«Dunque, una volta uccisi Macrino e suo figlio Diadumeno che, associato all’impero con parità di poteri, aveva ricevuto anche il nome di Antonino, il titolo di imperatore fu conferito a Vario Eliogabalo, grazie alle voci che lo facevano figlio di Bassiano. Di fatto egli era un sacerdote di Eliogabalo, una divinità ora identificata con Giove, ora col Sole, e si era attribuito il nome di Antonino sia quale prova della sua presunta discendenza, sia perché sapeva bene che quel nome era tanto caro alla gente che, in grazia di esso, anche un fratricida come Bassiano godeva ancora simpatie. In un primo tempo ebbe dunque il nome di Vario, successivamente quello di Eliogabalo, dal fatto che era sacerdote del dio Eliogabalo, a cui, dopo averne importato il culto dalla Siria, costruì a Roma un tempio nel luogo in cui in precedenza sorgeva quello in onore dell’Orco. Infine, quando salì al potere, prese il nome di Antonino, e fu l’ultimo imperatore romano a portare tale nome.»

Historia Augusta, Eliogabalo, 1, 4-7

Un imperatore fuori dagli schemi

Dopo la morte di Caracalla e l’acclamazione di Macrino la legione III Gallica aveva acclamato imperatore Vario Bassiano, un lontano cugino di Caracalla, che la madre Giulia Soemia (cugina di I grado di Caracalla) andava spacciando per figlio illegittimo di Caracalla. Macrino, che pure aveva associato suo figlio Diadumeno a Cesare, venne sconfitto in battaglia dalle truppe di Bassiano, guidate dall’eunuco Gannys. Vario, che la madre aveva ormai deciso fosse figlio di Caracalla, prese il nome di Antonino Eliogabalo; il primo dal cugino-padre, il secondo perché sacerdote di El-Gabal, la divinità solare di Emesa, città natale della nonna Giulia Mesa. Appena quattordicenne, fece ritorno a Roma, considerandosi più sacerdote che imperatore.

Eliogabalo

«Ma non appena entrò in Roma, trascurando gli affari delle province, si preoccupò di consacrare il culto del dio Eliogabalo, facendogli erigere un tempio sul colle Palatino, nei pressi del palazzo imperiale, con l’intenzione di trasferirvi il simulacro della Gran Madre, il fuoco di Vesta, il Palladio, gli scudi ancili, e tutti gli oggetti sacri ai Romani, per far sì che a Roma non fosse venerata alcuna divinità se non Eliogabalo. Diceva inoltre che in quel tempio dovevano essere trasferiti anche i culti delle religioni dei Giudei e dei Samaritani, nonché i riti dei Cristiani, affinché l’ordine sacerdotale di Eliogabalo divenisse depositario dei misteri di tutti i culti. Poi, quando tenne la prima seduta con il senato, diede ordine che sua madre fosse invitata a parteciparvi. Al suo arrivo, fu invitata a sedersi su uno degli scanni riservati ai consoli, e presenziò personalmente alla redazione del verbale, in altre parole fu testimone della stesura del decreto senatorio; ed egli fu l’unico fra tutti gli imperatori sotto il cui regno una donna, quasi fosse un’Eccellenza, entrò in senato a svolgere mansioni riservate agli uomini. Fece inoltre costruire sul colle Quirinale un «senatino», cioè un senato di donne, proprio dove in passato si riunivano le matrone romane, ma solo in occasione di particolari solennità, od ogniqualvolta una qualche matrona riceveva le insegne riservate alle spose dei consoli, un privilegio che gli antichi imperatori avevano talora concesso alle loro parenti, specialmente a quelle che avevano sposato uomini privi di titoli nobiliari, perché non avessero a perdere il loro rango.»

