Cesare discendeva dalla Gens Iulia, che vantava di discendere direttamente dalla dea Venere a da Enea. Nonostante ciò i Giuli non se la passavano bene; Cesare aveva due sorelle, di cui una, Giulia Minore (madre di Azia Maggiore), nonna del futuro erede e imperatore Ottaviano. Le ristrettezze economiche della famiglia fecero sì che Cesare crescesse nella turbolenta Suburra; i primi anni di Cesare si svolsero durante la guerra sociale, la guerra civile tra Mario e Silla e la dittatura di quest’ultimo con le relative liste di proscrizione che videro coinvolto anche il futuro dittatore.

Temendo comunque per la propria incolumità, partì per l’Asia come legato del pretore Marco Minucio Termo. In Asia Cesare strinse amicizia col re di Bitinia Nicomede, tanto che si diffuse la voce che i due fossero amanti. Durante l’assedio di Mitilene, Cesare ottenne la prestigiosa corona civica, data a chi avesse salvato un cittadino romano in battaglia. Cesare ritornò a Roma solo nel 78 a.C. alla morte di Silla; sostenne le accuse di concussione Gneo Cornelio Dolabella e diede sfoggio di capacità oratorie anche nel processo ad Antonio Ibridia. In tal modo si presentò come difensore dei populares, il partito più “filo-popolare”, opposto a quello aristocratico degli optimates.

Il giovane Cesare

Cesare aveva ottenuto grande fama dai suoi primi processi, in veste di avvocato; decise pertanto di perfezionare i suoi studi intraprendendo un viaggio verso Rodi, dove avrebbe studiato filosofia e retorica. Era il 74 a.C. Poco tempo prima Cicerone aveva visitato l’isola, dove insegnavano i famosi Posidionio e Apollonio figlio di Molone:

«Poi, volgendo ormai al tramonto la potenza di Silla e visto che i suoi insistevano perché tornasse a Roma, salpò per Rodi, dove frequentò la scuola di Apollonio, figlio di Molone, retore famoso e stimato per la sua morigeratezza, di cui era stato discepolo anche Cicerone. Cesare, a quanto dicono, aveva un’ottima disposizione naturale per l’oratoria politica, una dote che coltivò con tale diligenza da diventare senza alcun dubbio il secondo fra gli oratori romani: aveva rinunciato al primo posto solo perché il suo intento principale era quello di conseguire il primato nell’attività politica e militare, e furono proprio le campagne di guerra e le lotte politiche, attraverso le quali giunse al potere, ad impedirgli di raggiungere nell’arte oratoria quella supremazia a cui lo portava la natura. Egli stesso, più tardi, in risposta al Catone di Cicerone, obiettò che non si possono mettere a confronto l’eloquio di un soldato e l’abilità di un oratore, il quale, già versato per natura nell’arte dell’eloquenza, l’ha praticata per parecchio tempo.»

Plutarco, vita di Cesare, 3

Tuttavia durante la navigazione, al largo dell’isola di Farmacussa, nei pressi di Mileto, Cesare fu intercettato e catturato dai temibili pirati cilici, che all’epoca imperversavano nel Mediterraneo (e che verranno stroncati da Pompeo alcuni anni dopo). I pirati capirono che avevano catturato qualcuno di importante e chiesero un riscatto di venti talenti (circa mezza tonnellata d’argento); al che Cesare, indispettito, avrebbe risposto che per lui ne avrebbero dovuti chiedere cinquanta.

Cesare inviò i suoi servi a racimolare il denaro nelle città vicine. Dopo quaranta giorni tornarono con il denaro. E’ Velleio Patercolo a specificare che il denaro fu dato dalle città costiere (Polieno specifica che fu Mileto ad accollarsi la spesa) a causa dell’insufficiente controllo contro la pirateria (“publica civitatium pecuniam redemptus est” – Vell. Pat., II, 42, 2); a quell’epoca era dilagante nel Mediterraneo e i cittadini romani venivano tutelati in questo modo.

Nel frattempo la situazione era diventata surreale: i pirati in parte increduli della cifra, in parte irretiti dal romano, in parte succubi dello stesso, venivano comandati a bacchetta da Cesare, che sembrava il loro capo più che il loro ostaggio.

