Agrippina, abile manipolatrice, nel 49 d.C. sposò Claudio dopo l’eliminazione di Messalina e affidò il giovane Nerone a Seneca, mentre fu imposto il fidanzamento tra Nerone e Ottavia, figlia di Claudio. Poco dopo l’elevazione alla porpora di Nerone Agrippina si premurò di eliminare anche Britannico. Nerone a 17 anni era il più giovane imperatore romano ed era accerchiato da tre figure pesantissime: la madre Agrippina, Seneca e il prefetto al pretorio Burro. Da parte sua Nerone amava profondamente l’arte e la musica. Inizialmente il principato di Nerone è ricordato in modo entusiasta dai contemporanei: è il quinquennium Neronis, il quinquennio del buon principe, sullo stile augusteo, forse coadiuvato anche da Seneca.

Nerone allontanò Ottavia, che mal sopportava, per Poppea, di cui era innamorato. Lei sì sposò con Otone in un matrimonio di facciata (per ordine di Nerone), che diventerà imperatore dopo la morte di Nerone. Inizia ora il periodo “buio” di Nerone. Forse sotto l’influenza di Poppea cerca di far assassinare la madre simulando un incidente, ma questa si salva, e quindi è costretto a inviare dei soldati a farla fuori: Nerone voleva ingombrarsi dell’ombra pesante di Agrippina, che lo condizionava. Morta Agrippina, nel 62 d.C. Nerone ripudiò Ottavia accusandola di sterilità, per sposare Poppea. Infine la spinse al suicidio. Nello stesso anno morì Burro (forse avvelenato da Nerone) e fu sostituito da Tigellino, persona senza scrupoli nel macchiarsi di delitti. Divenne ricchissimo e potentissimo. Pompea morì forse attorno al 66 d.C. e Nerone sposò Statilia Messalina.

Un incendiario?

«Un po’ alla volta, però, i suoi vizi si accentuarono e abbandonò tali ribalderie e sotterfugi e, non badando più a non farsi scoprire, si diede apertamente ad eccessi peggiori. Protraeva i banchetti da mezzogiorno a mezzanotte e spesso si ristorava facendo il bagno in piscine con acqua calda oppure, d’estate, in acque in cui veniva sciolta della neve. Soleva anche talvolta cenare in pubblico, nel recinto della Naumachia o in Campo Marzio o nel Circo Massimo, facendosi servire dalle puttane di tutta la città e dalle suonatrici ambulanti. Ogni volta che navigava lungo il Tevere, per andare a Ostia, o costeggiava le rive di Baia, si allestivano lungo le rive o sulla spiaggia delle taverne come posto di ristoro, notoriamente luoghi di dissolutezza, e da qui le matrone, imitando nelle mosse le ostesse, lo invitavano ad approdare. Si faceva anche invitare dagli amici e ad uno di questi una cena mitellita 13 costò quattro milioni di sesterzi, a un altro, un banchetto di rose costò ancor di più. 28. Non solo faceva sesso con ragazzi liberi e donne sposate, ma violentò anche Rubria, una vergine Vestale e fu quasi sul punto di sposare Atte, una liberta: aveva persino corrotto alcuni consolari perché giurassero che era di famiglia regale. Fece recidere i testicoli al giovane Sporo, cercando anche di fargli cambiare sesso, se lo fece portare con la dote e il velo rosso, con una cerimonia fastosa, come nei riti nuziali solenni, e lo tenne presso di sé come una moglie. E si cita ancora la battuta arguta di un tale che disse a riguardo che «sarebbe stato un bene per l’umanità se anche suo padre Domizio avesse avuto una moglie siffatta». Questo Sporo, vestito con abbigliamento da imperatrice, se lo portava con sé in lettiga, baciandoselo di tanto in tanto, sia in Grecia, per tutte le adunate e le fiere, sia a Roma, per i Sigillari 14. Che abbia desiderato unirsi anche con sua madre e che sia stato dissuaso dai nemici di Agrippina, i quali temevano che la donna, già così fiera e prepotente, dopo un simile trattamento di favore, avrebbe preso il sopravvento, nessuno lo mise in dubbio, soprattutto dopo che prese tra le sue concubine una prostituta nota per la sua somiglianza con Agrippina. Dicono anche che tutte le volte che andava in giro in lettiga con la madre, si eccitava di desiderio incestuoso e questo era evidente dalle macchie della sua veste.»

svetonio, nerone, 27-28

Quando scoppiò l’incendio di Roma, nel luglio del 64 d.C. Nerone si trovava ad AnzioIl mito ha voluto che fosse lui l’incendiario, ma in realtà probabilmente l’imperatore non aveva alcuna colpa. L’incendio, come narrato dallo stesso Tacito (che di sicuro non era favorevole a Nerone), scaturì probabilmente dal Circo Massimo. Nerone probabilmente fu innocente. Ma fu costretto a dirottare la colpa sui cristiani, una fervente setta ebraica ai suoi occhi, per smentire le dicerie che già circolavano secondo cui era lui l’incendiario.

