«Riguardo alla loro organizzazione militare, i romani hanno questo grande impero come premio del loro valore, non come dono della fortuna. Non è infatti la guerra che li inizia alle armi e neppure solo nel momento dei bisogno che essi la conducono […], al contrario vivono quasi fossero nati con le armi in mano, poiché non interrompono mai l’addestramento, né stanno ad attendere di essere attaccati. Le loro manovre si svolgono con un impegno pari ad un vero combattimento, tanto che ogni giorno tutti i soldati si esercitano con il massimo dell’ardore, come se fossero in guerra costantemente. Per questi motivi essi affrontano le battaglie con la massima calma; nessun panico li fa uscire dai ranghi, nessuna paura li vince, nessuna fatica li affligge, portandoli così, sempre, ad una vittoria sicura contro i nemici […]. Non si sbaglierebbe chi chiamasse le loro manovre, battaglie senza spargimento di sangue e le loro battaglie esercitazioni sanguinarie.»GIUSEPPE FLAVIO, LA GUERRA GIUDAICA, III, 5.1.71-75

Le armi

Gladio

Le prime armi adottate dai romani erano infatti simili a quelle greche e celtiche con cui erano entrati in contatto: xiphos a lama dritta e makhaira a lama curva all’inizio, poi anche spade di derivazione italo-celtica. Infine, a partire dal III secolo a.C., iniziarono a usare un’arma mutuata dai celtiberi con cui combattevano in Hispania, il gladius hispaniensis. Si suppone che la parola stessa venga dal celtico attraverso l’etrusco, proprio in quel periodo, da Kladi(b)os o Kladimos, che significa spada. Il termine diventerà l’equivalente italiano di spada, tanto da indicare l’arma in sé e l’intera categoria di gladiatori (“combattenti armati di spada”).

In ogni caso l’arma divenne l’unica utilizzata dai legionari nel corso del II secolo a.C., e tale resterà fino al II secolo d.C. (quando sarà progressivamente rimpiazzata dalla spatha). Portata sul fianco destro, per avere una rapida estrazione che non impacciasse lo scutum dopo il lancio del pilum, era lunga circa 60 cm in media, con una lama affilatissima e larga, fatta appositamente per pugnalare a morte. L’arma era talmente devastante che i macedoni rimasero inorriditi quando videro i loro morti, durante la seconda guerra macedonica, a Cinocefale, nel 197 a.C.:

«Quando [i macedoni] videro i corpi smembrati con la spada ispanica, le braccia staccate dalle spalle, le teste mozzate dal tronco, le viscere esposte ed altre orribili ferite […] un tremito di orrore corse tra i ranghi.»

LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXXI, 34

Il modello ispanico, il primo, aveva praticamente sempre una lama di più di 60 cm, risultando tutt’altro che corto. Veniva utilizzato per colpi di punta micidiali, specialmente all’inguine, zona generalmente poco protetta e le cui ferite erano mortali. Successivamente, a partire dall’impero, vennero introdotti il modello Magonza Pompei, leggermente più corti; il primo aveva una forma particolare con la lama ondeggiata, più stretta al centro e più larga in punta, mentre il secondo era semplicemente una versione più piccola dell’hispaniensis

Pilum

Il pilum era il giavellotto usato dai legionari prima del corpo a corpo. Lanciato a breve distanza, aveva lo scopo di trafiggere l’uomo che si difendeva dietro lo scudo. Se questo non avveniva, era comunque impossibile continuare a combattere con il pilum incastrato, e se si provava a toglierlo si piegava o spezzava:

«I Romani, lanciando dall’alto i giavellotti, riuscirono facilmente a rompere la formazione nemica e quando l’ebbero scompigliata si gettarono impetuosamente con le spade in pugno contro i Galli; questi erano molto impacciati nel combattimento, perché molti dei loro scudi erano stati trafitti dal lancio dei giavellotti e, essendosi i ferri piegati, non riuscivano a svellerli, cosicché non potevano combattere agevolmente con la sinistra impedita; molti allora, dopo aver a lungo scosso il braccio, preferivano buttare via lo scudo e combattere a corpo scoperto.»