Pagato il riscatto di cinquanta talenti, Cesare raccolse privatamente delle navi, per dar loro la caccia (aveva infatti minacciato di impiccarli) – senza alcun imperium – e li sorprese nei pressi di Mileto, dove in seguito a uno scontro navale li catturò, comprese le loro ricchezze. Li portò nella prigione di Pergamo, ma il governatore Marco Iunco tergiversava, visto anche il grande bottino, su cui forse mirava di mettere le mani. Cesare allora decise di agire e li fece crocifiggere; Svetonio aggiunge un particolare “benevolo”, ossia che il futuro dittatore prima di crocifiggerli li fece strangolare:

«Non passò però molto tempo che s’imbarcò di nuovo, ma giunto al largo dell’isola di Farmacussa fu catturato dai pirati, che già allora dominavano il mare con vaste scorrerie e un numero sterminato di imbarcazioni. I pirati gli chiesero venti talenti per il riscatto, e lui, ridendo, esclamò: «Voi non sapete chi avete catturato! Ve ne darò cinquanta!». Dopodiché spedì alcuni del suo seguito in varie città a procurarsi il denaro e rimasto lì con un amico e due servi in mezzo a quei Cilici, ch’erano gli uomini più sanguinari del mondo, li trattò con tale disprezzo che quando voleva riposare gli ordinava di fare silenzio. Passò così trentotto giorni come se fosse circondato non da carcerieri ma da guardie del corpo, giocando e facendo ginnastica insieme con loro, scrivendo versi e discorsi che poi gli faceva ascoltare, e se non lo applaudivano li redarguiva aspramente chiamandoli barbari e ignoranti. Spesso, scherzando e ridendo, minacciava d’impiccarli, e quelli, attribuendo la sua sfrontatezza all’incoscienza tipica dell’età giovanile, a loro volta gli ridevano dietro. Ma appena giunse da Mileto il denaro del riscatto e pagata la somma fu rilasciato, allestì subito delle navi e dal porto di quella stessa città salpò alla caccia dei pirati. Li sorprese che stavano alla fonda nelle vicinanze dell’isola, li catturò quasi tutti, saccheggiò i frutti delle loro razzie, fece rinchiudere gli uomini nella prigione di Pergamo e si recò difilato dal governatore d’Asia, Marco Iunco, che in qualità di propretore [con imperium proconsulare, ndr.] aveva il compito di punire i prigionieri. Ma quello, messi gli occhi sul bottino (piuttosto cospicuo, in verità), disse che si sarebbe occupato a suo tempo dei prigionieri. Allora Cesare, mandatolo alla malora, tornò di corsa a Pergamo e tratti fuori dal carcere i pirati li fece crocifiggere tutti quanti, così come […], con l’aria di scherzare, gli aveva spesso pronosticato.»

Plutarco, vita di Cesare, 1-2

Ma Cesare era anche un uomo giusto:

«Quanto alla temperanza di Cesare in fatto di cibo, si suole citare questo episodio: un giorno, a Milano, Valerio Leone, ch’era suo ospite, invitatolo a pranzo, gli servì degli asparagi conditi con burro invece che con olio. Cesare li mangiò senza esitare, criticando gli amici che storcevano la bocca disgustati. «Se non vi piacciono, perché li mangiate?», esclamò. «È da gente rozza disprezzare questo cibo solo perché è rustico». Una volta, mentre si trovava in viaggio, sorpreso da una tempesta, riparò nella casupola di un poveraccio e poiché c’era solo una stanzetta che a malapena poteva ospitare una persona ordinò che la occupasse Oppio. «Fra i potenti», disse, «bisogna cedere il posto a chi sta più in alto, ma fra gli amici ai più deboli». E passò la notte con gli altri sotto la gronda della porta.»

PLUTARCO, CESARE, 17

Emblematica era inoltre la vicinanza con i soldati che chiamava commilitoni. Con loro divideva tutto:

