Il 17 marzo 180, malato di peste, moriva l’imperatore Marco Aurelio, dopo essersi lasciato andare:

«[Marco Aurelio] Con la mente agitata da questi pensieri, convocò gli amici e i familiari, che erano al suo seguito; e quando tutti furono riuniti, tenendosi vicino il figlio, si sollevò alquanto dal letto e cominciò a parlare in questo modo: «Non mi meraviglio che voi siate addolorati vedendomi in tali condizioni: l’uomo è naturalmente incline a dolersi per le sventure dei familiari, e i mali che cadono sotto i nostri occhi provocano pietà ancor maggiore. Io però credo di potermi aspettare da voi ancora di piú: infatti, in base al modo in cui mi sono comportato nei vostri riguardi, ho ragione di sperare da voi ricambio di affetto. Ora si presenta la buona occasione, per me, di constatare che non invano per tanto tempo vi ho amato e onorato, e per voi di ricambiarmi, mostrando che non siete immemori di ciò che avete ottenuto. Vedete questo mio figlio, che voi stessi avete cresciuto; egli può appena dirsi un giovanetto, e ha bisogno di guida, come un battello nel tumulto dell’uragano, per non essere spinto al male dall’ignoranza di ciò che è necessario. Prendete dunque il mio posto presso di lui, dividendo fra molti l’ufficio di un padre; seguitelo, e consigliatelo per il meglio. Infatti non c’è ricchezza, per quanto grande, che valga contro la sregolatezza della tirannide, e non c’è guardia del corpo capace di sostenere un principe, se egli non è circondato dalla benevolenza dei sudditi. E quelli che ispirarono ai sudditi, non il timore per la loro crudeltà, ma la gratitudine per la loro generosità, piú a lungo degli altri conservarono il potere senza pericolo. Infatti non coloro che servono per forza, ma coloro che ubbidiscono per convinzione perseverano nel trattare e nel lasciarsi trattare con sincerità e senza ipocrisia. E nessuno giammai si ribella se non vi è costretto dalla prepotenza e dall’iniquità.  È difficile, per chi ha il potere, moderarsi e porre un limite alle passioni. Ammonendo mio figlio su queste difficoltà, e ricordandogli ciò che ora ascolta, farete di lui un ottimo principe per se stesso e per tutti; tributerete il migliore omaggio alla mia memoria, e anzi solo cosí potrete renderla eterna». Mentre diceva queste cose, Marco fu colpito da un collasso, e tacque; poi, per la debolezza e lo scoramento, si abbatté disteso sul letto. E pietà prese tutti gli astanti; sicché alcuni, non riuscendo a trattenersi, cominciarono a piangere e a lamentarsi. Egli poi, dopo esser vissuto ancora una notte e un giorno, morí, lasciando il rimpianto agli uomini del suo tempo, e un eterno ricordo alle generazioni future. Quando poi la notizia della sua morte si diffuse, tutti quelli che allora servivano come soldati, e tutta la massa dei civili, furono colpiti da uguale dolore; e non vi fu alcuno degli uomini soggetti al governo romano che accogliesse questa notizia senza lacrime. Tutti, a una voce, lo piangevano: alcuni come ottimo padre, altri come buon principe, altri come valoroso condottiero, altri come saggio e degno amministratore; e tutti erano sinceri.»

erodiano, storia dell’impero romano dopo marco aurelio, I, 4,6-8

Un principe inesperto

Morto il padre, Commodo, una volta elaborato il lutto, prese la parola davanti l’esercito, mostrando una sensibilità propria di un grande principe:

