiatori. Mostrando di essere impegnati a soddisfare i desideri di Commodo, i tre decisero di agire prima che egli potesse colpirli: il pericolo non ammetteva indugi o esitazioni. Sembrò opportuno usare il veleno, e Marcia affermò che la cosa le sarebbe riuscita facilmente: ella infatti soleva riempire e porgere a Commodo la prima coppa, che gli riusciva piú grata offertagli dalla sua favorita. Cosí, quando Commodo tornò dal bagno, ella versò il veleno nella coppa, e glielo porse, misto con vino profumato. Quegli, che dopo le abbondanti abluzioni e gli esercizi di caccia si sentiva assetato, bevve senza sospetto, credendo si trattasse del solito gesto affettuoso. Subito si sentí stordito e sonnolento, e, pensando di essersi stancato troppo, andò a riposare. Eletto e Marcia esortarono tutti ad allontanarsi e a ritornare nelle proprie stanze, per lasciarlo tranquillo: infatti non di rado Commodo soffriva di un simile malessere dopo le gozzoviglie. Essendo solito recarsi al bagno e ai banchetti molto di frequente, ed essendo dedito a continui e svariati piaceri, ai quali quando giungeva l’ora si sentiva obbligato anche se non era disposto, non aveva mai un tempo fissato per il riposo. Egli dunque dormí per qualche ora, ma il veleno, procedendo attraverso lo stomaco e l’intestino, provocò un senso di nausea e un abbondante vomito: forse le bevande e i cibi, da lui precedentemente ingeriti, di per sé scacciavano il veleno; oppure, come sempre sogliono fare i sovrani, prima di ogni pasto, si era premunito con un contravveleno. Poiché il vomito era molto abbondante, gli altri temettero che si liberasse interamente del veleno, e si riprendesse: il che voleva dire la morte per tutti loro. Quindi, promettendo di dargli un lauto compenso, convinsero un giovane coraggioso e robusto, di nome Narciso, a entrare, e a strangolare Commodo. Egli dunque entrò, e trovando Commodo indebolito per l’ebrietà e il veleno, lo strangolò. Tale fine ebbe Commodo, che dopo esser succeduto al padre aveva regnato tredici anni. Egli era piú nobile per sangue di tutti i suoi predecessori, era l’uomo piú bello e piú proporzionato del suo tempo, e, se dobbiamo ricordare anche il suo valore, non la cedeva a nessuno in destrezza e abilità: ma, come si è detto, sciupò tutti questi pregi con i suoi turpi costumi.»

ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, I, 16-17

Pertinace imperatore

Dopo la morte di Commodo il passaggio di potere a Pertinace, prefetto dell’Urbe, senatore più importante e anziano della città e veterano delle guerre marcomanniche, fu rapido e indolore, dopo aver placato i pretoriani con la promessa di un donativo. Anche i governatori non si ribellarono. E’ forse possibile dunque, come hanno ipotizzato alcuni storici, tra cui Birley, che Leto avesse preparato la successione da tempo: infatti i governatori di province dove risiedevano diverse legioni scelti dal 190 in poi erano tutti fedeli a lui o di origine africana come lui (come il futuro imperatore Settimio Severo, che si pose come vendicatore di Pertinace, contemporaneamente a Clodio Albino e Pescennio Nigro, che infatti si ribellarono tutti e tre quando Didio Giuliano successe a Pertinace, ucciso dai pretoriani).

«In quel tempo Pertinace non si sottrasse alla possibilità di complicità, offertagli da altri personaggi, nella congiura per uccidere Commodo. Dopo l’uccisione di Commodo, il prefetto del pretorio Leto e il funzionario di corte Ecletto si presentarono da lui per incoraggiarlo ad agire, e lo accompagnarono nell’accampamento. Lì Pertinace tenne un’allocuzione ai soldati, promettendo un donativo, e affermando che il potere gli veniva conferito da Leto ed Ecletto. Fu poi coniata la storia che Commodo fosse morto di malattia, poiché i soldati erano resi incerti dal timore che si volesse mettere a prova la loro fedeltà. Alla fine Pertinace fu proclamato – in un primo momento solo da pochi – imperatore. Fu proclamato imperatore a più di sessant’anni, il 31 di dicembre. Recatosi di notte dall’accampamento al senato, ordinò di aprirgli la cella della Curia, ma poiché non si riusciva a trovare il guardiano, si fermò nel tempio della Concordia. Ed essendo andato da lui il genero di Marco, Claudio Pompeiano, a compiangere la sorte di Commodo, Pertinace lo esortò ad assumere il potere. Ma quello rifiutò, poiché ormai vedeva Pertinace padrone dell’impero, subito dunque tutti i magistrati assieme al console si recarono nella Curia, e non appena Pertinace vi fece il suo ingresso nella notte, lo acclamarono imperatore.»

historia augusta, pertinace, 4, 4-11

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L’assassinio di Commodo – la fine degli Antonini
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