«Cesare non giudicava i soldati dai costumi o dall’aspetto, ma solo dalle loro forze, e li trattava con pari severità e indulgenza. Non li costringeva, infatti, all’ordine sempre e ovunque, ma solo di fronte al nemico: soprattutto allora esigeva una disciplina inflessibile, non preannunciando mai il momento di mettersi in marcia né quello di combattere, ma voleva che i suoi uomini fossero sempre vigili e pronti a seguirlo in qualsiasi momento ovunque li avesse condotti. Si comportava così anche senza un motivo, e specialmente nei giorni piovosi o festivi. Talvolta, dopo aver ordinato ai soldati che non lo perdessero di vista, si metteva in marcia all’improvviso, di giorno come di notte, e forzava il passo per stancare chi avesse tardato a seguirlo.
Quando i suoi erano atterriti dalle voci sulle forze dei nemici, non li incoraggiava negandole o sminuendole, ma anzi le esagerava e raccontava anche frottole. […]
Non teneva conto di tutte le mancanze, e non le puniva tutte con la stessa severità. Mentre si accaniva, infatti, nel perseguitare disertori e sediziosi, era molto indulgente con gli altri. Dopo grandi vittorie, a volte dispensava le truppe da tutti i loro doveri, e permetteva che si abbandonassero a una sfrenata licenza. Era solito, infatti, vantarsi dicendo: “I miei soldati sanno combattere bene anche se si profumano”. Nei suoi discorsi, inoltre, non li chiamava soldati ma commilitoni, termine ben più lusinghiero. Voleva anche che fossero ben equipaggiati, e dava loro delle armi decorate con oro e argento tanto per aumentare il loro prestigio quanto perché in combattimento fossero ancora più tenaci, spinti dal timore di perdere armi tanto preziose. Era tanto affezionato ai suoi soldati che, venuto a sapere della disfatta di Titurio, si lasciò crescere la barba e i capelli senza tagliarli se non dopo aver compiuto la sua vendetta.»

SVETONIO, CESARE, 65-67

Infine Cesare era noto per graziare i nemici sconfitti, almeno la prima volta. Cosa che fece anche con molti a Farsalo, tra cui Bruto, che si rivelò essere poi uno dei principali cesaricidi:

«Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta. Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi. Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto.I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido»

SVETONIO, CESARE, 82

La via verso il potere

Maccari-Cicero

Tornato a Roma, ricoprì tutte le cariche politiche: tribuno militarequestore nel 69 aC.,  edile nel 65 a.C., pretore. Fu coinvolto probabilmente nella congiura di Catilina del 63 a.C.: sebbene forse simpatizzasse per Catilina, tanto da proporre ai ribelli la prigione a vita piuttosto della morte (Cicerone, console in carica, opterà invece per uccidere i congiurati), si mantenne comunque al di fuori della congiura. Il discorso appassionato, in senato, per salvare la vita ai ribelli fu stroncato da quello molto più duro di Marco Porcio Catone Uticense.

C’è un particolare aneddoto riguardo la questura in Spagna nel 69 a.C.: pare che Cesare, a Gades, scoppiò in lacrime davanti la statua di Alessandro Magno; il macedone infatti alla sua età aveva già conquistato il suo impero, mentre Cesare non aveva fatto ancora nulla.

“Ottenuta, allo scadere della carica di pretore, la provincia di Spagna, Cesare si trovò alle prese coi creditori, i quali protestarono pubblicamente impedendogli di partire. Si rivolse allora a Crasso, ch’era l’uomo più ricco di Roma e che essendo in lotta contro Pompeo aveva bisogno dell’appoggio di Cesare, per la sua forza e la sua passione politica. Crasso pagò i creditori più insistenti e irremovibili e tacitò gli altri facendosi garante per una somma di ottocentotrenta talenti. Così Cesare poté partire per la provincia. Attraversando le Alpi si trovò a passare per uno squallido villaggio di barbari, abitato da un pugno di persone, e come gli amici ridendo e scherzando si domandavano se anche lì vi fossero ambizioni a rivestire cariche pubbliche e lotte e invidie fra i potenti per conquistare il primato fra i cittadini, lui, serio serio, rispose: «Vorrei essere il primo fra costoro piuttosto che il secondo a Roma». Un’altra volta, in Spagna, si riposava leggendo un libro sulle imprese di Alessandro quando a un certo momento, soffermatosi a lungo a meditare, si mise a piangere, e anche allora, avendogliene gli amici chiesta la ragione, esclamò: «Non vi sembra ch’io abbia un buon motivo per dolermi quando Alessandro alla mia età regnava già su tanti popoli mentre io non ho ancora compiuto nulla di rilevante?».”