«Io sono convinto che il dolore per la sventura che ci ha colpiti è comune, e che voi siete afflitti non meno di me. Infatti, quando era vivo mio padre, il vostro rango era pari al mio; egli amava ciascuno di voi quanto me, e si compiaceva di chiamarmi piuttosto commilitone che figlio: questo nome infatti (egli pensava) non indica nulla piú che un legame materiale; il primo una comunanza nel valore. E poiché, fin da quando ero un infante, egli soleva condurmi con sé, spesso mi affidò alla vostra fedeltà. Dunque io confido di ottenere senza fatica tutta la vostra benevolenza, perché i piú anziani sono legati a me dalle cure paterne che mi hanno dedicato, mentre i piú giovani potrei a ragione chiamarli miei condiscepoli nell’arte militare. Mio padre infatti amava tutti noi come una sola persona, e ci educava a tutte le virtú. Il destino designò me come suo successore, e io non sono estraneo alla dignità di principe, come quelli che prima di me furono elevati da un potere ricevuto in dono; io solo fui generato nella dimora di un sovrano, e non fui suddito nemmeno in fasce: appena venni alla luce mi avvolse la porpora regale, e il sole mi vide nello stesso istante uomo e imperatore. Considerando queste cose, ben a ragione dovete amare colui che è vostro sovrano per diritto di nascita, e non per una scelta arbitraria. Mio padre dunque, salito al cielo, ormai si accompagna agli dèi, e siede nel loro consesso; a me conviene curare la sorte dei viventi, e amministrare le cose di questo mondo. A voi spetta un compito di sostegno e protezione: eliminare con il vostro valore gli ultimi residui della guerra, e portare all’Oceano i confini dell’impero. Cosí vi renderete gloriosi, e insieme adempirete al debito di gratitudine verso il nostro comune genitore; abbiate per certo, infatti, che egli vede e ode ciò che facciamo e diciamo: ed è per noi grande fortuna compiere il nostro dovere con un tale testimone. Le nobili imprese che finora avete condotte a termine si attribuiscono a merito del suo saggio comando: ma da quelle che compirete con il vostro valore sotto il mio regno voi stessi otterrete fama di fedeltà e di coraggio; e alla mia gioventú darete prestigio con l’eccellenza della vostra opera. Se i barbari saranno battuti all’inizio del nuovo regno, per ora non oseranno sfidare la mia inesperienza, e per il futuro graverà su di essi il timore di ciò che hanno provato».

ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, I, 5,3-8

Commodo decise però di abbandonare le conquiste del padre oltre il Danubio e di ritornare a Roma. Era stato nominato Cesare e aveva ricevuto la tribunicia potestas nel 177. Strinse la pace con i barbari, contro i consigli dei collaboratori paterni e fermò le persecuzioni contro i cristiani che c’erano state sotto il padre. Probabilmente diversi dei suoi collaboratori lo erano.

«Licenziò i funzionari più anziani di suo padre, allontanò i suoi vecchi amici. Cercò di attrarre a una vita dissoluta il figlio del generale Salvio Giuliano, ma senza successo: per vendicarsi tramò insidie contro Giuliano. Tutte le persone più oneste le allontanò o coprendole direttamente di insulti infamanti, o degradandole ad uffici del tutto indegni di loro. Certi commedianti avevano fatto allusione alle sue perversioni sessuali: egli li fece subito deportare così che non si vedessero più in scena. Abbandonò poi la guerra che il padre aveva quasi condotto a conclusione, accettando passivamente le condizioni imposte dal nemico, e fece ritorno a Roma. Là giunto, celebrò il trionfo facendo prendere posto dietro di sé sul carro al suo partner di perversione Saotero, e più volte si rigirava a baciarlo alla vista di tutti. La stessa cosa faceva anche sui banchi del teatro. E se fino a giorno fatto si ubriacava e gozzovigliava dissanguando le risorse dell’impero romano, anche durante la sera vagava tra le bettole recandosi nei postriboli. Mandava a governare le province individui che o erano gli stessi complici dei suoi vizi o gli erano stati raccomandati da delinquenti. Venne talmente in odio al senato, che a sua volta divenuto, sentendosi disprezzato, crudele, finì per infierire senza pietà contro quell’illustre ordine.»