«E poiché era destinato che Macrino, dopo aver goduto del potere per un solo anno, perdesse insieme la vita e il trono, il fato offerse ai soldati quell’infimo pretesto che essi desideravano. A Giulia, moglie di Severo e madre di Antonino, era sopravvissuta una sorella, chiamata Mesa, nata nella città fenicia di Emesa. Questa, mentre Giulia era in vita, aveva passato molti anni alla corte imperiale, finché furono sul trono Severo e Antonino; ma dopo l’uccisione di quest’ultimo e il suicidio di Giulia, Macrino aveva ordinato che Mesa ritornasse in patria, e vivesse nella propria casa, pur conservando ciò che possedeva. Aveva infatti grandi ricchezze, essendo vissuta per tanto tempo nella cerchia della corte. Tornata a casa, la vecchia dimorava nei suoi possedimenti, insieme con due figlie: la maggiore si chiamava Soemiade, la minore Mamea. La prima aveva un figlio, di nome Bassiano, che era allora di quattordici anni; la seconda pure un figlio di nome Alessiano, che raggiungeva i dieci anni. I due fanciulli erano allevati dalle loro madri, e dalla nonna; erano consacrati al dio Sole, cui gli abitanti del paese rendono culto, chiamandolo in lingua fenicia Elagabalo. A questo è consacrato un tempio grandioso, adorno in abbondanza d’oro, argento e svariate pietre preziose; il dio è onorato non solo dagli indigeni, ma anche da tutti i satrapi e i re barbari dei paesi circostanti, i quali fanno a gara nell’inviare ogni anno ricchissimi doni votivi. Ma non c’è alcuna statua lavorata da mano d’uomo, che riproduca, com’è uso presso i Greci e i Romani, l’immagine del dio; vi si conserva invece una grande pietra, arrotondata inferiormente, appuntita in alto: in complesso ha forma conica, e la superficie è nera. La tradizione sacrale afferma che essa è stata inviata dal cielo; vi si notano piccole sporgenze e cavità, e gli indigeni, poiché cosí vogliono vedere, credono che, pur non essendo opera d’arte umana, sia l’immagine del Sole. Bassiano, essendo sacerdote di questo dio (a lui infatti era toccata la carica, poiché era il maggiore), soleva indossare vesti barbariche: tuniche purpuree trapunte d’oro, fornite di larghe maniche, e lunghe fino ai piedi; inoltre copriva le gambe, dalla punta dei piedi alla coscia, con calze adorne anch’esse d’oro e di porpora; infine cingeva al capo una mitria adorna con ogni sorta di pietre preziose. Era nel fiore della giovinezza, e nella grazia dell’aspetto superava tutti i coetanei. Poiché in lui si trovavano insieme la bellezza fisica, il fiore dell’età, la dolcezza dell’atteggiamento, ricordava Dioniso, come ci appare nelle sue immagini piú belle. Quando egli svolgeva i riti sacri, e, secondo il costume dei barbari, danzava intorno alle are al suono di flauti, siringhe e altri strumenti, tutti lo guardavano con grande ammirazione, e specialmente i soldati: sia perché la sua bellezza attirava ogni sguardo, sia perché sapevano che era di sangue imperiale.In quel periodo erano accampate intorno alla città ingenti forze, messe a presidio della Fenicia; in seguito, come piú oltre diremo, furono portate altrove. Dunque i soldati, che venivano spesso in città e frequentavano il tempio per partecipare al culto, guardavano con simpatia il giovanetto. Alcuni di essi erano clienti o familiari di Mesa; e questa, allorché si accorse della loro ammirazione per il nipote, rivelò che, sebbene creduto figlio di un altro, egli era in realtà figlio naturale di Antonino. Quanto ci fosse di vero nelle parole di Mesa, non è chiaro; comunque ella diceva che Antonino aveva avuto rapporti con le sue due figlie, allora giovani e belle, nell’epoca in cui ella dimorava al palazzo imperiale con la sorella Giulia. I soldati, avute queste notizie, e riferendole man mano ai commilitoni, diffusero grandemente la voce, finché tutto l’esercito ne fu a conoscenza. Si diceva pure che Mesa possedesse un patrimonio ricchissimo, e che fosse pronta a distribuirlo fra i soldati se questi avessero restituito il trono ai Severi. Infine stabilirono, d’accordo, che Mesa si sarebbe recata all’accampamento in segreto, e di notte; i soldati avrebbero aperto le porte per riceverla con tutta la sua famiglia, e avrebbero proclamato Bassiano imperatore, e figlio di Antonino. La vecchia accettò con entusiasmo, decisa a correre qualsiasi rischio pur di non rimanere lontana dal trono, e pubblicamente umiliata. Dunque una notte uscí nascostamente dalla città con le figlie e i nipoti: i soldati che avevano abbracciato la loro causa li scortarono fino al vallo dell’accampamento, ove furono immediatamente accolti; e subito l’intero esercito acclamò il fanciullo con il nome di Antonino, e lo avvolse nella porpora imperiale. Quindi lo custodirono nell’interno del campo, ove portarono anche tutti i rifornimenti necessari, e le famiglie che alcuni avevano nei villaggi e nelle campagne circostanti; e serrarono le porte, preparandosi, in caso di necessità, a sostenere un assedio.»