Plutarco, Vite parallele, Cesare, 11

Alea iacta est

l 7 gennaio del 49 a.C. il senato inviava un senatus consultum ultimum, un vero e proprio ultimatum, a Cesare. Quest’ultimo avrebbe dovuto deporre il comando dell’esercito gallico e rientrare a Roma come privato cittadino, dove lo attendeva con ogni probabilità un processo. Gli veniva anche negato di concorrere per il consolato in assenza. Nei giorni precedenti Marco Antonio, tribuno della plebe, aveva tentato in ogni modo di osteggiare la decisione del senato, finendo per dover scappare da Roma e rifugiarsi da Cesare in Emilia. Il senato infatti aveva preso la decisione di affidarsi completamente a Pompeo, considerato tutore della libertà repubblicana, mentre Cesare tergiversava nei pressi del Rubicone con la sola legio XIII, al confine del pomerium, il confine sacro e inviolabile in armi, esteso per l’ultima volta pochi anni prima da Silla.

Dopo alcuni giorni di tentennamenti Cesare decise infine di attraversare il Rubicone e dichiarare guerra al senato, pronunciando la celebre frase: “Alea iacta est”.

«Egli [Cesare] dichiarò in greco a gran voce a coloro che erano presenti: ‘sia lanciato il dado’ e condusse l’esercito.»

PLUTARCO, VITA DI POMPEO, 60 2,9

La frase latina, tramandata da Svetonio, è probabilmente muta della o finale, andata persa nei manoscritti medievali. Sarebbe stata infatti: “iacta alea esto”, ossia “che si lanci il dado” e non “il dado è tratto”. L’ipotesi, già azzardata da Erasmo da Rotterdam, converrebbe con il passo di Plutarco “ἀνερρίφθω κύβος” (anerrìphtho kybos), ovvero “sia lanciato il dado”. Sarebbe stata una citazione di una commedia di Menandro, l’Arreforo.

Guerra civile

Dopo l’incredibile vittoria di Farsalo nel 48 a.C., contro ogni pronostico, Cesare inseguì Pompeo in oriente, ma non riuscì a raggiungerlo prima che Tolomeo XIII lo uccidesse, pensando di fare un favore al vincitore. Racconta Cassio Dione che Cesare rimase disgustato:

«Cesare dunque, avendo visto la testa di Pompeo, si mise a piangere e si lamentò, chiamandolo cittadino e genero, ed enumerando tutto quanto un tempo si erano dati in cambio l’uno con l’altro. Disse che non c’era modo di esser debitore a quelli che lo avevano ucciso di una qualche gratitudine, anzi li accusava, e ordinò ad alcuni (del seguito) di adornarla, di disporla convenientemente e di seppellirla»

Plutarco aggiunge che il romano:

«… si girò via con ripugnanza, come da un assassino; e quando ricevette l’anello con il sigillo di Pompeo su cui era inciso un leone che tiene una spada nelle sue zampe, scoppiò in lacrime.»

Veni vidi vici

Mentre Cesare si trovava ad Alessandria, in forte difficoltà, Farnace re del Ponto, erede di Mitridate VI, aveva vinto Domizio Calvino e tentava di espandersi in Asia Minore a discapito dei romani. Cesare decise di affrontare la questione mentre, di ritorno a Roma dopo aver messo a posto le cose ad Alessandria, passava prima per la Siria e poi per l’Asia Minore.

Cesare, che marciava a tappe forzate come suo solito, incontrò il tetrarca d Galazia Deiotaro, alleato del popolo romano, che da supplice chiese aiuto al comandante romano poiché il suo potere era nei fatti inesistente. Cesare allora rispose che avrebbe messo ordine tra i tetrarchi e gli restituì la veste regale. Inoltre gli permise di comandare una legione che aveva reclutato, quella che sarebbe diventata la XXII Deiotarana«Gli ordinò poi di condurre la legione, che Deiotaro aveva costituita con uomini della sua gente, ma con armatura e disciplina romana e tutta la cavalleria, per far guerra a Farnace.» (Cesare, Bellum Alexandrinum, 68, 2)