« Perciò, per far cessare tale diceria, Nerone si inventò dei colpevoli e sottomise a pene raffinatissime coloro che la plebaglia, detestandoli a causa delle loro nefandezze, denominava cristiani. Origine di questo nome era Cristo, il quale sotto l’impero di Tiberio era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato; e, momentaneamente sopita, questa esiziale superstizione di nuovo si diffondeva, non solo per la Giudea, focolare di quel morbo, ma anche a Roma, dove da ogni parte confluisce e viene tenuto in onore tutto ciò che vi è di turpe e di vergognoso. Perciò, da principio vennero arrestati coloro che confessavano, quindi, dietro denuncia di questi, fu condannata una ingente moltitudine, non tanto per l’accusa dell’incendio, quanto per odio del genere umano. Inoltre, a quelli che andavano a morire si aggiungevano beffe: coperti di pelli ferine, perivano dilaniati dai cani, o venivano crocifissi oppure arsi vivi in guisa di torce, per servire da illuminazione notturna al calare della notte. Nerone aveva offerto i suoi giardini e celebrava giochi circensi, mescolato alla plebe in veste d’auriga o ritto sul cocchio. Perciò, benché si trattasse di rei, meritevoli di pene severissime, nasceva un senso di pietà, in quanto venivano uccisi non per il bene comune, ma per la ferocia di un solo uomo »

TACITO, ANNALES, XV, 44

Circolava infatti la voce, già durante l’incendio che ad appiccarlo fosse stato Nerone stesso. Infatti oltre alle 7 coorti di vigili in azione (che spesso non potevano fare altro che abbattere gli edifici in fiamme prima che le fiamme si propagassero a quelli adiacenti) molti avevano visto agenti di Nerone in giro per la città impedire alla gente di rientrare nelle case o appiccare incendi in case non ancora coinvolte.Inoltre il fuoco era ripreso dopo che si era estinto e Roma aveva continuato a bruciare ancora per giorni. Alcuni credevano che fosse stato Nerone proprio per questo; tuttavia l’azione di queste persone era volta a creare con ogni probabilità zone cuscinetto per evitare ulteriori propagazioni delle fiamme. Sarebbe strano pensare che mentre avveniva questo e le persone erano convinte della sua colpevolezza Nerone si aggirasse per Roma cercando di portare aiuto. E sarebbe ancora più strano pensare che andò in fiamme la domus transitoria in cui erano custodite moltissime e preziosissime opere d’arte che Nerone adorava; sarebbe stato più logico, se fosse stato il mandante dell’incendio, restare al sicuro a Anzio (dove si trovava) e spostare le opere d’arte.

«Tuttavia gli sperperi maggiori li fece nelle opere di costruzione. Si fece costruire una casa che si estendeva dal Palatino all’Esquilino che chiamò dapprima transitoria e poi, quando la fece ricostruire, perché era stata distrutta da un incendio, aurea. Della sua grandezza e magnificenza basterà dire questo: c’era un atrio in cui era stata eretta una statua colossale di Nerone alta centoventi piedi. Tale era l’ampiezza, che all’interno aveva porticati a tre ordini di colonne, lunghi un miglio; c’era anche un lago artificiale che sembrava un mare, circondato da edifici che formavano come delle città. Inoltre, all’interno c’erano campi, vigne, pascoli, boschi con svariati animali, selvatici e domestici, d’ogni genere. Nelle altre parti, ogni cosa era rivestita d’oro e ornata di gemme e madreperla. Il soffitto delle sale da pranzo era di lastre d’avorio mobili e forate, perché vi si potessero far piovere dall’alto fiori ed essenze. La sala principale era circolare e ruotava su se stessa tutto il giorno e la notte, senza mai fermarsi, come la terra. Nelle sale da bagno scorrevano acque marine e albule. Quando Nerone inaugurò questa casa, alla fine dei lavori, espresse il suo compiacimento, dicendo che «finalmente poteva cominciare ad abitare in modo degno di un uomo».»