«Soleva poi danzare intorno agli altari al suono di svariati strumenti; sacerdotesse orientali danzavano con lui, e correvano per il tempio facendo risuonare timpani e cembali. L’intero senato e l’ordine equestre assistevano al rito, che assumeva cosí l’aspetto di una rappresentazione teatrale. Le viscere degli animali sacrificati, e gli aromi, venivano messi in urne d’oro, e l’incarico di portare queste sul capo non era affidato a schiavi né a individui dappoco, bensí ai prefetti al pretorio e ai magistrati piú eminenti, che dovevano per giunta indossare tuniche lunghe fino ai piedi, fornite di ampie maniche all’uso fenicio, e fregiate al centro da una striscia purpurea; portavano anche calzature di lino, come usano i sacerdoti orientali. Egli poi credeva di concedere un grande onore a quelli che faceva partecipare al rito. Mentre in apparenza pensava solo ai riti e alle danze, tuttavia mandò a morte parecchi cittadini fra i piú ricchi ed eminenti, accusati di aver disapprovato e schernito il suo modo di vivere. Sposò la donna piú nobile di Roma, e le conferí il titolo di Augusta, per ripudiarla subito dopo, ordinandole di ritirarsi a vita privata e di rinunciare a tutti gli onori. In seguito, per dissipare i dubbi che si nutrivano sulla sua mascolinità, finse improvviso amore per una delle Vestali. Queste sacerdotesse sono obbligate dalle regole del loro collegio a mantenersi pure e a restare vergini per tutta la vita; ma egli la strappò dall’altare, e la fece uscire dalla sua sacra dimora. Quindi la prese in moglie, e scrisse al senato per giustificare tanto scellerata empietà, dicendo di essere stato trascinato da una passione perdonabile in un uomo; affermava di essere in preda all’amore per la fanciulla, e osservava poi che il matrimonio fra un sacerdote e una sacerdotessa è cosa opportuna e rispettabile. Senonché poco dopo ripudiò anche questa, e ne sposò una terza, che era imparentata con la famiglia di Commodo. Non si limitava a profanare i matrimoni umani, ma cercava anche una moglie per il dio cui era consacrato; pertanto fece portare nelle sue stanze la statua di Minerva, che i Romani solevano onorare tenendola al riparo da ogni sguardo umano, e che non era mai stata mossa da quando era venuta da Troia, se non in caso d’incendio. Ma egli infranse la tradizione, e trasferí la statua al palazzo per congiungerla in matrimonio con il suo dio. Successivamente affermò che il dio non apprezzava una compagna troppo guerriera e amante delle armi, e mandò a prendere la statua della dea Urania, che è oggetto di grande venerazione da parte dei Cartaginesi e dei Libi. Si dice che l’abbia elevata Didone fenicia, quando fondò l’antica città di Cartagine, tagliando a strisce la pelle di bue. Il nome di Urania è quello usato dai Libi; ma i Fenici la chiamano «Signora degli astri» e la identificano con la Luna. Dunque