Nel 390 o 388 a.C. Brenno, a capo dei galli senoni, assediò Chiusi, città etrusca, che chiese aiuto a Roma. L’Urbe inviò tre ambasciatori della gens Fabia a trattare con Brenno, ma uno dei tre uccise uno dei capi gallici, stando a Tito Livio (Ab Urbe Condita, V, 36, 5-8):

“Domandando i Romani in nome di quale diritto richiedessero delle terre ai legittimi possessori e minacciassero la guerra, e che cosa avessero da fare i Galli in Etruria, avendo quelli risposto superbamente che essi riponevano il diritto nelle armi, e che tutto apparteneva agli uomini forti, riscaldatisi gli animi da ambo le parti si corse alle armi ed ebbe inizio la lotta. Allora, incombendo già il destino fatale sulla città di Roma, gli ambasciatori contravvenendo al diritto delle genti presero le armi; né poté rimaner celato il fatto che combattevano nelle prime file degli Etruschi tre giovani romani nobilissimi e valorosissimi, tanto rifulgeva il valore degli stranieri. Anzi Quinto Fabio, slanciatosi a cavallo fuori delle file, trafiggendolo nel fianco coll’asta uccise il condottiero dei Galli, che baldanzosamente si avventava contro le stesse insegne degli Etruschi; mentre ne raccoglieva le spoglie i Galli lo riconobbero, e per tutto l’esercito fu diffusa la voce che quello era un ambasciatore romano. Quindi deposta l’ira contro i Chiusini, i Galli suonarono la ritirata proferendo minacce contro i Romani. Alcuni erano del parere di marciare sùbito contro Roma, ma prevalse il consiglio dei più anziani, di mandare prima ambasciatori a protestare per l’offesa ed a chiedere che i Fabi fossero consegnati per aver violato il diritto delle genti.”

I galli, infuriati, marciarono contro i romani, che sconfissero sonoramente. La responsabilità della sconfitta, avvenuta al fiume Allia, a undici miglia da Roma, è da attribuirsi alle pressioni della plebe, che non solo si rifiutava di condannare i Fabii violatori del diritto delle genti e responsabili del casus belii, ma addirittura li aveva eletti come loro tribuni militari per affrontare i senoni.

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Assedio e redenzione

La fuga sarebbe stata talmente precipitosa che non vennero neanche richiuse le porte di Roma dietro ai fuggitivi, dando la possibilità ai galli di prendere subito l’Urbe, con la sola eccezione del Campidoglio. I più anziani, tra cui alcuni senatori, restarono in città, facendosi massacrare mentre sedevano sulle sedie curuli dei magistrati:

“… la situazione e lo spettacolo erano dei più miserandi, e soprattutto poi il pianto delle donne, e il loro affannoso accorrere ora dietro questi ora dietro quelli, domandando ai mariti e ai figli a quale sorte le abbandonassero, nulla lasciava mancare al quadro della sventura umana. Tuttavia gran parte delle donne seguì sulla rocca i suoi, senza che alcuno le impedisse o le chiamasse, poiché la decisione che sarebbe stata più utile per gli assediati, al fine di diminuire la popolazione inerme, pareva cosa disumana. Il resto della popolazione, soprattutto plebei, che un colle così ristretto non poteva contenere né nutrire, con tanta penuria di viveri, fuggita dalla città quasi in un’unica schiera si avviò verso il Gianicolo; di qui in parte si disperse per i campi, in parte si diresse verso le città vicine, senza un capo e senza un accordo, ciascuno seguendo le proprie speranze e i propri disegni, poiché disperavano ormai della sorte comune.”

“… per quanto era possibile in una tale situazione, la turba dei vecchi rientrata nelle case attendeva l’arrivo dei nemici con animo risoluto alla morte. Coloro che fra essi avevano ricoperto magistrature curuli, volendo morire con le insegne della fortuna antica e degli onori o della virtù, rivestiti della veste più augusta, quella che solevano indossare guidando i carri sacri nei giochi o durante il trionfo, si posero a sedere nel mezzo delle loro case sui seggi d’avorio. Alcuni tramandano che recitando una sacra formula dettata dal pontefice massimo Marco Folio offrirono in voto agli dèi la loro vita per la patria e per cittadini romani.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 40, 3-6; V, 41, 1-3

I galli avrebbero probabilmente preso anche l’ultima roccaforte se non fossero accorse in aiuto ai romani le oche del Campidoglio, che avvertirono del tentativo di assalto nemico durante la notte:

“Li sentirono però le oche sacre a Giunone, che erano state risparmiate pur nella grande penuria di cibo. Questo fatto salvò i Romani; infatti destato dai loro schiamazzi e dallo sbattere delle ali Marco Manlio, che tre anni prima era stato console, uomo valoroso in guerra, afferrate le armi e insieme chiamando alle armi i compagni si fece avanti, e mentre gli altri erano presi dalla trepidazione, gettò giù urtandolo con lo scudo un Gallo che già aveva raggiunta la sommità. Questi precipitando avendo trascinato in basso i più vicini, Manlio ne uccise altri che impauriti avevano gettate via le armi e si erano aggrappati con le mani alle rocce a cui aderivano. Sùbito anche gli altri Romani accorsi si diedero a ricacciare i nemici con dardi e con sassi, e tutta la schiera dei Galli precipitando rovinosamente fu respinta al fondo”.

