Nel 27 a.C. il senato attribuì a Ottaviano il titolo di Augustus. Sommati a una serie di poteri straordinari (l’imperium proconsulare maius, ossia il comando militare assoluto, il titolo di princeps senatus, la possibilità di parlare per primo in senato), ottenne sostanzialmente il potere assoluto sebbene da privato cittadino (anche se gli veniva dato quasi annualmente il consolato). Nel 23 a.C. ricevette l’ultimo potere che legittimava la sua “superiorità”: una tribunicia potestas a vita, che gli permetteva di essere sacro e inviolabile come i tribuni della plebe e gli concedeva la possibilità di porre il veto a qualunque azione del senato. Inoltre, alla morte di Lepido assunse il titolo di pontefice massimo, in modo da essere la massima autorità religiosa. Infine nel 2 a.C. ottenne il titolo di pater patriae.

«Augusto assunse cariche ed onori anche prima del tempo legale, alcune poi nuove ed a vita. Si pigliò il consolato a diciannove anni, avvicinando a Roma minacciosamente le sue legioni e inviando chi lo chiedesse per lui a nome dell’esercito; e poiché il Senato si mostrava esitante, il centurione Cornelio, capo della delegazione, gettò indietro il mantello, mostrando l’impugnatura della spada, e non esitò a dire in piena Curia: «Lo farà questa, se non lo farete voi». Esercitò il secondo consolato dopo nove anni, e il terzo con l’intervallo di un solo anno; i successivi, fino all’undicesimo, tutti di séguito. Dopo averne rifiutati molti che gli venivano conferiti, chiese egli stesso, dopo un lungo intervallo – erano trascorsi diciassette anni – il dodicesimo, e, due anni dopo, il tredicesimo: voleva accompagnare nel Foro rivestito della suprema magistratura i due figli Gaio e Lucio per il loro tirocinio, ciascuno a suo turno. I cinque consolati centrali – dal sesto al dodicesimo – li esercitò per tutto l’anno, gli altri, invece, o per nove mesi, o per sei o per quattro o per tre; il secondo, poi, per pochissime ore: il primo di gennaio sedette per un po’ sul seggio curule dinanzi al tempo di Giove Capitolino, poi rinunciò alla carica, mettendo un altro al suo posto. Non tutti i consolati inaugurò a Roma: il quarto in Asia, il quinto nell’isola di Samo, l’ottavo e il nono a Tarragona.»

SVETONIO, AUGUSTO, 26

L’eredità del princeps

«Due volte pensò di restaurare la repubblica: una prima volta sùbito dopo aver fiaccato Antonio, ricordando che da questo gli era stato ripetutamente rinfacciato che dipendeva proprio da lui il fatto che essa non fosse restaurata; poi, di nuovo, perché stanco di una lunga malattia. In questa occasione, anzi, convocate le autorità e il Senato in casa sua, consegnò loro un rendiconto finanziario dell’impero. Ma, considerando che come privato cittadino egli sarebbe stato sempre in pericolo, e che era rischioso affidare lo Stato all’arbitrio di più persone, continuò a tenerlo in pugno lui. Non si sa se con migliore risultato o con migliore intenzione. Questa intenzione egli non solo la sbandierò di tanto in tanto, ma una volta giunse a proclamarla in un comunicato ufficiale: «Vorrei proprio che mi fosse possibile rimettere al suo posto sana ed indenne la repubblica, e godere il frutto che io cerco di questa restaurazione, di essere detto cioè fondatore di un ottimo Stato, e di portare con me, morendo, la speranza che rimangano salde le fondamenta dello Stato, quali io avrò gettato». Ed egli stesso fu realizzatore del suo voto, sforzandosi in ogni modo a che nessuno avesse a dolersi della nuova situazione. La città non era adorna in proporzione della sua maestà, ed era esposta a inondazioni e ad incendi: ebbene, egli la abbellì a tal punto che giustamente si potè gloriare di lasciarla di marmo, mentre l’aveva ricevuta di mattoni. E, per quanto una mente umana poteva prevedere, la rese sicura anche per l’avvenire.»

