Il regno, dispotico, di Tarquinio (detto dunque il Superbo) non poteva durare a lungo nonostante l’innegabile abilità guerriera. Dopo una visione, un serpente che sbucava da una colonna di legno, il re inviò, preoccupato, una delegazione a Delo per consultare l’oracolo. Della spedizione fece parte Lucio Giunio Bruto che comprese che sarebbe stato lui a governare Roma dopo Tarquinio. Tarquinio Collatino, pronipote di Tarquinio il Superbo, era sposato con Lucrezia. Di lei si era invaghito Tarquinio Sestio, figlio del Superbo, che abbandonò l’assedio di Ardea per tornare a Roma e violentare Lucrezia. Lei si suicidò il giorno dopo, poco dopo aver raggiunto il marito ad Ardea.

Sconvolti, Lucio Giunio Bruto e Tarquinio Collatino decisero di vendicare la moglie di quest’ultimo e non avere pace finché i Tarquini non sarebbero stati cacciati dalla città. I due portarono a Roma il cadavere di Lucrezia, pronunciando un appassionato elogio funebre nel foro, tanto da far sì che il popolo si rivoltasse contro il re e lo deponesse, confiscando tutti i suoi beni e affidando al solo popolo e senato il potere: SPQR, Senatus PopulusQue Romanus (o, forse, Senatus Populusque Quiritium Romanorum).

Il 28 febbraio del 509 a.C. moriva il primo console di Roma, Lucio Giunio Bruto, appena entrato in carica, durante la battaglia della Selva Arsia. Il re fuggitivo, Tarquinio il Superbo, aveva infatti chiesto l’aiuto degli etruschi e di Veio, conducendo l’esercito che si scontrò con i romani nella Selva Arsia. Come accadeva spesso in uno scontro oplitico (anche l’equipaggiamento romano lo era all’epoca) entrambe le ale destre ebbero la meglio, ma l’abbandono del campo veienti spinse i romani ad attribuirsi la vittoria. L’altro console, Publio Valerio Publicola, entrò a Roma il primo marzo celebrando quello che sarebbe stato il primo trionfo dell’era repubblicana.

Tarquinio, insieme al lucumone di Chiusi, Porsenna, mise sotto assedio la città già nel 508 a.C. I nemici riuscirono quasi subito a far irruzione a Roma. I romani, in difficoltà, furono salvati da Orazio Coclite che da solo fermò l’avanzata nemica sul ponte Sublicio, mentre i romani lo abbattevano per impedire ai nemici di attraversare il Tevere:

«Trattenuti dal senso dell’onore due restarono con lui: si trattava di Spurio Larcio e Tito Erminio, entrambi nobili per la nascita e per le imprese compiute. Fu con loro che egli sostenne per qualche tempo la prima pericolosissima ondata di Etruschi e le fasi più accese dello scontro. Poi, quando rimase in piedi solo un pezzo di ponte e quelli che lo stavano demolendo gli urlavano di ripiegare, costrinse anche loro a mettersi in salvo.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, II, 10

Nonostante il sacrificio di Orazio avesse permesso ai romani di ritirarsi, la città era ancora accerchiata dai nemici. Muzio decise di proporre allora al senato di uccidere Porsenna, che glielo concesse. Secondo Dionigi di Alicarnasso l’infiltrazione fu favorita dal fatto che era di origine etrusca, passando dunque inosservato.