Cesare mise insieme un esercito al meglio delle sue capacità per affrontare Farnace e ristabilire l’ordine in Asia Minore: disponeva della sesta legione, formata da veterani che avevano combattuto ad Alessandria, della legione di Deiotaro e due legioni superstiti di Domizio Calvino. Farnace inviò ambasciatori, millantando di essere pronto a sottomettersi a Cesare e che non aveva fornito alcun aiuto a Pompeo, mentre Deiotaro lo aveva fatto: «Cesare rispose che sarebbe stato molto equanime con Farnace, se egli avesse eseguito quanto prometteva. Però avvertì i legati con cortesi parole, come soleva, di non porgli innanzi il caso di Deiotaro o di non gloriarsi troppo come di un beneficio, perché non avevano mandato aiuti a Pompeo. Infatti egli nulla faceva più volentieri che perdonare a chi lo supplicava, ma non poteva condonare le pubbliche offese fatte alle province, a coloro che pure erano stati rispettosi verso di lui.» (Cesare, Bellum Alexandrinum, 70, 1-3)

Il romano fece poi presente agli ambasciatori di Farnace, nonostante il mancato appoggio a Pompeo, le ripetute offese e violenze verso i cittadini romani nella regione, alcuni uccisi, altri evirati, pena peggiore della morte. Ordinò dunque di liberare le famiglie di pubblicani e restituire ai romani quanto era stato loro tolto. Farnace sperava che dopo le promesse Cesare si fosse dovuto precipitare a Roma e avesse dovuto abbandonare la regione; pertanto perdeva tempo, continuava a discutere sui patti e tirava le cose per le lunghe. Cesare, compreso l’inganno, decise di attaccarlo per primo:

«Passato quindi in Asia, venne a sapere che Domizio, sconfitto da Farnace, figlio di Mitridate, era fuggito dal Ponto con pochi compagni e che Farnace, non pago di quella vittoria, dopo che s’era impadronito della Bitinia e della Cappadocia, mirava alla cosiddetta Piccola Armenia, sobillando tutti i re e i principi della regione. Perciò mosse subito contro di lui con tre legioni e dopo averlo vinto in battaglia presso Zela lo costrinse a sloggiare dal Ponto e distrusse tutto il suo esercito. Per dare un’idea della rapidità con cui aveva condotto questa spedizione scrisse a Mazio, un suo amico di Roma, queste tre sole parole: «Veni, vidi, vici», che nella lingua latina terminano in un modo pressoché identico, e sono un incredibile esempio di sinteticità.»

PLUTARCO, CESARE, 50

Quoque tu, Brute?

Il 14 febbraio il senato decretava che la dittatura di Cesare venisse prolungata, e diventasse a vita (dictator perpetuus), rendendolo dunque l’uomo più potente della storia di Roma. Tra i suoi oppositori serpeggiava il malcontento e molti credevano che la repubblica fosse in pericolo: si temeva infatti che Cesare si proclamasse rex, cinque secoli dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo.

Il giorno seguente, il 15 febbraio, si teneva la festa dei lupercali e Cesare la seguiva dai rostri, seduto su un seggio. Dopo il rituale dei luperci seguiva una processione e quando questa passa davanti Cesare accade l’impensabile: inizialmente un tale di nome Licinio si avvicina, viene issato sui rostri e porge la corona ai piedi di Cesare (il quale si trovava molto più in alto), che la ignora. Allora Cassio, il futuro cesaricida, si avvicina e gliela pone sulle ginocchia, forse in segno di sfida. Cesare la ignora nuovamente, e lo fa nuovamente quando ci riprova Casca (che darà la prima pugnalata un mese dopo), ma è proprio in quel momento che passa Marco Antonio, il quale guidava la processione della festa, e gli pone la corona in testa.

Alcuni lo invocavano come rex, soprattutto coloro i quali si trovano più vicini, mentre i più lontani rumoreggiavano. Per i romani però, nonostante fossero passati quasi cinque secoli dalla cacciata di Tarquinio il Superbo, la regalità era ancora un tabù. Quest’ultima volta Cesare prense la corona, che non aveva ancora toccato, gettandola tra la folla (la quale non aveva reagito bene all’accaduto) e esclamando che l’unico re di Roma era Giove Ottimo Massimo. Diede inoltre l’ordine di portarla nel suo tempio sul Campidoglio, poiché la corona apparteneva solo a lui. L’avvenimento è raccontato da Nicola Damasceno (Vita Caes., 21, 71-75):

“71. […] Nell’inverno si celebrava a Roma una festa (chiamata i Lupercali), durante la quale vecchi e giovani insieme partecipavano a una processione, nudi, unti e cinti, schernendo quanti incontravano e battendoli con strisce di pelle di capra. […] era stato eletto a guidare la processione Antonio; egli attraversava il foro, secondo il vecchio costume, seguito da molta gente. Cesare era seduto sui cosidetti rostri, su un trono d’oro, avvolto in un mantello di porpora. Dapprima lo avvicinò Licinio con una corona d’alloro […] Dato che il posto da cui Cesare parlava al popolo era in alto, Licinio, sollevato dai colleghi, depose il diadema ai piedi di Cesare.

