Marco Furio Camillo, di origine patrizia, nacque attorno al 446 a.C. Colui il quale sarebbe stato definito il secondo fondatore di Roma nel 401, nel pieno della lotta tra gli ordini patrizi e plebei (444-367 a.C.), venne eletto tribunus militum consulari potestate. In questo periodo si eleggevano alternativamente consoli o tribuni consolari, in numero di 6 quest’ultimi, non essendo chiarito ancora come i plebei dovessero accedere alle cariche più elevate. Nel 398 venne rieletto; continuava ancora l’assedio di Veio.

La conquista di Veio

Nel 396 venne infine eletto dittatore dopo che i tribuni consolari Lucio Titinio Pansa Sacco e Gneo Genucio Augurino caddero in un’imboscata di falisci e capenati, che uccisero il secondo. Furio decise di nominare suo magister equitum Publio Cornelio Maluginense. Dopo aver rimesso in ordine la situazione, reclutando nuovi soldati e sconfiggendo falisci e capenati, riprese l’assedio di Veio.

«Una folla immensa si riversò nell’accampamento. Allora il dittatore, dopo aver preso gli auspici, si fece avanti e, dopo aver detto ai soldati di armarsi, disse: “O pitico Apollo, sotto la tua guida e per tua divina inspirazione mi avvio a distruggere la città di Veio e a te offro in voto la decima parte del bottino che ne si ricaverà. Nello stesso tempo supplico te, Giunone Regina che ora risiedi a Veio, di seguire le nostre armi vittoriose nella nostra città di Roma, tua dimora futura, la quale ti riceverà in un tempo degno della tua grandezza”»

Tito Livio, Ab Urbe condita, V, 2, 21

Successivamente Camillo ordinò di costruire una galleria per arrivare fino alle mura nemiche. Nel frattempo si accendeva il dibattito su come distribuire il bottino, per evitare contrasti tra patrizi e plebei: Publio Licinio Calvo Esquilino premeva perché chi volesse il bottino se lo andasse a prendere a Veio, mentre i patrizi, capeggiati da Appio Claudio, chiedevano di portarlo nelle casse pubbliche per diminuire le tasse. Alla fine il senato decise di lasciare la decisi ai comizi:

«Perciò venne annunciato che chi avesse voluto prendere parte alla spartizione del bottino di Veio avrebbe dovuto recarsi all’accampamento del dittatore.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 2, 20

Alla fine Camillo diede l’ordine di attaccare le mura, come diversivo: in realtà l’attacco proveniva dalla galleria scavata in segreto:

«E si chiedevano (i veienti) con meraviglia come mai, mentre per tanti giorni non c’era stato un solo Romano che si fosse mosso dai posti di guardia, adesso, come spinti da un furore improvviso, si riversassero in massa alla cieca contro le mura»

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 2, 21

I veienti non si resero conto dei romani finché non furono dentro, ma ormai era troppo tardi. Avevano già preso il tempio di Giunone e la cittadella e aperto le porte della città. Fu un massacro senza quartiere, che però portò un bottino enorme e terminò un assedio decennale. La statua di Giunone fu portata a Roma e le fu dedicato un tempio sul monte Aventino. Camillo ne dedicò un altro a Mater Matuta, dopo aver celebrato il trionfo.

L’assedio di Roma

Successivamente Camillo ottenne il terzo tribunato consolare e sconfisse falisci e capenati. Nel 391 l’ex dittatore, per motivi non del tutto chiari, forse legati alla spartizione del bottino, si ritirò in esilio volontario ad Ardea. Fu proprio allora che i galli di Brenno attaccarono Chiusi e i romani decisero di portare loro aiuto:

«Dal Senato fu inviato in qualità di dittatore contro i Veienti, che dopo vent’anni si erano ribellati, Furio Camillo. Egli li vinse prima in battaglia, quindi conquistò anche la loro città. Presa Veio, vinse anche i Falisci, popolo non meno nobile. Ma contro Camillo sorse un’aspra invidia, con il pretesto di un’ingiusta divisione del bottino, e per tale motivo fu condannato ed espulso dalla città. Subito i Galli Senoni calarono su Roma e, sconfitto l’esercito romano a dieci miglia dall’Urbe, presso il fiume Allia, lo inseguirono e occuparono anche la città. Nulla poté essere difeso tranne il colle Campidoglio; e dopo averlo a lungo assediato, mentre ormai i Romani soffrivano la fame, in cambio di oro i Galli levarono l’assedio e si ritrassero. Ma Camillo, che viveva da esiliato in una città vicina, portò il suo aiuto e sconfisse duramente i Galli. Ma non solo: Camillo inseguendoli ne fece tale strage che recuperò sia l’oro ch’era stato loro consegnato, sia tutte le insegne militari da essi conquistate. Così riportando il trionfo per la terza volta entrò in Roma e venne chiamato “secondo Romolo” come fosse egli stesso fondatore della patria.»