Historia Augusta, Commodo, 3, 1-9

Tuttavia il suo atteggiamento libertino e l’amore per i giochi e gli spettacoli, e la poca cura che riponeva nel governo, spinse la sorella Lucilla e il consolare Ummidio Quadrato, a organizzare una congiura, fallita, per eliminarlo. La congiura, avvenuta nel 182, era fallita. Ma da allora Commodo, sconsolato, si ritirò dagli affari pubblici, che delegava ad altri, preferendo dedicarsi agli spettacoli gladiatori, che amava oltremodo:

«Dopo quanto avvenuto Commodo si mostrava difficilmente in pubblico, e non voleva che gli venissero portati messaggi senza che prima se ne fosse occupato Perenne. Perenne, poi, che sapeva tutto del carattere di Commodo, trovò il modo di diventare lui stesso potente. Persuase infatti Commodo a dedicarsi completamente ai suoi divertimenti, mentre lui, Perenne, si assumeva le cure del governo; ciò che Commodo accettò con entusiasmo. Vivendo dunque secondo questo accordo, se la spassava nel Palazzo gozzovigliando tra banchetti e bagni in compagnia di trecento concubine, che aveva radunato scegliendole fra le matrone e le meretrici per la loro bellezza, e di giovanetti pervertiti, anch’essi in numero di trecento, che aveva raccolto a viva forza o comprandoli, tanto fra il popolo quanto di mezzo alla nobiltà, e avendo quale criterio di scelta l’avvenenza. Di tanto in tanto, in veste di sacerdote, immolava vittime. Si cimentava in duelli in qualità di gladiatore, usando nell’arena dei bastoni, mentre, quando combatteva con gli inservienti di corte, con armi talvolta affilate. Intanto comunque Perenne aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare. Dal canto suo Commodo fece uccidere la sorella Lucilla dopo averla confinata a Capri. Poi, dopo aver violentato, a quanto si dice, tutte le altre sorelle, e aver anche avuto rapporti con una cugina del padre, arrivò a dare il nome della madre a una delle sue concubine. Sua moglie, che aveva sorpreso in adulterio, la cacciò di casa, poi la fece deportare, e infine la fece uccidere. Ordinava che le stesse sue concubine venissero violentate sotto i suoi occhi. Né era esente dall’ignominia di essere stato oggetto di rapporti omosessuali con giovani, e non c’era parte del suo corpo, compresa la bocca, che non fosse stata contaminata da aberrazioni sessuali in rapporto ad entrambi i sessi.»

Historia Augusta, Commodo, 5, 1-11

Messi da parte gli affari pubblici, Commodo cominciò a passare sempre più tempo nel Colosseo, fino a voler scendere lui stesso nell’arena, azione considerata infamissima, in quanto chi vi partecipava era solitamente uno schiavo. Non solo, partecipava ai combattimenti travestito da Ercole, con una clava e una pelle di leone.

«Giunse a tal punto di follia e di stoltezza da rifiutare il nome paterno, e da farsi chiamare, anziché Commodo figlio di Marco, Ercole, figlio di Giove. Abbandonato il costume degli imperatori romani, indossava una pelle di leone reggendo in mano una clava; ma insieme portava un mantello di porpora intessuto d’oro: sicché tutti lo schernivano perché in un solo costume egli imitava lo sfarzo femminile e il vigore degli eroi. Cosí camuffato egli si mostrava al pubblico. Volle inoltre cambiare il nome ai mesi dell’anno, abolendo i nomi tradizionali e creandone di nuovi tratti dai propri appellativi, la maggior parte dei quali si riferiva, naturalmente, a Ercole, come all’eroe piú valoroso. Elevò anche statue con la propria effigie per tutta la città, una delle quali si trovava di fronte alla curia ed era in atto di tendere l’arco: voleva infatti intimorire i senatori anche per mezzo della propria immagine.»