svetonio, nerone, 31

Infine, un anno dopo, si scoprì una congiura, la cosiddetta congiura dei Pisoni. Si progettava di uccidere Nerone, ma i congiurati vennero scoperti.Uno dei complici, Subrio Flavo, tribuno della guardia pretoriana, fu interrogato e conosciamo le parole grazie a Tacito. Disse a Nerone che lo aveva cominciato a odiare da quando era diventato l’assassino della madre, della moglie, un auriga, un attore e un incendiario. Subrio Flavo era stato accanto a Nerone durante l’incendio. L’imperatore aveva certamente fatto assassinare la madre e la moglie, e amava quelle che i romani definivano “mollezze” da greco; era forse un pazzo, ma non uno stupido. Una persona che non si era fatto scrupoli a far uccidere la moglie e la madre non si capisce per quale motivo non avrebbe eliminato un testimone del genere e gli avrebbe permesso di parlare liberamente in tribunale.

L’artista

«Poi, a seguito di denuncia degli stessi, fu travolto nella tempesta il tribuno Subrio Flavo; sulle prime, egli addusse a propria difesa la disparità dei costumi, affermando che lui, uomo d’armi, mai si sarebbe associato per un delitto di quella gravità con uomini inermi ed effemminati. Poi, incalzato dagli interrogatori, optò per l’onore della confessione. Quando Nerone gli domandò quali motivi l’avessero indotto a dimenticare il giuramento militare: «Ti odiavo» rispose. «Nessuno dei tuoi soldati ti fu più fedele di me fino a che meritasti d’essere amato; cominciai a odiarti quando ti sei mostrato assassino della madre e della moglie, auriga e istrione e incendiario». Ho riferito testualmente queste parole perché non sono note come quelle di Seneca, ma non meno degne d’esser conosciute, in quanto furono l’espressione del sentire rude e schietto d’un uomo d’armi. Nulla ferì di più Nerone durante tutta la congiura, poiché, pronto com’era a compiere delitti, non era abituato però a sentirselo dire.»

TACITO, ANNALES, XV, 67

Non solo Nerone si trovava a dover affrontare la congiura dei Pisoni, ma celebrava anche i giochi contro i cristiani, partecipando nella veste di auriga:

«Nerone aveva offerto i suoi giardini per questo spettacolo e celebrava giochi nel circo, mischiandosi alla plebe in veste di auriga e, in piedi sul carro, prendeva parte alle corse. Benché si trattasse di rei, meritevoli di pene d’un’atrocità senza precedenti, sorgeva nel popolo la pietà per quegli sventurati poiché venivano uccisi non per il bene di tutti ma per la crudeltà di uno solo.»

TACITO, ANNALES, XV, 44

L’amore di Nerone per l’arte e i giochi greci era viscerale, tanto da prendere parte perfino alle prove ginniche, a numerose prove di canto, teatro e scendere nel circo come auriga. Tutto ciò non era particolarmente amato dai romani, ben più avvezzi alla guerra:

«Quando un tale, durante una conversazione, citò il verso: Quando sarò morto, bruci pure nel fuoco tutto il mondo! Nerone esclamò: «Al contrario, mentre sono vivo!». E così appunto fece. Infatti, quasi non sopportasse la bruttezza delle case vecchie e i vicoli stretti e tortuosi, fece incendiare Roma, in modo così palese che molti uomini di rango consolare non osarono fermare i loro camerieri sorpresi nelle loro proprietà con stoppa e torce. Alcuni depositi di grano, vicini alla Domus Aurea, dei quali egli desiderava fortemente possedere l’area, furono demoliti con macchine da guerra e poi dati alle fiamme, poiché erano costruiti in pietra. Per sei giorni e sei notti imperversò quel flagello e la plebe fu costretta a cercare asilo all’interno dei monumenti e dei sepolcreti. Allora, oltre un’enorme quantità di caseggiati, arsero nelle fiamme palazzi di antichi comandanti ancora decorati con le spoglie dei nemici e templi edificati per voto e dedicati agli dèi, fin dal tempo dei re e poi durante le guerre puniche e galliche e tutto ciò che di memorabile e insigne era rimasto dai tempi antichi. Contemplando lo spettacolo dell’incendio dall’alto della torre di Mecenate, compiaciuto, come egli stesso diceva, «per la bellezza delle fiamme», cantò La distruzione di Troia, indossando il suo abito di scena. E, per non perdere neanche quest’occasione di arraffare bottini e prede il più possibile, promettendo di provvedere a far rimuovere a sue spese i cadaveri e le macerie, non consentì ad alcuno di avvicinarsi a quanto rimaneva dei propri beni.»

