L’episodio di Masada, nel 73 d.C., è forse il più emblematico per rappresentare la forza militare romana. In seguito alla ribellione giudaica, repressa nel sangue dalle truppe di Vespasiano e di suo figlio Tito, culminata con la presa di Gerusalemme e la distruzione del tempio nel 70 d.C., rimasero alcune sparute fortezze in mano ai ribelli. Una di queste era Masada, una rocca imprendibile sul Mar Morto, nata come dimora regale e poi trasformata da Erode il Grande in fortezza inespugnabile. Con la sua ripida e scoscesa posizione, accessibile solo da una stradina tortuosa, e le sue cisterne d’acqua, i ribelli credevano di poter resistere a oltranza. Ma si sbagliavano.

Un assedio impossibile

L’operato dei romani in Giudea non era stato dei migliori, tanto da far dire a Tacito che:

“la capacità di sopportazione dei giudei non andò oltre il periodo in cui fu procuratore Gessio Floro”

Fu proprio sotto di lui che scoppiò la rivolta, nel 66 d.C., dopo altre avvisaglie (come quando Caligola cercò di installare i suoi ritratti nel tempio). L’obbligo dei tributi, i sacrifici all’imperatore, il presidio romano, l’investitura del sommo sacerdote, l’amministrazione della giustizia data in ultima istanza al governatore romano, le sopraffazioni, la violazione dei precetti furono elementi che portarono la popolazione, e specialmente la frangia dei zeloti, a fomentare prima e poi far scaturire la ribellione.

Nel maggio del 66 Gessio Floro confiscò parte del tesoro del tempio come contributo alla tassazione romana, provocando la ribellione di tutta la Giudea, nonostante i tentativi di riconciliazione di alcuni giudei come quello dello stesso re Agrippa II. Dopo 4 anni di guerra e la caduta di Gerusalemme rimasero solo alcune sparute fortezze, finché non rimase solo Masada.

Masada nacque intorno al 100 a.C., finché per ordine di Erode il Grande venne trasformata in fortezza, temendo le ambizioni di Cleopatra. Il muro di cinta – due muri paralleli con con partizioni che dividevano gli spazi in stanze – era lungo 1400 metri e racchiudeva 12 ettari; alto 5 metri e spesso 4, era intervallato da 37 torri, la cui altezza arrivava a 20 metri. Il palazzo, nella zona nord, era sviluppato su tre piani e aveva una strada sotterranea che collegava all’altopiano. Sale, porticati e bagni erano di ottima fattura, come afferma Flavio Giuseppe e come confermano i reperti archeologici. A ridosso del palazzo c’erano i bagni pubblici. Nella zona occidentale c’era un altro palazzo, ancora più grande, con magazzini, edifici di servizio, amministrativi e di reggia vera e propria, con tanto di bagno privato del re. Tra i due palazzi sorgeva la sinagoga. I caseggiati erano in gran parte a ridosso delle pendici settentrionali, lungo il lato esterno della cinta  e a sua volta difesa da muro con torri quadrangolari ancora più alte. Una torre, a 400 metri dalla fortezza, sbarrava l’accesso al Mar Morto, rendendo possibile colpire chiunque si avvicinasse. All’interno cibo e acqua non mancavano mai: sulla spianata centrale si coltivava abbondantemente, mentre diverse cisterne permettevano di raccogliere moltissima acqua, fino a 40.000 metri cubi.

Quando arrivarono i ribelli trovarono anche moltissime scorte, per cui credettero realmente di poter resistere all’esercito romano. Dopo la caduta delle altre fortezze rimaste in mano ai giudei, ossia Herodium e Machaerus e il massacro della foresta di Giarda, dove i romani stanarono e sterminarono 3000 giudei in fuga, restava in mano agli zeloti solo la fortezza di Masada, dove Eleazar ben Ya’ir guidava circa 960 ribelli.