«Giunto nel campo etrusco, si mescolò alla folla che si stipava presso la tribuna regale. Qui si stava distri buendo la paga ai soldati, e poiché il segretario che sedeva vicino al re, vestito all’incirca nella stessa foggia, era molto affaccendato, e a lui si rivolgevano generalmente i soldati, Mucio, temendo di domandare chi dei due fosse Porsenna, perché si sarebbe tradito ignorando chi era il re, si affidò alla sorte, e uccise il segretario in luogo del re. Mentre cercava di fuggire, facendosi largo con la punta insanguinata del ferro fra la folla sbigottita, arrestato dalle guardie dei re accorse alle grida, ricondotto indietro e portato senza difesa davanti al tribunale del re, anche allora pur fra tanta minaccia della sorte incutendo timore anziché mostrarsi intimorito, disse: «Sono cittadino romano, mi chiamano Gaio Mucio. Nemico ho voluto uccidere un nemico, e avrò non minor coraggio a morire di quanto ne ho avuto a uccidere: è virtù romana agire e sopportare da forti. E non io solo ho tale animo verso di te: dietro di me vi è una lunga schiera di uomini che ambiscono allo stesso onore. Preparati dunque a questo cimento, se così ti piace, a combattere ad ogni momento per la salvezza della tua vita, e a tenere nel vestibolo della reggia un ferro nemico: questa è la guerra che ti dichiara la gioventù romana. Non un esercito, non una battaglia hai da temere: la lotta sarà contro te solo da parte di singoli uomini». Avendo il re, acceso d’ira e insieme impaurito dai pericolo, ordinato minacciosamente di farlo avvolgere dalle fiamme, se non avesse prontamente rivelato quali insidie nascoste gli minacciava con quel parlare coperto: «Ecco «disse, «perché tu comprenda quanto vile cosa è il corpo per chi mira ad una grande gloria», e pose la destra sul fuoco acceso per il sacrificio. Mentre la lasciava bruciare con l’animo quasi staccato dai sensi, il re sbalordito da quel prodigio balzò giù dal trono, e fatto allontanare il giovane dall’altare disse: «Va’ pure libero, tu che hai osato atti più ostili verso di te che verso di me. Plaudirei alla tua virtù, se essa andasse a beneficio della mia patria; ora invece ti lascio partire di qui esente dalla legge di guerra, incolume e illeso». Allora Mucio quasi per ricompensare tanta generosità disse: «Poiché tu sai rendere omaggio al valore, avrai da me per la tua generosità ciò che non hai avuto con le minacce: trecento giovani della più alta nobiltà romana hanno congiurato di assalirti per questa via; me la sorte ha designato per primo; gli altri, secondo che a ciascuno toccherà, a suo tempo tutti si presenteranno, finché la fortuna ti offrirà ai nostri colpi». Appena Mucio, cui in seguito venne dato il soprannome di Scevola per la perdita della mano destra, fu lasciato libero, dietro di lui vennero a Roma ambasciatori di Porsenna. Il re a tal punto era stato scosso da quel primo pericolo corso, da cui solo l’errore dell’attentatore l’aveva salvato, e dal pensiero di dover affrontare lo stesso rischio tante volte quanti erano i congiurati rimasti, che offerse di sua iniziativa proposte di pace ai Romani.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, II, 12,1 – 13,2

Armato di pugnale arrivò nell’accampamento e attese la distribuzione della paga ai soldati. Quando però cercò di ucciderlo, sbagliò persona. Allora si diede alla fuga ma venne arrestato e portato davanti al tribunale del re. Lì però non si mostrò spaventato, anzi: disse che molti altri romani come lui sarebbero arrivati a tentare di ucciderlo, senza tregua, al che Porsenna minacciò di bruciarlo vivo.

Muzio reagì in modo inaspettato, terrorizzando il lucumone; mise infatti la mano destra sul fuoco e la fece bruciare senza fiatare, come giuramento e mostrando la dedizione imperterrita dei romani. Porsenna, rimasto sconvolto, liberò il giovane, che replicò ancora come fossero trecento coloro i quali avevano giurato di ucciderlo e che sarebbero riusciti nell’impresa. Rientrato a Roma, Muzio ottenne il cognomen di Scevola (il mancino), mentre Porsenna trattò la fine delle ostilità.

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Il senato

Il più famoso organo consultivo dell’antichità, il senato romano, deve il suo nome a senectus, ossia “vecchiaia”. Era dunque, come spesso capitava in molte città mediterranee del tempo, un consiglio formato dai più anziani. La differenza rispetto ad altri era che mancava un legame di sangue o di terra, essendo il primo senato romuleo creato mettendo insieme errandi e vagabondi; i romani saranno infatti sempre aperti ai popoli stranieri.