Eutropio, Breviarium ab Urbe condita lib. I,20

La situazione di Roma era disperata: i galli avevano preso la città dopo la sconfitta dell’Allia e i sopravvissuti si erano rinchiusi nel Campidoglio.

“All’unanimità si deliberò di richiamare Camillo da Ardea, ma non senza prima aver consultato il senato, che era in Roma: a tal punto imperava il rispetto delle leggi, e anche in quella situazione quasi disperata osservavano la distinzione dei poteri. Bisognava passare con grande rischio in mezzo alle sentinelle nemiche; per questa impresa si offerse Ponzio Cominio, giovane animoso, il quale disteso sopra un sughero si lasciò trasportare dalla corrente del Tevere verso Roma. Quindi, nel punto dove il cammino dalla riva era più breve, salì sul Campidoglio per rupi scoscese, trascurate perciò dalla vigilanza dei nemici, e condotto davanti ai magistrati espose la missione affidatagli dall’esercito. Ricevuto il decreto del senato, il quale ordinava che richiamato dall’esilio per ordine del popolo Camillo fosse proclamato sùbito dittatore nei comizi curiati, e che i soldati avessero il comandante che preferivano, il messaggero uscito per la stessa via ritornò a Veio, e di qui fu mandata ad Ardea presso Camillo un’ambasceria che lo condusse a Veio, oppure, secondo un’altra versione che io preferisco seguire, egli non si mosse da Ardea prima di aver appreso che era stata approvata la legge, poiché né poteva mutare territorio senza ordine del popolo, né poteva avere gli auspici nell’esercito senza la nomina a dittatore: fu approvata la legge nei comizi curiati e fu nominato dittatore in sua assenza.”

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 46, 7-11
Brenno

I galli tentarono un nuovo assalto, uccidendo le sentinelle, ma i romani, grazie alle oche sacre a Giunone avrebbero scoperto il piano dei galli prima che potessero prendere il Campidoglio, riuscendo a respingerli nuovamente. La fame tuttavia attanagliava ormai sia i romani che i galli; quest’ultimi decisero di intavolare delle trattative per togliere l’assedio, e i romani acconsentirono a versare un tributo di mille libbre d’oro. Ma pare che i galli portarono dei pesi falsi; i romani se ne accorsero, al che il capo gallico avrebbe anche aggiunto la sua spada alla bilancia e esclamato: “vae victis“. “Guai ai vinti”:

“Allora si riunì il senato, il quale diede incarico ai tribuni militari di patteggiare le condizioni. Le trattative si conclusero in un colloquio fra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: a mille libbre d’oro fu fissato il prezzo del popolo che ben presto avrebbe dominato su tutte le genti. Alla cosa già in se stessa vergognosissima si aggiunse un iniquo oltraggio: i Galli portarono dei pesi falsi, e alle proteste del tribuno il Gallo insolente aggiunse sulla bilancia la spada, pronunziando una frase intollerabile per i Romani: «Guai ai vinti».”

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 48, 8-9

Ma proprio in quel momento sarebbe arrivato Marco Furio Camillo, che avrebbe bloccato lo scambio, pronunciando un’altra frase celebre: “non auro sed ferro patria recuperanda est” (“non con l’oro, ma col ferro si deve salvare la patria”):

