Nel II secolo d.C., complice una buona congiuntura, le conquiste di Traiano e la pace di Adriano e Antonino Pio, l’impero romano raggiunse l’apice della sua ricchezza, stabilità e prosperità. Tuttavia tutto questo venne messo in discussione quando, all’inizio del principato di Lucio Vero e Marco Aurelio era scoppiata la peste antonina, che aveva decimato la popolazione dell’impero, riducendo le entrate e rendendo più difficile reclutare nuovi soldati.

A partire dall’epoca di Marco Aurelio i barbari avevano dunque cominciato a cercare di entrare all’interno del limes. I primi erano stati infatti i quadi e marcomanni, sconfitti dall’imperatore filosofo solo dopo una lunga guerra decennale. Marco aveva anche sconfitto i sarmati, provando a insediarli in Italia. E’ da allora che gli imperatori romani decidono invero di stabilire le prime tribù all’interno dell’impero, per ripopolarlo: la peste antonina, scoppiata attorno al 165, si diffuse in tutta la res publica grazie alle vexillationes di ritorno dalla campagna partica di Lucio Vero e Avidio Cassio.

Difatti nel corso del III secolo si diffusero i tentativi di stanziamento di barbari – chiamati laeti – per coltivare le terre desolate. Al contempo le lotte civili dovute all’anarchia militare e la crisi monetaria, con la moneta ormai solo bagnata in argento, favorirono le scorrerie di molti gruppi barbarici, in particolare i goti, che vennero infine sconfitti solo da Claudio II il Gotico. La vittoria sarebbe stata talmente devastante da rendere inoffensivi i goti per un secolo. Almeno fino al tragico epilogo di Adrianopoli.

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Invasioni o migrazioni?

Il 31 dicembre del 406 vandali, alani, svevi e altre popolazioni germaniche attraversarono in massa il Reno ghiacciato, cogliendo impreparati sia i limitanei sia i franchi, alleati dei romani, che avrebbero dovuto proteggere la frontiera. La migrazione di massa avveniva mentre in Italia Stilicone affrontava Alarico, tentando di riportare i visigoti dalla sua parte. Onorio decise di eliminare il comandante di origine vandalica, spingendo infine Alarico a saccheggiare Roma nel 410. Alla fine ai visigoti venne data l’Aquitania e lo status di foederati, ma i barbari che erano entrati non fu più possibile ricacciarli.

Da quel momento al 476 i romani cercheranno a volte di trattare a volte di fargli guerra, con fortune alterne. Il tracollo fiscale e demografico dovuto all’hospitalitas dei barbari su suolo romano rese inerme l’impero d’occidente, perdendo infine l’importantissima Africa per mano dei vandali e dovendo far affidamento infine solo su soldati barbari. Sarà Odoacre, che reclamava terre per i suoi anche in Italia, al rifiuto di Oreste, padre di Romolo Augustolo, a deporre quest’ultimo e inviare le insegne imperiali all’imperatore Zenone a Costantinopoli, decretando la fine dell’impero romano d’occidente nel 476.

«È la volta di Alarico, che assedia, sconvolge, irrompe in Roma trepidante[…] E a provare che quella irruzione dell’Urbe era opera piuttosto dell’indignazione divina che non della forza nemica, accadde che il beato Innocenzo, vescovo della città di Roma, proprio come il giusto Loth sottratto a Sodoma, si trovasse allora per occulta provvidenza di Dio a Ravenna e non vedesse l’eccidio del popolo peccatore. […] Il terzo giorno dal loro ingresso dell’Urbe i barbari spontaneamente se ne andarono, dopo aver incendiato, è vero, un certo numero di case, ma neppur tante quante ne aveva distrutte il caso nel settecentesimo anno dalla sua fondazione. Ché, se considero l’incendio offerto come spettacolo dall’imperatore Nerone, senza dubbio non si può istituire alcun confronto tra l’incendio suscitato dal capriccio del principe e quello provocato dall’ira del vincitore. Né in tal paragone dovrò ricordare i Galli, che per quasi un anno calpestarono da padroni le ceneri dell’Urbe abbattuta e incendiata. E perché nessuno potesse dubitare che tanto scempio era stato consentito ai nemici al solo scopo di correggere la città superba, lasciva, blasfema, nello stesso tempo furono abbattuti dai fulmini i luoghi più illustri dell’Urbe che i nemici non erano riusciti ad incendiare.»

Orosio, Storia contro i Pagani, VII, 39

Quando nel V secolo i barbari riuscirono a penetrare stabilmente nell’impero iniziarono le vere “invasioni barbariche“. Gli storici si dividono in due macro opinioni: quelli latini parteggiano per l’invasione violenta e la conquista armata da parte dei barbari, che avrebbero preso la terra con la forza. Quelli germanici invece parteggiano per le migrazioni, ovvero popoli costretti a migrare per questioni disparate e che si integrarono progressivamente nel tessuto della romanità.

L’impero d’occidente comunque non riuscì a ricacciare i barbari oltre il limes, mettendosi d’accordo quando poteva con loro e stanziandoli tramite il regime dell’hospitalitas, che concedeva ai nuovi arrivati un terzo delle terre. Ciò non impediva comunque ai barbari – ariani tra l’altro, in contrasto con la popolazione nicena – di dedicarsi a scorrerie e ulteriori spostamenti.

D’altra parte dall’impero d’oriente non arrivarono gli aiuti necessari, se non tardivi: nel 468 un’enorme flotta cercò di riprendere l’Africa ai vandali, finendo nel disastro di Capo Bon. Nel corso del V secolo l’impero d’occidente fu costretto a mano a mano a cedere terreno ai barbari. Si creò una spirale: i nuovi arrivati venivano stanziati, ma poi si chiedeva loro di combattere per l’impero come mercenari, in quanto le terre perse significavano meno entrate fiscali, rendendo impossibile pagare l’esercito regolare.

Fu così che molti reparti andarono a sciogliersi perché non ricevevano più la paga e al tempo stesso vedevano minacciate le loro famiglie e proprietà dai barbari. Contemporaneamente molti vedevano di buon occhio i nuovi arrivati, sperando di ricevere protezione militare dai barbari in cambio di terre e proprietà già desolate e di non pagare più le tasse sempre più esose richieste dai romani.

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L’inizio della fine – Invasioni barbariche

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