Inoltre non era il solo organo decisionale, poiché in epoca repubblicana possedevano altrettanto potere i comizi centuriati, in cui votava il popolo romano. I plebisciti vennero anche equiparati alle decisioni del senato. Inoltre esisteva la possibilità di quest’ultimo di legiferare tramite senatus consultum. Ma il maggiore prestigio rese sempre maggiore il potere del senato, che sfociò nelle lotte tra optimates populares nella tarda repubblica e infine la perdita di ogni potere da parte dei comizi a favore del senato, divenuto consiglio del principe.

Dopo la morte di Tito Tazio il governo di Romolo si fece sempre più assoluto e dispotico a occhio dei senatori, tanto che si crede, contrariamente alla storia ufficiale tramandata dai romani stessi che Romolo fosse improvvisamente asceso al cielo, che i senatori, indispettiti dal malgoverno del sovrano lo avessero fatto a pezzi e smembrato il corpo, seppellendolo in varie zone della città. A comunicare l’evento sarebbe stato Proculo Giulio, il più antico antenato conosciuto della gens Iulia:

«Stamattina o Quiriti, verso l’alba, Romolo, padre di questa città, è improvvisamente sceso dal cielo e apparso davanti ai miei occhi. […] Va e annuncia ai Romani che il volere degli Dei è che la mia Roma diventi la capitale del mondo. Che essi diventino pratici nell’arte militare e tramandino ai loro figli che nessuna potenza sulla Terra può resistere alle armi romane.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, I, 16

Con l’avvento della repubblica il senato ottenne enorme prestigio, ma in seguito alle lotte tra patrizi e plebei dovette cedere parrte delle sue prerogative. I plebisciti del popolo vennero equiparati alle decisioni del senato, mentre molte leggi varate dai comizi erano poi ratificate dai padri coscritti. Tuttavia il senato aveva anche potere legislativo, tramite senatus consultum.

Fu portato da Silla a 600 membri, mentre veniva fissato il cursus honorum: la questura portava automaticamente alla cooptazione nell’assemblea. Seguiva l’edilità o il tribunato della plebe, la pretura e il consolato. Al senato venne anche restituito il controllo dei processi (quindi nel caso di malversazioni i senatori si giudicavano tra di loro), dato dai Gracchi ai cavalieri. Silla venne rieletto console nell’80 a.C., ma proprio quando era all’apice della carriera politica, nel 79 a.C., decise di abbandonare il potere e ritirarsi a vita privata, morendo nel 78 a.C.

Cesare portò il senato a circa 1000 membri, immettendo molti provinciali. Dopo la sua dipartita, in un tentativo effimero di ripristinare le istituzioni repubblicane mantenendo una parvenza di legalità, Augusto lo riformò a 600. I requisiti base per entrare nell’assemblea, in epoca repubblicana periodicamente riformata dai censori, erano di possedere 1 milione di sesterzi ed essere nato libero da almeno tre generazioni, mentre chi raggiungeva la cifra di 400.000 sesterzi poteva divenire cavaliere e ricevere anche l’equus publicus

Senatus PopulusQue Romanus

«Quando si esprime un voto secondo le stirpi degli uomini, si hanno i comizi “curiati”; quando [si vota] secondo il censo e l’età, [si hanno i comizi] “centuriati”; quando [si vota] secondo la regioni e i luoghi, [si hanno i comizi] “tributi”»

Aulo Gellio, Noctes Atticae XV, 27, 5

La popolazione romana era divisa in classi censitarie. La prima classe doveva garantire un patrimonio pari a 100.000 assi, la seconda di 75.000, la terza di 50.000, la quarta di 25.000, la quinta di 12.500. Si continuava poi con i proletarii o capite censi. Nei comizi ogni classe venne divisa in centurie per un totale finale di 193, di cui la prima classe forniva 80 centurie di fanti e 18 erano di cavalieri: ciò significava che i più ricchi decidevano sempre le sorti dell’assemblea, dato anche il fatto che la votazione andava per ordine di classe. La seconda, terza, quarta classe fornivano 20 centurie di fanti ciascuna; la quinta ne forniva 30 e i proletarii ne fornivano 5 di non armati, come ad esempio i fabbri.