“Ma gli dèi e gli uomini non vollero che i Romani sopravvivessero riscattati. Infatti la sorte volle che prima che fosse compiuto il vergognoso mercato, mentre ancora si discuteva, non essendo stato pesato tutto l’oro, sopraggiungesse il dittatore: sùbito ordinò che fosse tolto di mezzo l’oro e che i Galli fossero allontanati. Poiché quelli si rifiutavano dicendo che il patto era già stato concluso, egli negò che fosse valido quell’accordo stretto senza sua autorizzazione da un magistrato inferiore in grado, dopo che egli già era stato nominato dittatore, ed intimò ai Galli di prepararsi a combattere. Diede ordine ai suoi di deporre i bagagli, di preparare le armi e di riconquistare la patria col ferro, non con l’oro, avendo davanti agli occhi i templi degli dèi, le mogli, i figli, il suolo della patria deturpato dai mali della guerra, e tutte le cose che era sacro dovere difendere e riprendere e vendicare. Schierò poi l’esercito come lo permetteva la natura del luogo, sul suolo della città semidistrutta, e già di sua natura accidentato, e prese tutte quelle misure che l’arte militare poteva escogitare e preparare per avvantaggiare i suoi. I Galli sorpresi dal repentino mutamento della situazione prendono le armi, e si gettano contro i Romani più con ira che con prudenza. Già la fortuna era cambiata, già la protezione degli dèi e l’intelligenza umana appoggiavano le sorti dei Romani; quindi al primo scontro i Galli furono disfatti con la stessa facilità con cui avevano vinto presso l’Allia. Furono poi vinti, sempre sotto la guida e gli auspici di Camillo, in una seconda battaglia più regolare, a otto miglia da Roma sulla via di Gabi, dove si erano raccolti dopo la fuga. Qui la strage fu generale: furono presi gli accampamenti, e non sopravvisse neppure uno che potesse recare la notizia della disfatta. Il dittatore ritolta la patria ai nemici tornò trionfando in città, e fra i rozzi canti scherzosi, che i soldati sogliono improvvisare in tali occasioni, fu chiamato Romolo, padre della patria e secondo fondatore di Roma, con lodi non immeritate. Dopo aver salvata la patria in guerra la salvò poi sicuramente una seconda volta in pace, quando impedì che si emigrasse a Veio, mentre i tribuni avevano ripreso con maggior accanimento la loro proposta dopo l’incendio della città, ed anche la plebe era di per sé più incline a quell’idea. Questa fu la causa per cui non abdicò alla dittatura dopo il trionfo, poiché il senato lo scongiurava di non abbandonare la repubblica in un momento difficile.”

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 49, 1- 9

Cacciati i galli da Roma, restava il problema di come ricostruire la città; mentre si discuteva se spostarsi a Veio, appena finito il discorso in senato di Camillo, che voleva rimanere a Roma, un centurione di passaggio al di fuori della curia avrebbe fatto piantare le insegne urlando “hic manebimus optime” (qui rimarremo ottimamente). Il gesto fu interpretato come di buon auspicio dai senatori, che decisero di ricostruire Roma:

“Ma a togliere ogni incertezza sopraggiunse una frase pronunziata proprio a tempo: mentre poco dopo il discorso di Camillo il senato era riunito nella curia Ostilia per discutere della questione, e delle coorti inquadrate ritornando dai presidii per caso attraversavano il foro, un centurione nella piazza del Comizio esclamò: «O alfiere, pianta l’insegna, qui rimarremo felicemente». Udita quella voce il senato uscito dalla curia gridò che accoglieva quello come un augurio, e la plebe accorsa intorno approvò. Respinta quindi la proposta di legge si cominciò a ricostruire la città disordinatamente. Le tegole furono fornite a spese dello stato, e fu dato il permesso di prendere le pietre e il legname di costruzione dove ciascuno volesse, dietro garanzia di condurre a termine gli edifici entro l’anno. Nella fretta non si presero cura di tracciare vie diritte, e senza distinzione di proprietà si edificava sul terreno trovato libero. Questo è il motivo per cui le vecchie cloache, che prima passavano sotto il suolo pubblico, ora in molti punti passano sotto case private, e inoltre la topografia della città fa pensare che il suolo cittadino sia stato occupato a caso e non distribuito secondo un piano.”

Tito Livio, Ab Urbe Condita , V, 55, 1- 5

Carriera politica successiva

«Dopo averla salvata in tempo di guerra, Camillo salvò di nuovo la propria città quando, in tempo di pace, impedì un’emigrazione in massa a Veio, nonostante i tribuni – ora che Roma era un cumulo di cenere – fossero più che mai accaniti in quest’iniziativa e la plebe la appoggiasse già di per sé in maniera ancora più netta»

Tito Livio, Ab Urbe Condita, V, 4, 49

Camillo non solo aveva salvato Roma dunque, ma aveva anche fatto in modo da convincere i senatori a non emigrare a Veio e ricostruire la città, tanto da meritarsi l’appellativo di secondo Romolo. L’anno seguente fu nominato di nuovo dittatore, affrontando volsci, equi ed etruschi, che speravano di approfittare di un’Urbe stremata dall’assedio. Camillo riorganizzò l’esercito, dividendolo in tre parti: una a Roma, una a Veio e con la terza attaccò personalmente i volsci, che sconfisse a Mecio, nei pressi di Lanuvio. Firmata la resa, Camillo passò agli equi, a cui tolse Bola. Infine accorse Sutri, alleata di Roma, sconfiggendo gli etruschi. Ciò gli garantì un nuovo trionfo, dopo quello di Veio.

