«A Nerone successe Galba, che non aveva nessuna relazione di parentela con la famiglia dei Cesari. Si segnalava bensì senza dubbio per illustre e antica prosapia: tanto che nelle iscrizioni ai piedi delle statue potè vantarsi pronipote di Quinto Catulo Capitolino; e poi, salito al principato, nell’atrio del palazzo collocò un albero genealogico nel quale faceva risalire fino a Giove l’origine paterna e quella materna fino a Pasifae, sposa di Minosse.»

«Mentre presiedeva una riunione a Cartagine Nova, venne a sapere che le Gallie si erano sollevate e che il governatore dell’Aquitania invocava aiuto. Giunse anche una lettera di Vindice, che lo esortava a farsi guida e difensore dell’umanità. Senza troppo esitare accolse l’invito, sia per timore che per speranza: aveva in effetti potuto intercettare segrete missive di Nerone ai suoi agenti con l’ordine di eliminarlo. Ma lo sostenevano anche, con gli auspici e i presagi più favorevoli, le profezie di una giovane della nobiltà: tanto più che un sacerdote di Giove, ispirato da un sogno, aveva scoperto nei penetrali del santuario di Clunia che quegli stessi vaticini collimavano con gli oracoli pronunciati da una vergine profetessa duecento anni prima. E la sostanza di tali profezie era che sarebbe sorto un giorno dalla Spagna un principe signore del mondo.»

Svetonio, Galba, 2; 9

Vindice chiese a Galba, governatore della Spagna Tarraconense, di farsi difensore della res publica; il senatore, sebbene anziano, decise di accettare. Anche il prefetto al pretorio Ninfidio Sabino decise di appoggiarlo, ma Galba, arrivato a Roma dopo la morte di Nerone, lo rimpiazzò con Cornelio Lacone, mal gradendo le laute ricompense che aveva promesso ai pretoriani. Galba era infatti fautore di una politica di forte austerità morale: evitò di dare il donativo, mentre cercava ovunque di imporre una disciplina considerata ormai di altri tempi. Infine associò a sé come successore non Otone, che lo aveva appoggiato fin dall’inizio, ma il senatore Lucio Calpurnio Pisone Liciniano Frugi (nipote del Pisone che aveva congiurato contro Nerone), scelto da Galba perché considerato il migliore e il più nobile (discendeva infatti sia da Pompeo che da Crasso, mentre Galba discendeva dai Sulpici e dai Lutazi). Otone non riuscì a tollerare la mancata adozione e tramò ben presto per rimpiazzarlo, facendolo assassinare infine nel gennaio del 69, dopo essersi comprato la fedeltà dei pretoriani, insieme a Pisone. Non solo, Otone ristabilì la memoria di Nerone, fortemente amante del popolo (così come più “filoborghese” era la politica del nuovo imperatore, che strizzava l’occhio al ceto equestre più che alle vetuste tradizioni repubblicane senatoriali di Galba).

La prima battaglia

Quando Galba divenne imperatore, affidò a Vitellio il compito di reprimere la rivolta in Germania, ma lì fu acclamato imperatore e venne soprannominato “Germanico”, titolo che apprezzava più di “Augusto”. Alla notizia della morte di Galba, su invito di Fabio Valente e Aulo Cecina Alieno, marciò in Italia contro Otone, i cui soldati sconfisse a Bedriaco, nei pressi di Cremona.

«Ebbe notizia della vittoria di Bedriaco e della morte di Otone mentre era ancora in Gallia. Senza indugio con un unico editto esautorò tutte le coorti dei pretoriani, quante ce n’erano, per il pessimo esempio che avevano offerto e ordinò che consegnassero le armi nelle mani dei loro ufficiali. Inoltre fece ricercare e condannare centoventi pretoriani di cui aveva trovato le petizioni rivolte a Otone con la richiesta di un premio per essersi impegnati nell’uccisione di Galba. Fu un gesto, il suo, davvero apprezzabile e nobile, tale da far nascere la speranza di un ottimo principato, se le altre sue azioni non fossero state intonate più al suo temperamento e alla sua vita precedente che alla maestà dell’impero. In realtà, messosi in cammino, si fece portare in mezzo alle città come un trionfatore e attraversò i fiumi su raffinate imbarcazioni inghirlandate di corone d’ogni genere in una profusione di feste e di banchetti. Domestici e soldati erano privi ormai di ogni freno, ma egli volgeva a scherzo le loro ruberie e le loro insolenze; e quelli del suo seguito, non contenti dei conviti imbanditi dovunque a spese pubbliche, affrancavano gli schiavi secondo il loro capriccio, ripagando quanti tentavano di fare opposizione con bastonature e sferzate, spesso con ferite e non di rado con la morte. Quando visitò i campi dove si era combattuto, mentre non pochi inorridivano al lezzo dei cadaveri in decomposizione, egli ebbe l’ardire di rincuorarli con questa battuta spregevole: «Ha sempre un buonissimo odore il nemico ucciso, meglio ancora se è un concittadino». Però, per l’orribile fetore, bevve davanti a tutti una gran sorsata di vino, e vino fece distribuire agli astanti. Con una simile fatua vanità, guardando la lapide con l’iscrizione posta a memoria di Otone, esclamò che era proprio degna di quel mausoleo; e mandò il pugnale con cui Otone si era ucciso a Colonia Agrippinense perché fosse dedicato al tempio di Marte. Poi, in cima agli Appennini, volle celebrare una veglia di ringraziamento.»