72. Il popolo gridava di porlo sul capo e invitò il magister equitum, Lepido, a farlo, ma questi esitava. In quel momento Cassio Longino, uno dei congiurati, come se fosse veramente benevolo e anche per poter meglio dissimulare le sue malvagie intenzioni, lo prevenne prendendo il diadema e ponendoglielo sulle ginocchia. Con lui anche Publio Casca. Al gesto di rifiuto da parte di Cesare e alle grida del popolo accorse Antonio, nudo, unto d’olio, proprio come si usava durante la processione e glielo depose sul capo. Ma Cesare se lo tolse e lo gettò in mezzo alla folla. Quelli che erano distanti applaudirono questo gesto, quelli che erano vicini invece gridavano che lo accettasse e non rifiutasse il favore del popolo.

73. Su questa vicenda si sentivano opinioni discordanti: alcuni erano sdegnati poiché, secondo loro, si trattava dell’esibizione di un potere che superava i limiti richiesti dalla democrazia; altri lo sostenevano credendo di fargli cosa gradita. Altri ancora spargevano la voce che Antonio avesse agito non senza il suo consenso. Molti avrebbero voluto che diventasse re senza discussioni. Voci di ogni genere circolavano tra la massa. Quando Antonio gli mise il diadema sul capo per la seconda volta, il popolo gridò nella sua lingua: “Salve, re!”. Egli non accettò nemmeno allora e ordinò di portare il diadema nel tempio di Giove Capitolino, al quale, disse, più conveniva. Di nuovo applaudirono gli stessi che prima avevano applaudito.

74. C’è anche un’altra versione: Antonio avrebbe agito così con Cesare volendo ingraziarselo, anzi con l’ultima speranza di essere adottato da lui.

75. Alla fine abbracciò Cesare e passò la corona ad alcuni dei presenti, perché la ponessero sul capo della vicina statua di Cesare. Così fu fatto. In un tale clima, dunque, anche questo evento non meno di altri avvenimenti contribuì a stimolare i congiurati ad un’azione più rapida; esso infatti aveva dato una prova più concreta di quanto sospettavano”.

Non sappiamo perché Marco Antonio si sia comportato in questo modo, forse sapeva del testamento di Cesare che designava il pronipote Ottavio come primo erede e metteva Antonio solo come terzo in linea ereditaria, forse aveva colto l’occasione al volo per ingraziarsi il dittatore. Quel che sembra certo è che i cesaricidi, in modo organizzato o meno, avevano tentato di forzare la mano a Cesare e cercare un pretesto per ucciderlo, senza riuscirci.

Cesare aveva ormai congedato la sua guardia ispanica e andava per Roma senza scorta, mentre preparava la sua imminente campagna partica, radunando le sue forze nei pressi di Apollonia, sull’altra sponda dell’Adriatico. Il giorno prima del suo assassinio vengono enumerati diversi prodigi, sia da Svetonio che da Plutarco, a corroborare l’unicità dell’evento, come era solito nella letteratura antica. Forse non sapremo mai se qualcuno di questi sia stato vero. Tra questi l’aruspice Spurinna che avrebbe messo in guardia Cesare dalle idi di marzo:

« Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate. »

svetonio, cesare, 82

Erano arrivate le idi di marzo e il senato si riuniva, provvisoriamente, nei pressi teatro di Pompeo, poiché la curia era chiusa per lavori di ristrutturazione. Cesare sarebbe stato restio a partecipare alla seduta, viste anche le rimostranze della moglie Calpurnia che lo spingeva a rimanere a casa, ma Decimo Giunio Bruto lo convinse ad andare, dicendo che il senato era già riunito e lo stava attendendo. All’entrata Gaio Trebonio prese da parte Marco Antonio, console insieme a Cesare nel 44 a.C., sia poiché si temeva sventasse l’omicidio, sia perché, nonostante le lamentele di Cicerone (che comunque si era tenuto fuori dalla congiura) non rientrava nei piani dei congiurati:

« Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.
Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido. »

SVETONIO, CESARE, 82

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