In seguito alle guerre sannitiche l’esercito romano era andato strutturandosi nella sua forma classica descritta da Polibio nel II secolo a.C., diviso in base al censo. I meno abbienti e più giovani formavano i veliti, armati alla leggera, con scudo rotondo, giavellotti e spada. Il grosso delle legioni era invece formato dalla fanteria pesante, divisa in hastati, principes e triarii. A questi si aggiungevano i cavalieri romani e gli alleati italici, organizzati in modo simile, e di numero generalmente all’incirca equivalente, posizionati sulle ali.

Gli hastati, come indica il nome, dovevano essere dotati in principio delle hastae, le lunghe lance in dotazione ai triarii, ma che già nel III secolo a.C. dovettero abbandonarle a favore del pilum. Completava l’equipaggiamento lo scutum ovale, l’elmo (specialmente Montefortino) e la spada, sostituita dalla seconda guerra punica dal gladio ispaniense, oltre a una placca di metallo che fungeva da corazza, e uno schiniere per la gamba sinistra, posizionata più avanti in combattimento.

I principes, più abbienti e anziani, formavano la seconda linea, e potevano generalmente contare su alcuni equipaggiamenti migliori, come cotte di maglia (loricae hamatae), che fornivano migliore protezione. L’equipaggiamento offensivo era analogo a quello degli hastati.

Infine, l’ultima linea era formata dai triarii (tanto che per i romani dire “arrivare ai triarii” significava giungere a una situazione disperata), raramente usati in battaglia e solo se le cose volgevano al peggio. Erano equipaggiati come i principes, ma erano dotati di una lunga lancia al posto del pilum, e pare attendessero lo scontro in ginocchio.

Infine i più abbienti, raccolti nelle diciotto centurie più abbienti degli equites durante i comizi centuriati, combattevano a cavallo, e se non potevano permetterselo gli veniva dato un cavallo pubblico, equus publicus. Tuttavia il combattimento a cavallo non era il preferito dai romani:

«Anche le lance non erano di alcuna utilità, principalmente per due motivi: prima di tutto, essendo sottili e fragili, non erano minimamente in grado di raggiungere il bersaglio e prima che la punta provasse a conficcarsi in qualcosa, spesso si spezzava a causa della vibrazione generata dal movimento del cavallo; [in secondo luogo], poiché erano costruite senza il puntale inferiore, potevano colpire di punta solo la prima volta, poi si spezzavano e non erano più utilizzabili.»

(Polibio, Storie, VI, 25, 5-6)

Tattiche

L’esercito veniva schierato su tre linee disposte a scacchiera, con i velites davanti gli hastati, e dietro di questi i principi; in ultima e terza fila i triarii, con centurie grandi generalmente la metà, mentre ai fianchi si disponevano i cavalieri e le coorti e ali ausiliarie dei socii. Le legioni non avevano un singolo comandante come in epoca imperiale, bensì erano comandate da sei tribuni militari:

«Da ciascuna di queste classi, ad eccezione per quella dei più giovani, i tribuni scelgono, in base al merito, dieci ufficiali subalterni (centuriones priores); poi ne scelgono altri dieci (centuriones posteriores). Tutti loro sono chiamati centurioni e quello che è stato scelto per primo, entra a far parte del consiglio militare […] non si può sapere come si comporti un comandante o cosa possa succedergli, e comunque, le necessità della guerra non ammettono scuse, essi hanno come obbiettivo che il manipolo non rimanga mai senza un comandante. »

(Polibio, Storie, VI, 24, 1-2; 7)

L’idea tattica alla base della legione manipolare era che quando una linea si stancava subentrava la successiva, con hastati e principes ad alternarsi, mentre i triarii subentravano solo in caso di assoluta necessità:

«Quando l’esercito aveva assunto questo schieramento, gli hastati iniziavano primi fra tutti il combattimento. Se gli hastati non erano in grado di battere il nemico, retrocedevano a passo lento e i principes li accoglievano negli intervalli tra loro. […] i triarii si mettevano sotto i vessilli, con la gamba sinistra distesa e gli scudi appoggiati sulla spalla e le aste conficcate in terra, con la punta rivolta verso l’alto, quasi fossero una palizzata… Qualora anche i principes avessero combattuto con scarso successo, si ritiravano dalla prima linea fino ai triarii. Da qui l’espressione in latino “Res ad Triarios rediit” (“essere ridotti ai Triarii”), quando si è in difficoltà.»

(T. Livio, Ab Urbe Condita Libri VIII, 8, 9-12)

Il processo di costruzione dell’esercito manipolare, passato per le guerre sannitiche, da cui i romani avevano sicuramente preso spunto, tanto nelle armi quanto nelle tattiche (scuta, pila, formazione meno falangitica), passò poi anche nella costruzione di castra, ossia accampamenti, che avevano un reticolo sempre ripetuto, di forma rettangolare. Anche lì i romani hanno preso spunto da altri:

«Pirro, re dell’Epiro, istituì per primo l’utilizzo di raccogliere l’intero esercito all’interno di una stessa struttura difensiva. I Romani, quindi, che lo avevano sconfitto ai Campi Ausini nei pressi di Malevento, una volta occupato il suo campo militare ed osservata la sua struttura, arrivarono a tracciare con gradualità quel campo che oggi a noi è noto.»

(Sesto Giulio Frontino, Strategemata, IX, 1,14)

Nel complesso l’esercito manipolare si dimostrò inizialmente incapace, durante la seconda guerra punica, di adattarsi alle tattiche più evolute di Annibale, per poi prendere spunto e adattarsi. Da lì in poi i comandanti romani saranno in grado di giocare con i manipoli, muovendoli in modo creativo sul campo di battaglia, uscendo dal tradizionale schema di alternanza delle linee e scontro frontale, passando invece per accerchiamenti e manovre più complesse; ad esempio a Cinocefale, nel 197 a.C., i manipoli romani, muovendosi in modo più libero, riuscirono ad avere la meglio sulla terribile falange macedone di Filippo V.

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L’esercito manipolare
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