Alla morte di Giunio Basso, governatore della Giudea, il nuovo governatore Flavio Silvia si dedicò ad assediare questa fortezza all’apparenza imprendibile. Condusse sul luogo, visto che ormai la provincia era pacificata, un’intera legione, la X Fretensis, oltre ai reparti ausiliari, per un totale di circa 10-15.000 uomini: la superiorità romana era schiacciante e i romani volevano fare un atto di forza. Le intenzioni romane furono chiare fin dall’inizio; Flavio Silva fece costruire un vallum tutt’attorno la fortezza, alto circa 1,80 m e intervallato da campi legionari e ausiliari, per un totale di 11 torri e 8 campi. Più vicino al campo ed esposti c’erano 5 campi ausiliari, mentre due campi legionari erano in una posizione più protetta. Infine un campo sorgeva a nord-ovest, su un’altura lievemente più alta della fortezza, su cui si insediò Flavio Silva: i romani, in schiacciante superiorità numerica, non solo avevano chiuso ogni possibile via di uscita, ma si erano posizionati perfino più in alto.

Le pendici ripidissime dell’altura tuttavia non consentivano alcun attacco; il sentiero verso il Mar Morto era controllato dalla torre, mentre quello più accessibile era stato ostruito da massi di 45 kg l’uno. Dopo aver ispezionato il perimetro Flavio Silva trovò un punto in cui il dislivello era di “solo” 137 metri. I romani decisero di colmare il vuoto con un’enorme terrapieno, costruito in circa 2 mesi, alla cui sommità fu creata una piattaforma larga circa 29 metri. Fu costruita una torre d’assedio alta 27m (colmando così il dislivello rimasto) dotata di catapulte e baliste (i cosiddetti tormenta), un ariete e portata in cima al terrapieno.

La torre riuscì ad aprire una breccia nelle mura, grazie all’ariete, ma gli zeloti presero a lanciarci contro ogni tipo di oggetto infiammabile e fiaccola, bruciandola; finché il vento cambiò direzione e il fuoco bruciò anche le impalcature che i giudei avevano costruito sulle mura, facendo crollare il tratto demolito dall’ariete. I romani si ritirarono preparandosi all’assalto il giorno seguente. Ma la mattina successiva lo spettacolo fu desolante per i romani: non trovarono altro che cadaveri.

Eleazar aveva radunato gli uomini e dato l’ordine di uccidersi pur di non farsi prendere vivi dai romani. Uno a uno si erano uccisi a vicenda, nonostante le rimostranze di molti, alla fine convinti dalle parole del loro leader, che aveva prospettato loro la fine terribile che avrebbero fatti se i romani li avessero presi vivi. I ribelli bruciarono tutto, mentre il designato a togliere la vita agli altri (scelto tramite sorteggio) procedeva il suo triste lavoro.