Antonino, entusiasmato all’idea di sposare il Sole con la Luna, fece portare la statua insieme con tutto l’oro delle offerte votive; altre ingenti ricchezze destinò alla dea come dono nuziale. Quando la statua giunse la fece sistemare nel santuario del suo dio, e ordinò che a Roma e in tutta l’Italia le nozze divine fossero celebrate a spese dell’erario e di privati cittadini, con banchetti e feste d’ogni genere. Fece poi costruire nei dintorni della capitale un tempio grande e bellissimo, al quale ogni anno, nel colmo dell’estate, portava il simulacro del dio; e organizzava per l’occasione solenni cerimonie, corse ippiche, spettacoli nell’anfiteatro; era convinto che il popolo, assistendo alle corse, partecipando ai trattenimenti, celebrando feste notturne, si rallegrasse. Faceva mettere la statua del dio sopra un cocchio intarsiato d’oro e di pietre preziose, e la faceva portare al tempio attraversando tutta la città: il cocchio era un tiro a sei, fornito di cavalli perfettamente bianchi, scelti fra i piú robusti, adorni di borchie ben lavorate e finimenti d’oro. Egli ne portava le redini, ma nessun uomo saliva sul carro: lo accompagnavano stando ai lati, come se il dio in persona lo guidasse. Antonino poi correva davanti al carro, procedendo a ritroso; e con lo sguardo fisso al dio reggeva le briglie dei cavalli: cosí, guardando il dio e correndo all’indietro, faceva tutta la strada. Per evitare che, non potendo vedere dove metteva i piedi, inciampasse e cadesse a terra, veniva sparsa al suolo polvere d’oro in abbondanza; i soldati si allineavano dalle due parti, protendendo gli scudi, e preoccupandosi che non subisse incidenti nella sua corsa. Il popolo faceva ala correndo; tutti portavano fiaccole, e gettavano ghirlande di fiori. I cittadini di rango equestre, e i soldati, precedevano il dio; e si portavano in processione le statue di tutti gli dèi, splendide offerte votive, le insegne imperiali, e ogni altro oggetto prezioso. Giunto alla meta questo corteo, il dio veniva sistemato nel santuario; l’imperatore faceva allora svolgere i riti e le cerimonie di cui si è parlato, e saliva su alte torri appositamente predisposte, donde gettava alla plebe calici d’oro e d’argento, vesti e tessuti d’ogni specie, e tutti gli animali commestibili, escludendo solo i maiali, in omaggio al costume fenicio; e lasciava che ognuno prendesse ciò che voleva. Da ciò sorgevano risse, in cui non pochi trovarono la morte calpestandosi tra di loro e urtando contro le lance dei soldati; sicché le feste di Antonino portarono a molti la rovina. Egli si lasciava spesso vedere mentre guidava i cavalli o danzava; infatti non si preoccupava di nascondere le sue debolezze. Appariva in pubblico, inoltre, con le palpebre truccate, e le guance tinte di rosso, facendo oltraggio con indecorosi belletti a un viso che per natura sarebbe stato gradevole.»