CESARE, DE BELLO GALLICO, I, 25

Scutum

Lo scudo, lungo più di un metro, era di forma ovale leggermente curva per proteggere meglio il corpo e usato dagli hastatiprincipes triarii (e successivamente dai legionari post mariani). Al centro un enorme umbone metallico, utilizzato anche come arma di offesa per colpire il nemico, specialmente in faccia, e una lunga spina di legno che lo tagliava trasversalmente in verticale per rafforzarlo; tale spina divenne superflua quando vennero introdotti scudi a forma di tegola a partire dal principato, che non necessitavano più della spina, ma solo dell’umbone, diventando anche più leggeri e pratici, oltre che lievemente più piccoli.

Ogni scutum era formato da diverse assi di legno sovrapposte e piegate, tenute insieme da colla, mentre lo strato esterno era dipinto o con figure animalesche che rappresentavano le legioni repubblicane (cavalli, tori, etc.) o, specialmente a partire dall’impero, simboli come saette. I bordi erano rafforzati da una lamiera di ferro, che lo rendeva più resistente ed evitava crepe in caso di fendenti particolarmente forti; nel retro dell’umbone, c’era l’impugnatura orizzontale, e dunque serviva anche a proteggere la mano. Altri reparti come i velites o i cavalieri usavano protezioni differenti, scudi più piccoli e generalmente tondi chiamati parma (i gladiatori infatti erano divisi tra le macro categorie di scutari e i parmularii a seconda della protezione). Infine, esternamente, lo scudo era ricoperto da una fodera in cuoio per proteggerlo dall’acqua e dall’umidità quando non veniva utilizzato.

Lo scutum permetteva un’ottima protezione anche contro le frecce, nonostante disastri come quello di Carre. Racconta infatti Cesare di un suo centurione che resistette a 120 frecce grazie al suo scudo:

«Così, in una sola giornata, si svolsero sei battaglie, tre presso Durazzo e tre presso le fortificazioni. Facendo un conto complessivo, calcolavamo a circa duemila uomini le perdite dei pompeiani, tra i quali molti richiamati e centurioni, e tra questi Valerio Fiacco, figlio di quel Lucio che era stato pretore in Asia; furono prese anche sei insegne militari. Le nostre perdite non ammontarono a più di venti uomini in tutti gli scontri. Ma non vi fu neppure un soldato, di quelli del fortino, che non riportasse delle ferite; quattro centurioni dell’ottava coorte persero la vista. Volendo presentare una prova della fatica e dei rischi che avevano corso, contarono davanti a Cesare circa tremila frecce scagliate contro il fortino e gli fu presentato lo scudo del centurione Sceva sul quale furono trovati centoventi fori. Cesare, per i meriti acquisiti verso di lui e la repubblica, gli fece un donativo di duecentomila sesterzi e lo promosse da centurione dell’ottava centuria a centurione primipilo – risultava infatti che in gran parte grazie al suo impegno il fortino si era salvato – premiò poi la coorte con doppia paga e una larga distribuzione di frumento, vesti, cibi e decorazioni militari.»

CESARE, DE BELLO CIVILI, III, 53

Lorica segmentata

Quando il triumviro Marco Linicio Crasso venne pesantemente sconfitto dai parti a Carre, nel 53 a.C., trovandovi la morte, Cicerone si accorse che l’equipaggiamento utilizzato non era adatto ad affrontare un nemico così mobile in pieno deserto. Diceva infatti al fidato Attico: “Contra equitem parthum negant ullam armaturam meliorem inveniri posse” (Ad familiares, 9, 25), ovvero “negano che si possa inventare un’armatura migliore per affrontare i cavalieri parti”. In questo caso Cicerone non fa riferimento ai catafratti, che i romani avevano già affrontato contro i seleucidi e Mitridate, ma bensì ai terribili hippotoxotai, gli arcieri a cavallo, che inondarono di frecce l’esercito di Crasso, impossibilitato a muoversi, poiché sotto la minaccia combinata dei catafratti.

Di fatto pochi anni dopo cominciò a divenire comune una nuova armatura, fatta di fasce di ferro che avvolgevano il torace: la lorica segmentata (letteralmente “armatura a segmenti), i cui rinvenimenti più antichi risalgono alla fine del I secolo a.C. e l’inizio del I d.C. I test moderni hanno determinato come effettivamente l’armatura non solo fosse lievemente più leggera di un’hamata (anche se meno confortevole), ma nettamente più resistente al lancio di dardi, che invece penetravano tra gli anelli o li spezzavano. Inoltre la lorica combinava anche una forte protezione contro fendenti e colpi dall’alto, che venivano dispersi grazie alle placche sovrapposte delle spalle, risultando quindi particolarmente utile pure nei combattimenti contro i barbari. Successivamente vennero impiegate anche nuove protezioni aggiuntive, come manicae segmentate per il braccio destro, per difendersi dalle falci daciche, forse rimodellate sulle protezioni in uso dai gladiatori, dalle quali a loro volta forse avevano tratto spunto per realizzare la segmentata.