«Indisse moltissimi spettacoli di svariato genere: ludi giovanili, circensi, teatrali, combattimenti gladiatori. Ammise ai ludi giovanili anche vecchi ex consoli e anziane matrone. Ai giochi circensi assegnò posti riservati anche ai cavalieri e fece gareggiare anche quadrighe trainate da cammelli. Durante i giochi indetti per propiziare l’eternità dell’Impero, e per questo detti, per suo volere, «Massimi», recitarono le parti degli attori persone di entrambi i ranghi e di entrambi i sessi. Un famosissimo cavaliere romano a dorso d’elefante attraversò il circo sulla fune. Dopo la rappresentazione della commedia togata di Afranio, L’incendio, fu consentito agli attori di saccheggiare e accaparrarsi le suppellettili della casa che veniva incendiata sulla scena. Ogni giorno venivano distribuite al popolo offerte d’ogni genere: ogni giorno uccelli, mille per ogni specie, per lo più commestibili, tessere frumentarie, vesti, oro, argento, pietre preziose, perle, quadri, schiavi, giumenti e ancora, animali domestici, da ultimo, navi, isole, poderi. Assisteva ai giochi dall’alto del proscenio. Nei giochi gladiatori che diede in un anfiteatro di legno costruito in un anno nel Campo Marzio, non fece morire nessuno, neanche quelli condannati. Invece fece partecipare al combattimento in armi anche quattrocento senatori e seicento cavalieri romani, alcuni di questi godevano di fama integerrima e di una buona posizione e proprio tra questi scelse anche i domatori di bestie feroci e i vari addetti all’arena. Offrì anche una naumachìa, in acque marine in cui nuotavano animali pericolosi e danze pirriche eseguite da alcuni efebi ai quali, dopo lo spettacolo, distribuì i diplomi di cittadinanza romana. Tra gli episodi rappresentati nelle pirriche, un toro montò una Pasife celata in una statua di legno a forma di vacca, così credettero almeno molti spettatori e un Icaro, al primo tentativo di librarsi in volo, si era schiantato accanto al palco di Nerone, spruzzandolo del suo sangue. Egli assai raramente presiedeva agli spettacoli, di solito vi assisteva standosene sdraiato, e soleva guardare prima da dietro una grata, poi, fatto aprire interamente il podio, da lassù. Istituì inoltre per primo a Roma dei giochi quinquennali, composti da tre tipi di gara, come in Grecia: di musica, ginnastica ed equitazione e li chiamò I Neroniani e dopo aver inaugurato le terme e una palestra, fece distribuire gratuitamente l’olio 8 anche ai senatori e ai cavalieri. Affidò l’incarico di presiedere a questi giochi ad ex consoli, estratti a sorte, anziché ai pretori. Poi scese nell’orchestra, tra i senatori, e ricevette la corona di eloquenza e di poesia latina, che si erano contesa i più ragguardevoli cittadini e che gli era stata assegnata col loro consenso. Fece poi atto di adorazione di fronte alla corona per l’esibizione con la cetra che gli era stata conferita dai giudici e ordinò di porla sulla statua di Augusto. Nel corso della gara ginnica offerta nel recinto del Campo Marzio, durante l’allestimento di un’ecatombe, si fece radere la barba per la prima volta e la depose in una pisside d’oro, incastonata di perle rarissime e la consacrò al Campidoglio. Invitò anche le vergini Vestali allo spettacolo di atletica, poiché ad Olimpia è concesso assistere ai giochi alle sacerdotesse di Cerere. Tra gli spettacoli da lui indetti, citerò a buon titolo l’ingresso in Roma di Tiridate, re di Armenia, da lui invitato con grandi promesse. Non avendo potuto presentarlo al popolo nel giorno che era stato prefissato con un editto, a causa del tempo nuvoloso, lo fece appena si presentò il momento più opportuno. Fece allora disporre coorti armate intorno ai templi del Foro e si sedette presso i Rostri, nella sedia curule, tra le insegne militari e i vessilli, con l’abito trionfale. Prima lo fece salire lungo un piano inclinato al suo palco, ove lo accolse mentre quello si genufletteva presso le sue ginocchia e lo baciò, dopo avergli porto la sua destra perché si sollevasse, poi, in risposta alle preghiere del re, gli tolse la tiara e gli pose in capo un diadema, mentre un uomo di rango pretorio traduceva alla folla le sue suppliche. Infine, lo condusse in teatro e, di nuovo accettando la sua preghiera, lo fece sedere alla sua destra. Salutato «imperatore» per questo, portò una corona d’alloro in Campidoglio e fece chiudere il tempio di Giano bifronte, a voler significare che non v’era più alcuna guerra.»