Historia Augusta, Eliogabalo, 3, 4-5; 4, 1-3; Erodiano, storia di roma dopo marco aurelio, v, 3, 1-12; V, 5,1 – 6,9

Eliogabalo, appena quattordicenne, forse non rendendosi neanche conto degli oneri che la sua carica comportava, si dedicò a tutto tranne governare. Passava le giornate in dissolutezze, che non si addicevano alla morale romana del tempo. Sposò addirittura la vestale Aquilia Severa, cosa vietatissima in quanto le vestali dovevano mantenere la castità:

Le rose di Eliogabalo, di Lawrence Alma-Tadema

«Dopo che dunque Eliogabalo ebbe passato l’inverno a Nicomedia, vivendo nella più sordida depravazione e abbandonandosi con altri uomini a rapporti omosessuali attivi e passivi, ben presto i soldati si pentirono di quanto avevano fatto, cospirando contro Macrino e creando imperatore un tale individuo: volsero allora il loro favore al cugino dello stesso Eliogabalo, Alessandro, che, dopo l’uccisione di Macrino, aveva ricevuto dal senato il titolo di Cesare. Chi infatti avrebbe potuto sopportare un imperatore che aveva fatto di ogni orifizio del suo corpo uno strumento per indulgere ad ogni sorta di libidine, dal momento che neppure in una bestia sarebbe ammissibile tutto ciò? In breve, a Roma non si premurò d’altro se non di incaricare dei suoi emissari di cercargli uomini «superdotati» e di portarglieli alla reggia, onde poter godere di quei loro eccezionali attributi. Amava inoltre mettere in scena nella reggia il dramma di Paride, sostenendo lui stesso la parte di Venere, così che ad un certo punto lasciava cadere all’improvviso le vesti ai suoi piedi, e, rimasto nudo coprendosi con una mano le mammelle e con l’altra le pudende, si inginocchiava lasciando sporgere in alto il di dietro, girato proprio di fronte ai suoi partners di depravazione. Atteggiava poi il volto nella medesima espressione in cui viene solitamente raffigurata Venere nei dipinti, con tutto il corpo depilato, considerando come il più grande risultato che potesse raggiungere nella propria vita l’essere giudicato adeguato e atto a soddisfare la libidine del maggior numero possibile di persone. Vendeva, personalmente o attraverso i suoi servi e i suoi compagni di stravizi, cariche, onorificenze, posti di autorità. Ammetteva nell’ordine senatorio senza alcun criterio di età, di patrimonio, di nascita, badando solo al prezzo che veniva pagato, vendendo allo stesso modo anche le cariche di comando nell’esercito, da quella di tribuno, a quella di legato e di generale, e persino le cariche di procuratore e gli uffici palatini. Gli aurighi Protogene e Gordio, originariamente suoi compagni nella corsa dei carri, furono da lui messi a parte, da allora in poi, di ogni atto della sua vita. Molti furono quelli che, attratto dalle loro bellezze fìsiche, portò a palazzo, prendendoli dal teatro, dal circo, o dall’arena. Aveva poi una violenta passione per Ierocle, tanto da arrivare a baciarlo nell’inguine – roba che fa vergogna anche solo a dirla – affermando che così lui celebrava i riti della dea Flora. Commise incesto con una vergine Vestale. Profanò i sacri culti del popolo romano, depredando i reliquiari dei templi. Avrebbe voluto persino spegnere il fuoco perenne. Né ebbe in animo soltanto di abolire i culti romani, ma quelli di tutto il mondo, animato da quest’unica aspirazione, che il dio Eliogabalo fosse venerato ovunque; e una volta fece irruzione nel santuario di Vesta, dove possono accedere solo le vergini e i pontefici – proprio lui, insozzato com’era da ogni possibile appestamento morale – in compagnia di quelli che erano stati i suoi partners di depravazione. Tentò anche di rubare il sacro reliquiario, ma portò via, credendo che fosse quello giusto (glielo aveva indicato, ingannandolo, la Vergine Massima) un vaso in cui invece non trovò nulla: e allora lo scagliò a terra, mandandolo in pezzi; il culto, comunque, non ebbe a soffrire in alcunché di questo suo furto, in quanto – a quel che dicono – sono stati fatti costruire molti vasi simili a quello autentico, proprio affinché nessuno possa mai portarlo via. Pur stando così le cose, riuscì nondimeno a portar via la statua che credeva essere il Palladio e, incoronatala d’oro, la collocò nel tempio dedicato alla sua divinità. Si fece iniziare anche al culto della Madre degli dèi e, per poter sottrarre la statua e gli altri oggetti sacri che sono tenuti nascosti in un luogo segreto, si sottopose al rito del taurobolio. Dimenò il capo partecipando alle danze orgiastiche dei fanatici evirati, e si legò i genitali, facendosi iniziare a tutti i riti che i Galli sogliono celebrare; trafugata infine la statua della dea, la trasferì nel santuario della sua divinità. Celebrò anche il culto di Salambo, cercando di riprodurre in ogni particolare, battendosi il petto e gesticolando freneticamente, il rito siriaco, creandosi in tal modo un presagio della propria fine imminente. Diceva che tutti quanti gli dèi erano servitori della sua divinità, chiamandone alcuni suoi camerieri, altri suoi schiavi, altri suoi aiutanti nelle più varie necessità.»