Svetonio, Augusto, 28

Ottaviano sciolse molte legioni e congedò i veterani (ne aveva ormai oltre 60). Ne restarono 28, ridotte a 25 dopo il disastro di Teutoburgo nel 9 d.C. (la XVII, XVIII e XIX non furono più ricostruite). 

«Sebbene il popolo gli offrisse con grande insistenza la dittatura, egli, piegato in ginocchio, tiratasi giù dalle spalle la toga e denudatosi il petto, supplicò di non addossargliela. Respinse sempre con orrore, come un insulto infamante, l’appellativo di padrone. Una volta, mentre egli assisteva allo spettacolo, poiché in un mimo era stata recitata l’espressione: O giusto e buon padrone! tutti quanti, come se fossero pienamente d’accordo che il verso si riferisse a lui, applaudirono esultanti; Augusto prima frenò quelle indecorose adulazioni con la mano e con il volto, poi, l’indomani, le redarguì con un durissimo comunicato. Da allora non tollerò di essere chiamato padrone nemmeno dai suoi figli o nipoti, né sul serio né per gioco, e vietò simili piaggerìe anche tra loro stessi.»

SVETONIO, AUGUSTO, 52-53

È innegabile che l’opera politica di Ottaviano si configuri come un tentativo, all’apparenza, di preservare le istituzioni e i mores repubblicani. Tuttavia nella pratica il princeps accettò e accentuò l’accentramento dei poteri (l’imperium proconsulare maius, la tribunicia potestas, il pontificato massimo etc.), rifiutando il consolato a vita e la dittatura ma di fatto tenendo i poteri di un dittatore. Tiberio, suo successore, accetterà malvolentieri il potere, nonostante quanto ci dicano gli storici filosenatori a lui avversi, ma nei fatti non poté fare altro che accettare la nuova forma statale, necessaria ad amministrare un impero sviluppato su tre continenti e che altrimenti avrebbe condotto – in quel periodo storico – a nuove guerre civili.⠀

Augusto preparò anche la sua successione: decise inizialmente che Marcello (il figlio di sua sorella Ottavia), suo nipote prediletto, a cui aveva dato in sposa la figlia Giulia sarebbe stato il suo erede. Tuttavia il giovane, che non amava particolarmente Agrippa, morì nel 23 a.C.:

«[…] quando Augusto si accorse che Marcello, per via della scelta precedente [Augusto aveva consegnato ad Agrippa l’anello, simbolo del potere imperiale, all’inizio dell’anno, quando si era ammalato gravemente e disperava di poter guarire], era animato da rivalità nei confronti di Agrippa, inviò quest’ultimo con grande celerità in Siria, per scongiurare che, entrambi presenti a Roma, potesse nascere qualche contesa tra i due. […]

«Augusto gli diede una sepoltura pubblica, dopo i consueti elogi lo seppellì nella tomba che fece costruire (l’Augusteo) […] E egli ordinò anche che fossero portati nel teatro [di Marcello] una sedia curule, un ritratto e una corona d’oro durante i Ludi Romani.»

(CASSIO DIONE,  STORIA ROMANA, LIII, 32, 1; 30, 5; 31, 3)

Morto il nipote prediletto, Augusto decise di nominare suo successore Agrippa, a cui diede immediatamente in sposa Giulia, rimasta vedova. Tuttavia anche Agrippa morì prima dell’imperatore, nel 12 a.C., e Giulia venne data in sposa a Tiberio, figliastro di Augusto, il quale ripiegò per la successione sui figli di Agrippa e Giulia, Gaio e Lucio Cesare. Anche loro non sopravvissero al nonno:

« Ma il destino non gli permise di essere soddisfatto, fiducioso e di avere una progenie e una casa ben disciplinata. Le due Giulie, la figlia e la nipote, colpevoli di ogni atto empio, le esiliò; nello spazio di diciotto mesi perse Gaio e Lucio, il primo in Licia, il secondo a Marsiglia. Adottò allora, nel Foro con la legge curiata, il terzo nipote Agrippa e il figliastro Tiberio; ben presto, a causa della natura infame e feroce di Agrippa, lo rinnegò e lo esiliò a Sorrento. »(SVETONIO, AUGUSTO, 65)

Tiberio

Molti maliziosi sostennero già in antichità che Druso, il figlio che Livia portava in grembo quando lei e Augusto si sposarono, fosse figlio illegittimo di Ottaviano, ma in realtà i due non si incontrarono prima del concepimento. Ma, mentre Druso venne cresciuto in casa di Ottaviano, Tiberio rimase con il padre, che morì quando aveva nove anni; fu il giovanissimo Tiberio a pronunciare la sua laudatio funebris dai rostri. Solo allora seguì il fratello nella casa di Ottaviano. Pochi anni dopo, guidò insieme a Marco Claudio Marcello – nipote di Ottaviano – il carro che precedeva quello del trionfo del nipote di Cesare. Tuttavia anche Druso, detto Maggiore, morì nel 9 a.C.

Augusto aveva avuto una predilezione fin dall’inizio per Marcello (figlio di Ottavia, sua sorella), coetaneo di Tiberio, a cui aveva dato in sposa la figlia Giulia avuta con Scribonia. Ma Marcello morì nel 23 a.C., e Agrippa nel 12 a.C. (che aveva sposato Giulia subito dopo). Alla morte di Agrippa Augusto decise di dare la figlia Giulia in sposa all’unico discendente possibile: il figliastro Tiberio, che nel 12 a.C. la sposò, costringendolo a ripudiare Vipsania Agrippina, figlia di Marco Vipsanio Agrippa, e da cui aveva avuto un figlio, Druso minore.

I caratteri di Giulia e Tiberio erano però opposti: tanto licenziosa lei, quanto riservato lui; il rapporto si guastò quasi subito, quando morì il loro figlio ancora infante. Nonostante questo Augusto decise di concedergli nel 6 a.C. la tribunicia potestas, il potere che conferiva la vera e propria dignità imperiale (si diventava in questo modo intoccabili e si aveva diritto di veto su qualsiasi decisione del senato). Ma Tiberio si ritirò in esilio volontario a Rodi:

«[…] è dubbio se per disgusto di sua moglie, che non osava né ripudiare né incriminare, ma che non poteva sopportare più oltre, o se, invece, per affermare o anche accrescere, con la lontananza, la sua autorità, nel caso che lo stato avesse bisogno di lui, evitando di stancare con la sua continua presenza. Certi stimano che, essendo allora adulti i figli di Augusto, cedette loro il passo spontaneamente, come se il secondo rango fosse stato un patrimonio a lungo usurpato, seguendo così l’esempio di Marco Agrippa che, quando aveva visto Marco Marcello chiamato a incarichi pubblici, si era ritirato a Mitilene per non sembrare, con la sua presenza in Roma, atteggiarsi a suo concorrente o a suo censore. Questa è, del resto, la versione che diede egli stesso, ma solo più tardi. In quell’epoca egli chiese un congedo motivandolo con il fatto che era sazio di onori e che voleva trovare riposo […]»

(Svetonio, Vite dei Cesari, Tiberio, 10)