«Egli intanto aveva già perduto ogni freno; e organizzò pubblici spettacoli, impegnandosi a uccidere tutte le fiere di sua mano, e a misurarsi in duello con i giovani piú valorosi. Quando si diffuse questa notizia, accorse gente da tutta l’Italia e dalle province vicine, per assistere a uno spettacolo che fino allora nessuno aveva visto, e nemmeno udito narrare. Per di piú si sapeva che egli era molto abile, e poneva somma cura nel colpire sempre il bersaglio, sia con il giavellotto, sia con l’arco. Curavano il suo allenamento i migliori arcieri parti e i Numidi piú esperti nel giavellotto: ma egli li superava tutti in destrezza. Quando venne il giorno dello spettacolo, l’anfiteatro era pieno. Per Commodo era stata predisposta intorno all’arena una corsia, dalla quale egli potesse bersagliare le fiere stando in alto e al sicuro, senza arrischiarsi ad affrontarle da vicino; in tal modo egli dava spettacolo di destrezza piuttosto che di coraggio. Quando entravano nell’arena cervi e caprioli, o altri erbivori (eccettuati beninteso i tori) li colpiva correndo in mezzo a loro e inseguendoli; riusciva infatti, nonostante la loro velocità, a raggiungerli con colpi ben aggiustati. Quanto ai leoni, alle pantere, e in genere agli animali che si difendono, li colpiva dall’alto, correndo intorno all’arena. E nessuno vide che egli dovesse ripetere un colpo, e tutti i colpi andati a segno furono mortali. Calcolando il balzo della fiera, dirigeva l’arma al muso, oppure al cuore; non mirò mai ad altro bersaglio, né mai le sue armi colpirono altre parti del corpo, dove le ferite avrebbero potuto non essere mortali. Per il suo spettacolo erano state raccolte fiere di ogni paese: vedemmo allora per la prima volta ciò che avevamo potuto ammirare solo nei dipinti. Egli infatti, avendo raccolto tutte le fiere dell’India, dell’Etiopia, delle terre settentrionali e delle meridionali, se mai qualche animale era sconosciuto l’offerse in spettacolo ai Romani nell’atto in cui l’uccideva. Tutti rimasero stupiti della sua bravura. Contro gli struzzi africani, che corrono rapidissimi, servendosi insieme delle zampe e delle ali, egli usò frecce munite di una lama falcata, mirando al collo e tagliandolo; dopo che la freccia aveva reciso la testa, essi continuavano a correre come se non fossero stati colpiti. A un certo momento una pantera aveva raggiunto con un balzo rapidissimo uno degli inservienti, e stava per sbranarlo, ma Commodo riuscí a prevenirla con un colpo, uccidendo la fiera e salvando l’uomo; anzi, può dirsi che con la punta del giavellotto prevenisse la punta delle zanne. E quando furono fatti uscire dai sotterranei cento leoni tutti in una volta, egli li uccise tutti con altrettanti giavellotti: i corpi rimasero per lungo tempo giacenti, sicché tutti ebbero modo di contarli; e non si vide un’arma caduta a vuoto. Fin qui le sue azioni, sebbene fossero indegne di un imperatore, gli conferivano agli occhi della plebe il prestigio del valore e della destrezza; ma quando egli scese nell’anfiteatro, e, spogliatosi dei suoi abiti, cinse le armi per impegnare combattimenti da gladiatore, allora il popolo vide uno spettacolo ripugnante: un imperatore romano di nobile stirpe, dopo tanti trionfi del padre e degli avi, cingeva armi che non erano quelle del soldato, e non servivano per combattere i barbari, come si addice allo stato romano; anzi infangava la propria maestà con un abito turpe e dispregiato. Egli naturalmente, nel combattere, superava facilmente gli avversari, e riusciva a ferirli: poiché tutti si lasciavano battere, cedendo al sovrano se non al guerriero. E giunse a tal punto di follia, che non voleva piú nemmeno abitare il palazzo imperiale, e meditava di trasferirsi alla caserma dei gladiatori; inoltre rinunciò al nome di Ercole, e si fece chiamare con il nome di un gladiatore famoso che era morto qualche tempo prima. Ordinò poi di togliere la testa alla statua colossale che rappresenta il Sole, ed è oggetto di venerazione da parte dei Romani, e vi sostituí la propria effigie, iscrivendo sulla base, come è consuetudine, i titoli imperiali suoi e del padre; ma, in luogo di «vincitore sui Germani» vi fece iscrivere «vincitore su mille gladiatori».»

ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, I, 14, 8-9; 15, 1-9

Commodo era ormai impazzito e, racconta Cassio Dione, in un’occasione decapitò uno struzzo e procedette verso i senatori seduti con la sua testa in una mano e il gladio nell’altra, limitandosi a scuotere la testa e sghignazzare. Fu proprio la prontezza di Cassio Dione a salvare tutti; infatti prese una foglia dell’alloro che aveva in testa e prese a masticarla, facendo cenno agli altri di imitarlo, in modo da nascondere il riso (Cassio Dione, Storia Romana, 72, 21, 2).

«Tuttavia, nonostante questo fosse il suo tenore di vita, durante il suo impero furono vinti, grazie all’azione dei suoi comandanti, i Mauri e i Daci, e vennero pacificate la Pannonia e la Britannia, mentre in Germania e in Dacia i provinciali si sollevavano contro il suo potere; ma tutti questi moti furono sedati dai suoi generali. Commodo era pigro e svogliato anche per sottoscrivere i documenti, tanto che rispondeva a molte petizioni con un’unica medesima formula, e in moltissime lettere scriveva soltanto «Vale». Tutti gli affari erano trattati da altri personaggi, che si dice riuscissero a volgere a vantaggio della loro borsa persino le condanne. A causa di questa sua trascuratezza, poiché coloro che gestivano allora l’amministrazione dello Stato rubavano persino sui rifornimenti annonari, ebbe anche a scoppiare a Roma una grave carestia, benché non ci fosse deficienza di prodotti. In seguito questi individui che facevano razzia di ogni cosa Commodo li mise a morte e ne fece proscrivere i beni. Ma egli a sua volta, volendo far apparire che era tornata un’età dell’oro chiamata «Commodiana», impose un abbassamento dei prezzi, con cui finì per rendere più grave la carestia.»

Historia Augusta, Commodo, 13, 5-8; 14, 1-3

Alla fine, dopo diverse congiure sventate, Commodo fu strangolato da Narciso, il gladiatore con cui si allenava, dopo un primo tentativo di avvelenarlo. La congiura era stata organizzata da Marcia, concubina dell’imperatore, e Emilio Leto, prefetto al pretorio. Pare che un ragazzino con cui giocava l’imperatore, ribattezzato da lui Filocommodo, trovò un foglietto di carta, e non sapendo leggere lo usava per giocare. Lo diede poi a Marcia, che lesse su quel foglio la lista di persone che l’imperatore voleva far uccidere, e c’era anche lei. La congiura fu organizzata rapidamente, ma riuscì (ce n’erano state diverse negli anni precedenti). Era il 31 dicembre 192 d.C. Il primo gennaio del 193 sarebbe diventato imperatore il prefetto dell’Urbe Pertinace, già comandante durante le guerre marcomanniche.

«Sotto la spinta di questo stato di cose – sebbene troppo tardi – il prefetto Quinto Emilio Leto e la sua concubina Marcia ordirono una congiura per assassinarlo. E in un primo tempo gli somministrarono del veleno: ma poiché questo non si mostrava efficace, lo fecero strangolare da un atleta con il quale era solito allenarsi.»