Historia Augusta, Eliogabalo, 5, 1-5; 6, 1-9; 7, 1-4

I soldati, e specialmente i pretoriani, non riuscirono a tollerare a lungo questi comportamenti, rivolgendo le loro speranze nei confronti di Alessandro, cugino di Eliogabalo, che era stato nominato Cesare:

«I soldati, dal canto loro, non potevano più sopportare che una tale peste di uomo si mascherasse sotto il nome di imperatore e, prima in pochi, poi a gruppi sempre più numerosi, si consultarono reciprocamente, tutti volgendo le loro simpatie verso Alessandro, che già aveva ottenuto il titolo di Cesare dal senato, ed era cugino di questo Antonino; avevano infatti in comune la nonna Varia, da cui Eliogabalo aveva preso il nome di Vario.»

Historia Augusta, Eliogabalo, 10, 1
Severo Alessandro

Ma soprattutto, se le fonti dicono il vero, fece dei disastri a livello amministrativo, imponendo ovunque persone solo in base ai suoi gusti estetici e mai in base alle loro capacità, e inoltre di ogni estrazione sociale, sovvertendo ogni ordine gerarchico:

«Assunse alla prefettura del pretorio un saltimbanco, che aveva già esercitato a Roma la sua arte, creò prefetto dei vigili l’auriga Gordio, e prefetto all’annona il suo barbiere Claudio. Promosse alle rimanenti cariche gente che gli si raccomandava per l’enormità delle parti virili. Ordinò che a sovrintendere alla tassa di successione fosse un mulattiere, poi un corriere, poi un cuoco, e infine un fabbro ferraio. Quando faceva il suo ingresso nei quartieri militari o in senato, portava con sé la nonna, di nome Varia – quella di cui s’è detto precedentemente –, perché dal prestigio di lei gli venisse quella rispettabilità che da se stesso non poteva guadagnarsi; né prima di lui, come già dicemmo, alcuna donna ebbe mai a mettere piede in senato, così da essere invitata a partecipare alla redazione dei decreti, e a dire il proprio parere. Durante i banchetti si prendeva vicino soprattutto i suoi amasii, e godeva molto ad accarezzarli e palparli in maniera lasciva, né alcuno più di loro era pronto a porgergli la coppa, dopo che aveva bevuto.»

Historia Augusta, Eliogabalo, 12, 1-4

Morte

Ormai cresceva il partito che supportava Alessandro e Eliogabalo temeva per la sua vita. Diede ordine a ogni senatore di allontanarsi dalla città, dopo aver mandato via, dietro richiesta dei soldati, i soggetti ritenuti più inadatti della sua corte. Infine, i pretoriani, non sopportandolo più, lo massacrarono, l’11 marzo del 222:

«Ma i soldati, e particolarmente i pretoriani, sia perché ben conoscevano – essi che già avevano cospirato contro Eliogabalo – sia perché vedevano apertamente l’odio che egli nutriva contro di loro […] e fatta una congiura per liberare lo Stato, prima di tutto i suoi complici […] con un tipo di morte […] dato che alcuni li uccidevano dopo averli evirati, altri li trafiggevano dal di sotto, perché la morte risultasse conforme al tipo di vita. Dopo di che fu assalito lui pure e ucciso in una latrina in cui aveva cercato di rifugiarsi. Fu poi trascinato per le vie. Per colmo di disonore, i soldati gettarono il cadavere in una fogna. Poiché però il caso volle che la cloaca risultasse troppo stretta per ricevere il corpo, lo buttarono giù dal ponte Emilio nel Tevere, con un peso legato addosso perché non avesse a galleggiare, di modo che non potesse aver mai a ricevere sepoltura. Prima di essere precipitato nel Tevere, il suo cadavere fu anche trascinato attraverso il Circo. Per ordine del senato fu cancellato dalle iscrizioni il nome di Antonino, che egli aveva assunto pretestuosamente, volendo apparire figlio di Antonino Bassiano, e gli rimase quello di Vario Eliogabalo. Dopo la morte fu chiamato il «Tiberino», il «Trascinato», l’«Impuro» e in molti altri modi, ogniqualvolta capitava di dover dare un nome ai fatti della sua vita. E fu il solo fra tutti i principi ad essere trascinato, buttato in una cloaca, ed infine precipitato nel Tevere.»

Historia Augusta, Eliogabalo, 16, 5; 17, 1-6

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Le follie di Eliogabalo
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