SVETONIO, VITELLIO, 10

Otone, saputo della sconfitta, nonostante stessero arrivando rinforzi dal Danubio, si tolse la vita, il 16 aprile, forse per evitare ulteriori sofferenze allo stato. Fu così che Vitellio, scortato dai soldati germanici, tra cui i temibili batavi, entrò a Roma.

«Infine fece il suo ingresso in Roma al suono delle trombe paludato da generale e con la spada al fianco. Tra insegne e vessilli lo seguivano i suoi compagni con il mantello militare e i suoi soldati con le armi sguainate. Poi, di giorno in giorno sempre più spregiando ogni legge umana e divina, nell’anniversario dell’Allia assunse il pontificato massimo, dispose le elezioni per i prossimi dieci anni e prese per sé il consolato a vita. E perché nessuno avesse dubbi sul modello che egli sceglieva per reggere le sorti dello Stato, in mezzo al Campo di Marte con gran concorso di pubblici sacerdoti celebrò i riti funebri in onore di Nerone. Inoltre, in un convito solenne, invitò alla presenza di tutti un famoso citaredo a intonare qualche brano del Dominico, e, mentre quello attaccava un cantico di Nerone, applaudì per primo con entusiasmo.»

SVETONIO, VITELLIO, 11

La seconda battaglia

Mentre Vitellio faceva il suo ingresso in Roma, il 1 luglio del 69 le legioni orientali acclamavano imperatore ad Alessandria, in Egitto, Tito Flavio Vespasiano, inviato qualche anno prima da Nerone a domare la rivolta giudaica. La guerra, di cui restava principalmente l’assedio di Gerusalemme fu demandata al figlio Tito, mentre anche le legioni danubiane (quasi la metà dell’esercito imperiale) passavano in massa dalla parte di Vespasiano, visto come vendicatore di Otone che inizialmente avevano appoggiato. L’esercito danubiano-orientale cominciava la marcia verso l’Italia, mentre Vespasiano restava ad Alessandria.

Tra il 24 e il 25 ottobre del 69 d.C. Antonio Primo, comandante delle forze di Vespasiano, sconfigge le legioni di Vitellio nella seconda battaglia di Bedriaco, nei pressi di Cremona. Il 14 aprile precedente le legioni di Vitellio avevano sconfitto nello stesso luogo quelle di Otone. Dopo una lunga battaglia durata tutta la notte, con i vitelliani illuminati dalla luna e quindi svantaggiati, alla fine l’incitamento di Antonio Primo e l’entusiasmo di alcuni reparti come la legio III Gallica che, di stanza in Siria, vide nel sole che sorgeva un segnale benaugurante, portarono i vitelliani (che avevano imprigionato il loro comandante Cecina perché voleva disertare a favore di Vespasiano) a sfaldarsi e infine in rotta. Tacito racconta così l’epilogo di Bedriaco:

“Da ogni parte sorsero clamori e quelli della terza salutarono il sorgere del sole, come avevano appreso a fare in Siria. Subito dopo si sparse la voce (forse fu lo stesso Antonio Primo a metterla in giro ad arte) che Muciano era giunto e gli eserciti si erano scambiati il saluto. Sentendosi quasi sostenuti da forze fresche, i Flaviani si buttarono airattacco mentre nella schiera dei Vitelliani si aprivano dei vuoti perché i soldati, non avendo un capo, ora si stringevano ora si allargavano trasportati dalla foga o dalla paura. Quando Antonio capì che il nemico ormai cedeva, prese ad attaccarlo con le file serrate. Le file, ormai scollegate fra loro, venivano stravolte e non era possibile trovare un minimo di ordine perché ad impedirlo c’erano i veicoli e le catapulte. I vincitori, spinti dalla foga di inseguire, si spargono lungo i margini della strada. Quella strage è da ricordare in modo particolare perché un figlio uccise suo padre. La mia fonte per il nome e per il fatto è Vipstano Messalla. Giulio Mansueto, oriundo dalla #Spagna, appartenente alla legione Rapace, aveva lasciato a casa un figlio ancora ragazzo. Questi, diventato adulto, fu arruolato nella settima da Galba. Si trova casualmente di fronte al padre e lo stende a terra con un colpo mortale; prende a frugarlo mentre è in agonia, viene riconosciuto e a sua volta riconosce. Allora lo afferra tra le braccia ormai morente e con voce rotta dal pianto prega i mani paterni di placarsi e di non rinnegarlo come parricida. Ma quello era un delitto commesso da tutti e quasi nulla contava la responsabilità di un singolo soldato. Tiene sollevato il corpo, scava la fossa e, insieme, rende al padre le estreme onoranze funebri. I vicini e poi molti altri se ne accorgono: allora su tutto il campo di battaglia grandi sono la meraviglia, i lamenti, l’esecrazione per una guerra crudelissima. Ma non basta questo a frenare i massacri e le spoliazioni tra parenti, tra consanguinei, tra fratelli. Tutti definiscono scellerato un evento del genere e tutti lo commettono in proprio.”

Tacito, Storie, 3, 24-25

Vespasiano aveva ottenuto l’impero, legittimato dalla promulgazione della lex de imperio Vespasiani. Dopo la dinastia giulio-claudia, fatta di discendenti di Cesare, la forma imperiale era stata in qualche modo legalizzata. Ogni imperatore porterà sempre il titolo di imperator caesar augustus.

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Le battaglie di Bedriaco
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