Riguardo il suo nome le fonti tacciono e si possono fare solo ipotesi. La più accreditata la vorrebbe legata al termine clibanarius, che indicava un soldato particolarmente corazzato, legandolo anche a un passo di Ammiano Marcellino in cui parla di soldati clibanarii che seguivano l’imperatore Giuliano. Il termine tra l’altro in greco e poi nell’impero bizantino (klibanon) indicava appunto le armature lamellate che usavano i cavalieri catafratti. Probabilmente la parola greca, da cui deriva quella latina, viene da “kribanos” (teglia da forno per il pane). Non solo, sappiamo grazie alla Notitia Dignitatum, che esistevano fabbriche dedicate alla produzione di armature dette clibanariae, diverse dalle altre.

«et incedebat hinc inde ordo geminus armatorum clipeatus atque cristatus corusco lumine radians nitidis loricis indutus, sparsique cataphracti equites quos clibanarios dictitant, [personati] thoracum muniti tegminibus et limbis ferreis cincti ut Praxitelis manu polita crederes simulacra non viros quos laminarum circuli tenues apti corporis flexibus ambiebant per omnia membra diducti ut quocumque artus necessitas commovisset vestitus congrueret iunctura cohaerenter aptata»

«Marciava dall’una e dall’altra parte una doppia schiera di soldati rivestiti di lucide corazze, con scudi ed elmi adorni di creste risplendenti di luce corrusca. Venivano in ordine sparso i corazzieri a cavallo, chiamati di solito clibanari, i quali erano forniti di visiere e rivestiti di piastre sul torace. Fasce di ferro avvolgevano le loro membra tanto che si sarebbero creduti statue scolpite da Prassitele, non uomini. Erano coperti da sottili lamine di ferro disposte per tutte le membra ed adatte ai movimenti del corpo, di modo che qualsiasi movimento fossero costretti a compiere, la corazzatura si piegasse per effetto delle giunture ben connesse.»

AMMIANO MARCELLINO, XVI, X, 8

Il legionario “modello”

Il legionario dell’epoca di Traiano era armato con un elmo, una corazza (segmentata, hamata o squamata), lo scutum rettangolare, due pila e un gladio. A questi si aggiunsero gli schinieri tornati di moda per contrastare le falci daciche e vennero aggiunte delle maniche segmentate per lo stesso motivo. Anche gli elmi vennero rinforzati per resistere ai fendenti con una calotta a croce e delle tese e paranuche più ampie. La tattica della legione, distribuita su 10 coorti schierate in duplex o triplex acies (o due linee da 5 coorti o tre da 4, 3, 3 coorti), era di ingaggiare il nemico dopo il fuoco delle macchine come scorpioni e carroballiste (balliste montate su carri) e le raffiche di arcieri, frombolieri e ausiliari armati alla leggera. Il nemico già indebolito veniva caricato con il lancio dei pila a distanza ravvicinata, che erano stati rinforzati nell’ultimo secolo con una palla di piombo per aumentarne il danno. Il pilum generalmente trapassava lo scudo e se non lo faceva rendeva impossibile usarlo. Arrivati al corpo a corpo l’enorme esperienza e disciplina delle legioni, unita alla terribile efficacia del gladio, usato per pugnalare più che per menare fendenti, rendeva spesso la vittoria romana una mera questione di tempo.

Nella colonna di Traiano legionari e ausiliari appaiono ben distinti sia visivamente (i primi con scutum rettangolare e lorica segmentata, i secondi con lorica hamata e scudo ovale) sia tatticamente. I legionari infatti sembrano occuparsi principalmente di opere di ingegneria, mentre gli ausiliari combattono in prima linea, e mostrano alcune pratiche barbare che ne denotano l’origine (come le teste degli sconfitti che mostrano a Traiano). I legionari sembrano intervenire principalmente in occasioni di difficoltà e durante gli assedi, confermando la descrizione di pochi decenni prima di Giuseppe Flavio che li descrive come delle vere e proprie macchine da guerra da cui sarebbe più saggio fuggire che affrontare.

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L’equipaggiamento del legionario di Traiano
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