Nel 386 a.C. venne eletto tribuno consolare. I romani si scontrarono, guidati da Camillo, contro un esercito superiore di volsci, latini ed ernici; la vittoria fu garantita solo grazie alla decisa azione del secondo fondatore di Roma:

«Dopo aver quindi suonato la carica, scese da cavallo e prendendo per mano l’alfiere più vicino lo trascinò con sé verso il nemico gridando: «Avanti l’insegna, o soldato!». Quando gli uomini videro Camillo in persona, ormai inabile alle fatiche per l’età avanzata, procedere verso il nemico levarono l’urlo di guerra e si buttarono all’assalto tutti insieme, ciascuno gridando per proprio conto «Seguite il generale!». Si racconta anche che Camillo ordinò di lanciare un’insegna tra le linee nemiche, e che gli antesignani furono incitati a riprenderla.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita, VI, 8

I volsci si ritirarono, ma abbandonati dagli alleati, vennero sconfitti. Camillo riuscì anche a liberare Sutri dagli etruschi e riprendere Nepi. Nel 384 venne eletto nuovamente tribuno consolare, così come nel 381, quando i romani guidati da Lucio Furio e Furio Camillo vennero sconfitti dai volsci; fu solo grazie all’intervento di Camillo che i romani riuscirono a ritirarsi. Grazie ai prigionieri presi si scoprì che anche Tuscolo era pronta ad attaccare Roma, pertanto si decise di attaccarla e affidare la guerra a Camillo, che chiese come collega di nuovo Lucio Furio. La città fu presa senza spargimenti di sangue e i romani furono clementi.

Nel 368, subito prima del riconoscimento della possibilità di accedere al consolato per i plebei, il senato decise di nominare dittatore Camillo per impedire la votazione delle leges Liciniae Sextiae (approvate poi l’anno seguente)

«E dato che le tribù erano giù state chiamate a votare e il veto dei colleghi non ostacolava più i promotori delle leggi, i patrizi allarmati ricorsero ai due estremi rimedi: la più alta delle cariche e il cittadino al di sopra di ogni altro. Decisero di nominare un dittatore. La scelta cadde su Marco Furio Camillo, che scelse Lucio Emilio come maestro di cavalleria […] Tuttavia, prima ancora che la contesa avesse designato un vincitore tra le due parti in causa, Camillo rinunciò al proprio incarico, sia perché – come hanno scritto alcuni autori – la sua elezione non era stata regolare, sia perché i tribuni della plebe proposero e la plebe si disse d’accordo che, qualora Marco Furio avesse preso qualche iniziativa in qualità di dittatore, gli sarebbe stata inflitta un’ammenda di 500.000 assi»

Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 38.

Dopo le sue dimissioni venne eletto dittatore Publio Manlio Capitolino. Nel 367 a.C. Camillo venne eletto di nuovo dittatore per affrontare un’invasione di galli, che vennero sconfitti ad Albano, mentre a Camillo fu concesso ancora il trionfo:

«E nonostante l’enorme spavento ingenerato dai Galli e dal ricordo della vecchia disfatta, i Romani conquistarono una vittoria che non fu né difficile né mai in bilico. Molte migliaia di barbari vennero uccise nel corso della battaglia e molte altre dopo la presa dell’accampamento. I sopravvissuti, dispersi, ripararono soprattutto in Puglia, riuscendo a evitare i Romani sia per la grande distanza della fuga, sia per il fatto di essersi sparpagliati in preda al panico»

Tito Livio, Ab Urbe condita, VI, 4, 42

Alla fine fu anche grazie a Camillo che vennero approvate le leges Liciniae Sextiae, che concessero nel 367 a.C. ai plebei di accedere al consolato e posero fine alla lotta degli ordini. Poco dopo, nel 365 a.C. morì di malattia:

«Ma ciò che rese degna di menzione quella pestilenza fu la morte di Marco Furio, dolorosissima per tutti non ostante lo avesse raggiunto in età molto avanzata. Egli fu infatti uomo assolutamente impareggiabile in qualunque circostanza della vita. Eccezionale tanto in pace quanto in guerra prima di essere bandito da Roma, si distinse ancor più nei giorni dell’esilio: lo testimoniano sia il rimpianto di un’intera città che, una volta caduta in mani nemiche, ne implorò l’intervento mentre era assente, sia il trionfo con il quale, riammesso in patria, ristabilì nel contempo le proprie sorti e il destino della patria stessa. Mantenutosi poi per venticinque anni – quanti ancora ne visse da quel giorno – all’altezza di una simile fama, fu ritenuto degno di essere nominato secondo fondatore di Roma dopo Romolo»

Tito Livio, Ab Urbe condita, VII, 1

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