«Durante la sua infanzia, tra le altre discipline, apprese anche l’arte musicale. Appena salì al potere, chiamò immediatamente a corte Terpno, il più famoso citaredo di quel tempo e per svariati giorni di seguito, dopo cena, sedette accanto a lui mentre cantava, fino a notte inoltrata. A poco a poco, cominciò anche a comporre e ad esercitarsi e non tralasciò alcuna delle cure che gli artisti usano di solito per preservare o rinforzare la voce: stare sdraiato supino, con una lastra di piombo sul petto, depurarsi con clisteri ed emetici e astenersi da frutti e cibi nocivi. Finché, invogliato dai progressi fatti, nutrì il desiderio di prodursi in scena, e ripeteva spesso agli amici quel proverbio greco: «Non c’è alcuna considerazione per la musica tenuta nascosta». Si esibì per la prima volta a Napoli e, nonostante il teatro avesse subito una scossa di terremoto, non smise di cantare prima di aver finito il pezzo che aveva incominciato. Cantò più volte, per parecchi giorni in quello stesso teatro. Una volta, anzi, poiché aveva fatto una pausa, per rinfrancare la voce, non sopportando di stare in disparte, dal bagno tornò nel teatro e qui, dopo aver banchettato in mezzo all’orchestra, in presenza della folla numerosa, promise, parlando in greco, che «avrebbe fatto sentire qualcosa di bello, dopo aver bevuto un po’». Allettato poi dalle lodi composte in musica da alcuni alessandrini, giunti da poco in licenza a Napoli, ne fece venire altri da Alessandria e scelse da ogni parte con eguale premura ragazzi di rango equestre e oltre cinquemila giovani plebei assai robusti, che, divisi in squadre, avendo imparato vari tipi di applausi (denominati in modo vario bombi, émbrici e cocci), lo sostenessero quando cantava: tutti erano riconoscibili per la folta capigliatura, per l’abbigliamento assai elegante e l’anello alla mano sinistra. I loro capi guadagnavano uno stipendio di quattrocentomila sesterzi. Poiché ci teneva molto a cantare anche a Roma, fece ripetere, prima del tempo prestabilito, il certame neroniano e quando tutti richiesero insistentemente di sentire la sua voce divina, rispose che «avrebbe cantato, per chi voleva ascoltarlo, nei suoi giardini». Ma, poiché anche i soldati della guardia si erano uniti alle richieste della folla, promise ben volentieri di esibirsi immediatamente e, senza alcun indugio, ordinò di includere il suo nome nell’elenco dei citaredi iscritti alle gare, infilò anch’egli la sua scheda nell’urna come gli altri ed entrò a sua volta con i prefetti del pretorio che portavano la sua cetra, i tribuni militari al suo seguito e accanto gli amici più intimi. Come prese posto, alla fine del preludio fece annunciare al consolare Cluvio Rufo che avrebbe cantato la Niobe e continuò fino alle quattro del pomeriggio circa. Rinviò la attribuzione della corona e il resto di quella gara all’anno successivo, per avere la possibilità di cantare più spesso ma poi, sembrandogli anche quella possibilità troppo lontana, non mancò di esibirsi in pubblico ogni tanto. Fu tentato persino di prestare la propria opera nell’allestimento d’uno spettacolo privato, insieme agli attori, quando un pretore gli offrì un milione di sesterzi. Cantò anche parti di tragedie, impersonando eroi o dei ma anche eroine o dee, indossando maschere che riproducevano, nel primo caso, le sue fattezze, nel secondo, quelle della donna di cui in quel momento fosse invaghito. Tra le altre tragedie cantò Canace partoriente, Oreste matricida, Ercole furente. Si racconta che, proprio in quest’ultima tragedia, una giovane recluta, che faceva la guardia all’ingresso, vedendo che preparavano al sacrificio Nerone e lo incatenavano, come richiedeva la parte, accorse in suo aiuto. Fin da piccolo fu assai appassionato di cavalli e, sebbene gli fosse proibito, il suo argomento preferito era quello dei giochi del circo. Una volta, mentre tra i suoi compagni di scuola lamentava la sorte di un auriga della squadra dei Verdi che era stato trascinato dai cavalli, rimproverato dal