I comizi potevano essere divisi in modi differenti a seconda della funzione che dovevano svolgere: i più famosi e frequenti erano sicuramenti i già citati comizi centuriati, che servivano ad eleggere i consoli, censori e pretori, decidevano le sorti della pace e della guerra, condannavano o salvavano i cittadini e inoltre votavano le leggi proposte dai magistrati.

C’erano poi i comizi tributi, la divisione del popolo in tribù (che alla fine furono 35 in totale), ovvero distretti territoriali, che all’inizio erano indicativi anche della provenienza geografica ma che già al tempo delle guerre puniche divennero puramente indicative del domicilio di chi votava, in modo da appianare le divergenze. Tuttavia i comizi tributi votavano magistrati minori come gli edili curuli (due, sempre patrizi), i due edili plebei e i questori.

I comizi centuriati (30 erano le curie, 10 per ciascuna delle tribù originali: Ramnes – Latini-, Tities – Sabini -, Luceres – Etruschi) invece erano più arcaici e rappresentavano una divisione primitiva tra cinque classi di censo. Persero rapidamente importanza e passava per questa assemblea la sola ratifica delle elezioni dei magistrati, approvata tramite lex curiata de imperio, che conferiva loro l’imperium.

Infine i comizi curiati mantenevano giurisdizione sulle gentes, permettendo sotto la presidenza del Pontifex Maximus le adozioni e i testamenti, come ad esempio nel caso di Publio Clodio Pulcro trasformato in plebeo nel 59 a.C. o l’apertura e ratifica del testamento di Cesare nel 44 a.C. che prevedeva l’adozione di Ottaviano.

Le decisioni dell’assemblea del popolo, i concilia plebis, erano chiamati plebisciti e non avevano potere vincolante né per i comizi né per il senato, ma i tribuni, sacri e inviolabili, possedevano anche il diritto di veto e potevano dunque ostacolare azioni del senato considerate ostili alla plebe.

Successivamente per compensare l’impossibilità di eleggere magistrati tra i plebei e in particolare consoli, vennero creati i tribuni militum consulari potestate, che tra il 444 a.C. e il 367 a.C., in numero da due a sei, sostituivano i consoli qualora i comizi volessero almeno un plebeo al comando.

Subito dopo la redazione delle XII tavole, nel 449 a.C., la plebe si rafforzò ulteriormente grazie alle Leges Valeriae Horatiae, che concedevano il diritto di veto ai tribuni della plebe. Nel 445 a.C. il tribuno della plebe Canuleio riuscì a far approvare un plebiscito che divenne la lex Canuleia, la quale aboliva il divieto di matrimonio tra patrizi e plebei.

Nel 367 a.C. vennero infine approvate le Leges Liciniae Sextiae, proposte dai tribuni della plebe Gaio Licinio e Lucio Sestio Laterano. Oltre a limitare (nella teoria) il possesso delle terre in modo che tutti ne avessero abbastanza per vivere, si concedeva alla plebe l’accesso al consolato. Tale affermazione risulta ancora più importante se si considera che potevano appartenere alla plebe anche stranieri che avevano ottenuto la cittadinanza. In seguito ad ulteriori scontri tra plebei e patrizi scaturì nel 287 a.C. la Lex Hortensia, che equiparava i plebiscita alle leges comitiales.

Nel 241 a.C. le tribù divennero 35, e tali restarono nei secoli a venire. Dunque il sistema politico romano cominciò a consolidarsi. Le tribù sono importanti perché i nuovi cittadini venivano iscritti in una determinata tribù a seconda del luogo. Infine la Lex Aemilia de libertinorum suffragiis, del 115 a.C., invece, concedeva, con alcune limitazioni, il diritto di voto ai liberti (che però non godevano della possibilità di candidarsi). Poteva dunque succedere che uno schiavo di una qualsiasi provenienza etnica una volta liberato potesse votare, mentre gli Italici, fedeli a Roma da secoli, non potevano in alcun modo esprimere il loro peso politico.

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Le assemblee romane – i comizi e il senato
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