«Eleazar avrebbe voluto proseguire con le sue parole d’incitamento, ma tutti lo interruppero impazienti di metterle in atto sotto la spinta d’un’ansia incontenibile; come invasati, se ne partirono cercando l’uno di precedere l’altro e reputando che si dava prova di coraggio e di saggezza a non farsi vedere tra gli ultimi: tanta era la smania che li aveva presi di uccidere le mogli, i figli e sé stessi. Né, come ci si sarebbe potuto attendere, si affievolì il loro ardore nel passare all’azione, ma conservarono saldo il proponimento maturato ascoltando quelle parole e, sebbene tutti serbassero vivi i loro  affetti domestici, aveva in loro il sopravvento la ragione, da cui sentivano di essere stati guidati a decidere per il meglio dei loro cari. Così, mentre carezzavano e stringevano al petto le mogli e sollevavano tra le braccia i figli baciandoli tra le lacrime per l’ultima volta, al tempo stesso, come servendosi di mani altrui, mandarono a effetto il loro disegno, consolandosi di doverli uccidere al pensiero dei tormenti che quelli avrebbero sofferto se fossero caduti in mano dei nemici. Alla fine nessuno di loro non si rivelò all’altezza di un’impresa così coraggiosa, ma tutti uccisero l’uno sull’altro i loro cari: vittime di un miserando destino, cui trucidare di propria mano la moglie e i figli apparve il minore dei mali! Poi, non riuscendo più a sopportare lo strazio per ciò che avevano fatto, e pensando di recar offesa a quei morti se ancora per poco fossero sopravvissuti, fecero in tutta fretta un sol mucchio dei loro averi e vi appiccarono il fuoco; quindi, estratti a sorte dieci fra loro col compito di uccidere tutti gli altri, si distesero ciascuno accanto ai corpi della moglie e dei figli e, abbracciandoli, porsero senza esitare la gola agli incaricati di quel triste ufficio. Costoro, dopo che li ebbero uccisi tutti senza deflettere dalla consegna, stabilirono di ricorrere al sorteggio anche fra loro: chi veniva designato doveva uccidere gli altri nove e per ultimo sé stesso; tanta era presso tutti la scambievole fiducia che fra loro non vi sarebbe stata alcuna differenza nel dare e nel ricevere la morte. Alla fine i nove porsero la gola al compagno che, rimasto unico superstite, diede prima uno sguardo tutt’intorno a quella distesa di corpi, per vedere se fra tanta strage fosse ancora rimasto qualcuno bisognoso della sua mano; poi, quando fu certo che tutti erano morti, appiccò un grande incendio alla reggia e, raccogliendo le forze che gli restavano, si conficcò la spada nel corpo fino all’elsa stramazzando accanto ai suoi familiari. Essi erano morti credendo di non lasciare ai romani nemmeno uno di loro vivo; invece una donna anziana e una seconda, che era parente di Eleazar e superava la maggior parte delle altre donne per senno ed educazione, si salvarono assieme a cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile mentre gli altri erano tutti intenti a consumare la strage: novecentosessanta furono le vittime, comprendendo nel numero anche le donne e i bambini, e la che, rimasto unico superstite, diede prima uno sguardo tutt’intorno a quella distesa di corpi, per vedere se fra tanta strage fosse ancora rimasto qualcuno bisognoso della sua mano; poi, quando fu certo che tutti erano morti, appiccò un grande incendio alla reggia e, raccogliendo le forze che gli restavano, si conficcò la spada nel corpo fino all’elsa stramazzando accanto ai suoi familiari. Essi erano morti credendo di non lasciare ai romani nemmeno uno di loro vivo;  invece una donna anziana e una seconda, che era parente di Eleazar e superava la maggior parte delle altre donne per senno ed educazione, si salvarono assieme a cinque bambini nascondendosi nei cunicoli sotterranei che trasportavano l’acqua potabile mentre gli altri erano tutti intenti a consumare la strage: novecentosessanta furono le vittime, comprendendo nel numero anche le donne e i bambini, e la data dell’eccidio fu il quindici del mese di Xanticho [marzo del 73]».

Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VII, 9, 1

Nella sinagoga è stato perfino trovato un frammento di coccio con scritto “ben Yai ‘r“, probabilmente usato per il conteggio nel sorteggio da parte del capo dei ribelli. I romani entrarono in città armati di tutto punto e pronti a una feroce battaglia, ma non trovarono nulla se non morti. Alla fine spuntarono fuori due donne e cinque bambini che si erano nascosti, unici sopravvissuti, che condussero i romani ai cadaveri.

«I romani, che s’aspettavano di dover ancora combattere, verso l’alba si approntarono e, gettate delle passerelle per poter avanzare dai terrapieni, si lanciarono all’attacco di #Masada. Non vedendo alcun nemico, ma dovunque una paurosa solitudine e poi dentro fiamme e silenzio, non riuscivano a capire che cosa fosse accaduto; alla fine levarono un grido, come quando si dà il segnale di tirar d’arco, per vedere se si faceva vivo qualcuno. Il grido fu udito dalle due donne che, risalite dal sottosuolo, spiegarono ai romani l’accaduto, e specialmente una riferì con precisione tutti i particolari sia del discorso sia dell’azione. Ma quelli non riuscivano a prestarle fede, increduli dinanzi a tanta forza d’animo; si adoperarono per domare l’incendio e, apertasi una via tra le fiamme, entrarono nella reggia. Quando furono di fronte alla distesa dei cadaveri, ciò che provarono non fu l’esultanza di aver annientato il nemico, ma l’ammirazione per il nobile proposito e per il disprezzo della morte con cui tanta moltitudine l’aveva messo in atto.»

Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, VII, 9, 2

I romani rispettarono il gesto degli assediati, tributando loro onori, tanto che i rinvenimenti archeologici lasciano supporre che i cadaveri furono seppelliti. Con la fine della rivolta venne istituito il fiscus iudaicus e il tributo fu trasferito al tempio di Giove, mentre fu vietata la ripresa del culto nel tempio.

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Masada: le implacabili legioni romane
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