maestro, mentendo disse che stava parlando di Ettore. Ma, già fin dall’inizio del suo impero, quando ancora giocava ogni giorno con delle quadrighe d’avorio sopra un tavoliere, si allontanava dalle sue stanze per recarsi a tutti gli spettacoli del Circo, anche quelli di poco conto, prima di nascosto, poi palesemente, sì che nessuno poteva dubitare della sua presenza nel giorno in cui c’erano gare. E non nascondeva il suo proposito di incrementare il numero dei premi e quindi far durare di più lo spettacolo che di conseguenza, per il moltiplicarsi delle gare, si sarebbe protratto fino a tardi. I capitani delle squadre non accettavano più di far concorrere i propri gruppi se non a patto che corressero per l’intera giornata. In seguito, volle guidare egli stesso i carri ed esibirsi direttamente. Quindi smise di esercitarsi nei suoi giardini in presenza dei servi e della plebaglia e si esibì davanti a tutti nel Circo Massimo e dava il via un liberto, dal palco donde di solito erano i magistrati a farlo. E non si contentò di dar prova di tali arti a Roma ma si recò anche in Grecia, come ho già detto, spinto soprattutto dal fatto che le città in cui solitamente si fanno concorsi musicali avevano decretato di inviare a lui tutte le corone vinte dai citaredi e Nerone le accettava con tale gioia, che, non soltanto riceveva coloro che gliele portavano, dando loro la precedenza, ma li invitava anche a pranzare con lui privatamente. Alcuni di questi, dopo una di queste cene, lo pregarono di cantare e lo subissarono di applausi. Allora Nerone disse che «solo i greci sapevano ascoltare e solo loro erano degni del suo talento». A questo punto non volle differire oltre la sua partenza e, appena giunse a Cassiope, subito debuttò presso l’altare di Giove Cassio e da quel momento partecipò ad ogni gara musicale. Ordinò infatti di riunire in un solo anno tutte le gare che di solito si svolgono in tempi diversi, facendone persino ripetere alcune e anche ad Olimpia, contro la tradizione, fece indire un concorso musicale. E, affinché nulla avesse a distoglierlo o a farlo allontanare, mentre era impegnato in queste gare, al liberto Elio, che lo richiamava a Roma, perché la sua presenza era necessaria per alcune questioni di Stato, rispose in questi termini: «Sebbene tu mi esorti a ritornare con urgenza e questo desideri, dovresti piuttosto desiderare che io torni degno di Nerone, e a questo esortarmi». Mentre cantava non era consentito allontanarsi dal teatro neanche per gravi necessità. E si racconta che per questo motivo alcune donne partorirono durante lo spettacolo e molti, stanchi di dovere ascoltare e applaudire, essendo chiuse le porte della città, saltarono di nascosto giù dalle mura o si fecero portare fuori fingendosi morti. D’altronde si stenta a credere con quale trepidazione e ansia gareggiasse e con quale spirito di emulazione nei confronti degli altri concorrenti, con quale timore dei giudici. Di solito spiava gli avversari, cercava di coglierli in fallo, ne parlava male, in privato, come se fossero suoi pari, e talvolta, quando li incontrava, li copriva di insulti; quando poi li riteneva più bravi di lui, di solito cercava di corromperli. Prima dell’inizio delle gare si rivolgeva ai giudici con la massima deferenza, dicendo che «egli aveva fatto tutto ciò che doveva ma il successo era nelle mani della Fortuna e che essi, saggi ed esperti quali erano, non avrebbero dovuto tener conto di eventuali incidenti fortuiti». Quando poi i giudici lo esortavano a non aver timore, si ritirava con animo più sereno, pur mantenendo una certa apprensione e interpretando l’eventuale silenzio o riserbo di alcuni giudici come malanimo ed ostilità nei suoi confronti e dicendo che non si fidava di loro. Durante le gare rispettava a tal punto il regolamento che non osava mai sputare o asciugarsi il sudore della fronte col braccio. Una volta, mentre recitava una scena in una tragedia, pur avendo riafferrato immediatamente lo scettro che gli era sfuggito di mano, temendo di essere