«Ma senza dubbio, era destino che la sua follia e il dispotismo sui Romani avessero fine una buona volta; e ciò doveva accadere il primo giorno del nuovo anno. I Romani, in quel giorno, celebrano una festa in onore di un dio italico, indigeno e antichissimo: dicono infatti che lo stesso Saturno sia stato suo ospite quando scese sulla terra, spodestato da Giove. Saturno, temendo il potere del figlio, cercò rifugio nascondendosi presso quel dio italico: da ciò sarebbe venuto il nome a questa regione, che fu detta Lazio, dalla parola greca λανθάνω, adattata alla lingua locale. Perciò appunto gli Italici, ancor oggi, festeggiano i Saturnali in onore del dio che si nascose, e poi celebrano l’inizio dell’anno in onore del dio indigeno. La statua del loro dio ha due facce, perché con lui l’anno comincia e finisce. Era giunta questa solennità, in cui i Romani massimamente si scambiano visite e auguri, e si danno buon tempo, sia scambiandosi doni in denaro, sia consumando insieme i migliori cibi; e i consoli indossano per la prima volta le insegne annuali della loro gloriosa carica. Commodo intendeva, mentre le feste erano al culmine, presentarsi al popolo di Roma partendo dalla caserma dei gladiatori anziché, come era costume, dal palazzo imperiale; indossando l’armatura invece dell’augusto paludamento purpureo; e scortato dagli altri gladiatori. Egli comunicò il suo progetto a Marcia, la prediletta fra le sue concubine, che in nulla era inferiore a una moglie legittima e aveva tutti gli onori di un’imperatrice, eccettuate le fiaccole. La donna, venendo a conoscenza di un’idea cosí assurda e indegna, cominciò a supplicarlo, e si gettò ai suoi piedi, chiedendogli tra le lacrime di non fare oltraggio all’impero di Roma, e di non mettersi in pericolo affidandosi a uomini abietti come i gladiatori. Infine, poiché con tutte le sue preghiere non ottenne nulla, se ne andò piangendo. Commodo poi convocò Leto, il prefetto al pretorio, ed Eletto, il cubiculario, per incaricarli di preparare la caserma dei gladiatori in modo che egli potesse trascorrervi la notte, per uscirne quando si sarebbe recato al solenne sacrificio, mostrandosi con le sue armi al popolo romano. Essi pure lo supplicavano, e cercavano di persuaderlo a non far cosa indegna di un imperatore. Commodo, persa la pazienza, li congedò, e si ritirò nelle sue stanze mostrando di voler dormire, come era solito fare nelle ore meridiane. Colà prese uno di quei fogli sottilissimi che si ricavano dalla scorza di tiglio, e possono piegarsi per ogni verso; e vi scrisse una lista di persone che voleva far uccidere in quella notte. Il primo nome era quello di Marcia; subito dopo venivano Leto ed Eletto; quindi molti dei senatori piú eminenti. Voleva infatti eliminare i piú anziani, e gli amici di suo padre ancora viventi, perché gli rincresceva che le sue scelleratezze fossero giudicate severamente; meditava inoltre di spartire i beni dei piú ricchi, facendone dono ai soldati e ai gladiatori: agli uni, perché lo difendessero; agli altri, perché lo divertissero. Dopo aver compilato questo elenco, lo lasciò sul letto, pensando che nessuno sarebbe entrato nella camera. Ma c’era uno schiavo ancora infante, di quelli che non portano vesti, e sono invece coperti d’oro e di gemme preziose: i Romani amanti del lusso li tengono in gran pregio. Commodo lo aveva carissimo, e frequentemente lo teneva a dormire con sé; perciò era chiamato con il soprannome di Filocommodo, che alludeva alla predilezione dell’imperatore per lui. Quando Commodo uscí per il solito bagno e per darsi alle gozzoviglie, questo fanciullo, che sapeva solo giocare, entrò nella stanza a lui ben nota, e prese il foglio abbandonato sul letto, per farsene un trastullo; quindi uscí. Il destino volle che incontrasse Marcia. Poiché anche ella gli era affezionata, gli