«[Augusto] poiché volle in qualche modo frenare le intemperanze di Lucio e di Gaio, conferì a Tiberio la potestà tribunizia per cinque anni, e gli assegnò l’Armenia, che dopo la morte di Tigrane era diventata ostile. Gli toccò però entrare inutilmente in urto sia con i nipoti che con Tiberio, con i primi perché ritennero di essere stati declassati, con il secondo perché iniziò a temere il risentimento di loro. In ogni caso Tiberio fu mandato a Rodi con la scusa di aver bisogno di un periodo di insegnamento, […] affinché fosse lontano da Lucio e da Gaio, sia dalla loro vista sia dalla loro portata. […] Questa è la ragione più vera del suo allontanamento, anche se c’è una versione in base alla quale fu anche la moglie Giulia il motivo per cui aveva fatto ciò, dato che non riusciva più a sopportarla. […] Altri dissero che Tiberio era indispettito per il fatto che non aveva ricevuto anche il titolo di Cesare, mentre secondo altri ancora era stato cacciato da Augusto stesso sulla base del fatto che stava ordendo un complotto contro i suoi figli [Gaio e Lucio].»

(Cassio Dione, Storia romana, LV, 9, 4-5 e 7)

Infine anche i figli di Agrippa, Gaio e Lucio Cesare, morirono entrambi prematuramente; Lucio nel 2 d.C., ammalatosi, morì a Marsiglia, a soli 19 anni. Gaio due anni più tardi, nel 4 d.C., a 24 anni, per le ferite riportate durante la guerra in Armenia (Tigrane IV era stato ucciso e molti nobili armeni rifiutavano di riconoscere il re filoromano Ariobarzane), che gli avevano teso un’imboscata durante l’assedio di una fortezza.

«[…] ancora molto giovani fece partecipare [Lucio e Gaio Cesare] all’amministrazione della Res publica e quando furono designati consoli li inviò nelle province e presso gli eserciti.»

« Ma il destino non gli permise di essere soddisfatto, fiducioso e di avere una progenie e una casa ben disciplinata. Le due Giulie, la figlia e la nipote, colpevoli di ogni atto empio, le esiliò; nello spazio di diciotto mesi perse Gaio e Lucio, il primo in Licia, il secondo a Marsiglia. Adottò allora, nel Foro con la legge curiata, il terzo nipote Agrippa e il figliastro Tiberio; ben presto, a causa della natura infame e feroce di Agrippa, lo rinnegò e lo esiliò a Sorrento. »

SVETONIO, AUGUSTO, 64-65

Il 26 giugno del 4 d.C. Augusto decise infine di adottare Tiberio (che nell’1 d.C. era tornato a Roma) come suo successore, a patto che adottasse il nipote Germanico, figlio di Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse avuto già un figlio, Druso minore, avuto dalla prima moglie Vipsania. Contemporaneamente, per festeggiare, venne fatto un largo donativo all’esercito. Negli anni seguenti Tiberio combatté con notevoli successi in Germania, che i romani stavano ormai conquistando (almeno la parte a ovest dell’Elba), poi nell’Illirico, ancora in rivolta, e di nuovo in Germania, dopo il disastro di Varo che aveva perso tre legioni nella selva di Teutoburgo, nel 9 d.C. Pare che Augusto vagasse per il palazzo sbattendo la testa contro le porte e urlando: “Varo, rendimi le mie legioni!”, temendo un’invasione germanica fino in Italia.

Divenuto imperatore il 19 agosto del 14 d.C., Tiberio fece subito eliminare il giorno stesso Agrippa Postumo, figlio di Agrippa e Giulia, già esiliato da Augusto in quanto considerato un pazzo:

«[…] E non ignoro nemmeno che, secondo alcuni, […] acconsentì ad adottarlo solo per le preghiere di sua moglie, e anche spinto dal desiderio di farsi maggiormente rimpiangere, dandosi un simile successore. Non posso però credere che quel principe tanto circospetto e prudente abbia agito alla leggera in un caso di così grande importanza; credo piuttosto che abbia accuratamente pesato le virtù e i vizi di Tiberio e trovato maggiori le virtù, soprattutto tenendo conto che aveva giurato in assemblea di adottarlo nell’interesse dello stato, e che in molte sue lettere lo celebrò come un grande comandante militare e l’unico sostegno del popolo romano. […]»

Svetonio, Tiberio, 21


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L’eredità di Augusto
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