eliminato dalla gara di recitazione per questo errore, si rinfrancò solo quando il pantomimo gli giurò che nessuno se n’era accorto in mezzo alle clamorose acclamazioni del pubblico. Si autoproclamava vincitore e per questo aspirò dovunque all’incarico di banditore. Ordinò di abbattere e trascinare con gli arpioni nelle latrine tutte le statue che ricordavano altri vincitori, affinché non ne rimanesse traccia o memoria. In molte gare guidò anche il cocchio e nei giochi olimpici ne guidò anche uno a dieci cavalli, nonostante che egli stesso in un suo componimento avesse biasimato Mitridate proprio per questo. Fu sbalzato dal carro però e, sebbene fosse riuscito a rimontarvi, non essendo in grado di resistere, non portò a termine la corsa. Tuttavia ottenne egualmente la corona. Quindi, al momento della partenza, concesse la libertà a tutta la provincia e ai suoi giudici di gara donò la cittadinanza romana e molto denaro. Proclamò tali concessioni di persona, in mezzo allo stadio, nel giorno dei Giochi Istmici. Tornato a Napoli dalla Grecia, poiché qui si era esibito per la prima volta in quest’arte, vi entrò con i cavalli bianchi, dopo aver fatto aprire una breccia nelle mura, come si usa con i vincitori dei giochi sacri. Analogamente fece il suo ingresso ad Anzio, ad Albano e infine a Roma. A Roma però entrò sul carro trionfale di Augusto, vestito di porpora, con una clamide trapunta di stelle d’oro, la corona olimpica in testa e quella pitica in mano, mentre sfilavano in processione davanti a lui le altre corone, contrassegnate da insegne che indicavano in quali luoghi le avesse vinte, contro quali concorrenti e per quali canti o drammi mentre il suo carro era seguito da quelli che plaudivano a lui, come si usa durante le ovazioni, proclamando a gran voce di «essere i suoi Augustiani, soldati del suo trionfo». Quindi, avendo fatto demolire un arco del Circo Massimo, attraversò il Velabro e il Foro e giunse sul Palatino e al tempio di Apollo. Al suo incedere, venivano immolate dovunque vittime e lungo le vie la folla spargeva croco e offriva uccelli, nastri e dolciumi. Nerone appese le corone sacre nelle sue stanze, intorno ai letti e vi pose anche delle statue che lo raffiguravano in abiti da citaredo e coniò persino una moneta con tale effigie. In seguito, ben lontano dal cessare o dal moderare tale passione, per risparmiare la voce, non fece più proclami all’esercito se non stando lontano e facendoli pronunciare ad altri e non trattò più alcuna causa, sul serio o per gioco, se non in presenza del suo maestro di canto che gli ricordava «di risparmiare i polmoni e di mettersi un fazzoletto davanti alla bocca». A molti offrì la sua amicizia o dichiarò la sua ostilità a seconda che lo avessero lodato assai o troppo poco.»

svetonio, nerone, 38; 11-13; 20-25

Il governo di Nerone si inasprì, finché – dopo la ribellione di Gaio Giulio Vindice, governatore della Gallia Lugdunense – ordinò a Galba, governatore della Spagna, di suicidarsi. Tuttavia le sue legioni lo acclamarono imperatore e marciò su Roma, col sostegno del senato, mentre ovunque avvenivano atti di ribellione nei confronti dell’imperatore. Si ribellò la legio III Augusta, in Africa, bloccando il rifornimento di grano e anche i pretoriani abbandonarono l’imperatore. Infine anche il senato dichiarò hostis publicus (nemico pubblico) Nerone, che fu costretto a fuggire, avendo perso l’appoggio di chiunque.Infine l’imperatore si suicidò con l’aiuto di un liberto, Epafrodito, sapendo che se fosse stato catturato vivo sarebbe stato trucidato. Svetonio narra che morendo Nerone pronunciò la frase: “quale artista muore con me!”. Il senato ne decretò la damnatio memoriae: furono distrutti tutti i documenti e i riferimenti a Nerone. Fu permesso comunque un funerale privato e le sue ceneri furono deposte nel sepolcro di famiglia, quello dei Domizi, sul Pincio.

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Nerone: il principe artista
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