si avvicinò per abbracciarlo e baciarlo; ma gli tolse il foglio, pensando che nella sua incoscienza fanciullesca avrebbe potuto distruggere per gioco qualcosa d’importante. Riconobbe la mano di Commodo, e le venne curiosità di leggere lo scritto; allora si accorse che questo era un preannuncio di morte. Ella stessa per prima avrebbe dovuto morire; l’avrebbero seguita Leto ed Eletto, e cosí pure molti altri. Proruppe allora in lamenti, e cominciò a dire fra sé: «Commodo, e cosí mi compensi per la fedeltà e l’amore con cui ho sopportato per tanti anni la tua rozzezza e la tua ebrietà? Ma io, che sono sobria, avrò la meglio sulla tua mente ottenebrata dal vino». Subito mandò a chiamare Eletto (essendo questi il cubiculario, ella soleva aver rapporti con lui, e si diceva che ne fosse l’amante); e mostrandogli il foglio disse: «Ecco la festa che ci attende stanotte». Eletto era di sangue egiziano, e aveva un temperamento emotivo, pronto a decidere e ad agire. Fuori di sé per la notizia, mise il suo sigillo sul foglio, e per mezzo di un uomo fidato lo fece portare a Leto, perché lo leggesse. Questi, turbato anch’egli, si precipitò da Marcia, fingendo di doversi consultare con gli altri due, per eseguire gli ordini dell’imperatore circa la caserma dei gladiatori. Mostrando di essere impegnati a soddisfare i desideri di Commodo, i tre decisero di agire prima che egli potesse colpirli: il pericolo non ammetteva indugi o esitazioni. Sembrò opportuno usare il veleno, e Marcia affermò che la cosa le sarebbe riuscita facilmente: ella infatti soleva riempire e porgere a Commodo la prima coppa, che gli riusciva piú grata offertagli dalla sua favorita. Cosí, quando Commodo tornò dal bagno, ella versò il veleno nella coppa, e glielo porse, misto con vino profumato. Quegli, che dopo le abbondanti abluzioni e gli esercizi di caccia si sentiva assetato, bevve senza sospetto, credendo si trattasse del solito gesto affettuoso. Subito si sentí stordito e sonnolento, e, pensando di essersi stancato troppo, andò a riposare. Eletto e Marcia esortarono tutti ad allontanarsi e a ritornare nelle proprie stanze, per lasciarlo tranquillo: infatti non di rado Commodo soffriva di un simile malessere dopo le gozzoviglie. Essendo solito recarsi al bagno e ai banchetti molto di frequente, ed essendo dedito a continui e svariati piaceri, ai quali quando giungeva l’ora si sentiva obbligato anche se non era disposto, non aveva mai un tempo fissato per il riposo. Egli dunque dormí per qualche ora, ma il veleno, procedendo attraverso lo stomaco e l’intestino, provocò un senso di nausea e un abbondante vomito: forse le bevande e i cibi, da lui precedentemente ingeriti, di per sé scacciavano il veleno; oppure, come sempre sogliono fare i sovrani, prima di ogni pasto, si era premunito con un contravveleno. Poiché il vomito era molto abbondante, gli altri temettero che si liberasse interamente del veleno, e si riprendesse: il che voleva dire la morte per tutti loro. Quindi, promettendo di dargli un lauto compenso, convinsero un giovane coraggioso e robusto, di nome Narciso, a entrare, e a strangolare Commodo. Egli dunque entrò, e trovando Commodo indebolito per l’ebrietà e il veleno, lo strangolò. Tale fine ebbe Commodo, che dopo esser succeduto al padre aveva regnato tredici anni. Egli era piú nobile per sangue di tutti i suoi predecessori, era l’uomo piú bello e piú proporzionato del suo tempo, e, se dobbiamo ricordare anche il suo valore, non la cedeva a nessuno in destrezza e abilità: ma, come si è detto, sciupò tutti questi pregi con i suoi turpi costumi.»

Historia Augusta, Commodo, 17, 1-2; ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, I, 16-17

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Le follie di Commodo
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