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 47

La fame tuttavia attanagliava ormai sia i romani che i galli; quest’ultimi decisero di intavolare delle trattative per togliere l’assedio, e i romani acconsentirono a versare un tributo di mille libbre d’oro. Ma pare che i galli portarono dei pesi falsi; i romani se ne accorsero, al che il capo gallico avrebbe anche aggiunto la sua spada alla bilancia e esclamato: “vae victis“. “Guai ai vinti”:

“Allora si riunì il senato, il quale diede incarico ai tribuni militari di patteggiare le condizioni. Le trattative si conclusero in un colloquio fra il tribuno militare Quinto Sulpicio e il capo dei Galli Brenno: a mille libbre d’oro fu fissato il prezzo del popolo che ben presto avrebbe dominato su tutte le genti. Alla cosa già in se stessa vergognosissima si aggiunse un iniquo oltraggio: i Galli portarono dei pesi falsi, e alle proteste del tribuno il Gallo insolente aggiunse sulla bilancia la spada, pronunziando una frase intollerabile per i Romani: «Guai ai vinti».”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 48, 8-9

Ma proprio in quel momento sarebbe arrivato Marco Furio Camillo, nominato dittatore mentre si trovava ad Ardea (dove si era ritirato nel 391 in esilio volontario forse per motivi legati alla spartizione del bottino di Veio), che avrebbe bloccato lo scambio, pronunciando un’altra frase celebre: “non auro sed ferro patria recuperanda est” (“non con l’oro, ma col ferro si deve salvare la patria”):

“All’unanimità si deliberò di richiamare Camillo da Ardea, ma non senza prima aver consultato il senato, che era in Roma: a tal punto imperava il rispetto delle leggi, e anche in quella situazione quasi disperata osservavano la distinzione dei poteri. Bisognava passare con grande rischio in mezzo alle sentinelle nemiche; per questa impresa si offerse Ponzio Cominio, giovane animoso, il quale disteso sopra un sughero si lasciò trasportare dalla corrente del Tevere verso Roma. Quindi, nel punto dove il cammino dalla riva era più breve, salì sul Campidoglio per rupi scoscese, trascurate perciò dalla vigilanza dei nemici, e condotto davanti ai magistrati espose la missione affidatagli dall’esercito. Ricevuto il decreto del senato, il quale ordinava che richiamato dall’esilio per ordine del popolo Camillo fosse proclamato sùbito dittatore nei comizi curiati, e che i soldati avessero il comandante che preferivano, il messaggero uscito per la stessa via ritornò a Veio, e di qui fu mandata ad Ardea presso Camillo un’ambasceria che lo condusse a Veio, oppure, secondo un’altra versione che io preferisco seguire, egli non si mosse da Ardea prima di aver appreso che era stata approvata la legge, poiché né poteva mutare territorio senza ordine del popolo, né poteva avere gli auspici nell’esercito senza la nomina a dittatore: fu approvata la legge nei comizi curiati e fu nominato dittatore in sua assenza.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 46, 7-11

“Ma gli dèi e gli uomini non vollero che i Romani sopravvivessero riscattati. Infatti la sorte volle che prima che fosse compiuto il vergognoso mercato, mentre ancora si discuteva, non essendo stato pesato tutto l’oro, sopraggiungesse il dittatore: sùbito ordinò che fosse tolto di mezzo l’oro e che i Galli fossero allontanati. Poiché quelli si rifiutavano dicendo che il patto era già stato concluso, egli negò che fosse valido quell’accordo stretto senza sua autorizzazione da un magistrato inferiore in grado, dopo che egli già era stato nominato dittatore, ed intimò ai Galli di prepararsi a combattere. Diede ordine ai suoi di deporre i bagagli, di preparare le armi e di riconquistare la patria col ferro, non con l’oro, avendo davanti agli occhi i templi degli dèi, le mogli, i figli, il suolo della patria deturpato dai mali della guerra, e tutte le cose che era sacro dovere difendere e riprendere e vendicare. Schierò poi l’esercito come lo permetteva la natura del luogo, sul suolo della città semidistrutta, e già di sua natura accidentato, e prese tutte quelle misure che l’arte militare poteva escogitare e preparare per avvantaggiare i suoi. I Galli sorpresi dal repentino mutamento della situazione prendono le armi, e si gettano contro i Romani più con ira che con prudenza. Già la fortuna era cambiata, già la protezione degli dèi e l’intelligenza umana appoggiavano le sorti dei Romani; quindi al primo scontro i Galli furono disfatti con la stessa facilità con cui avevano vinto presso l’Allia. Furono poi vinti, sempre sotto la guida e gli auspici di Camillo, in una seconda battaglia più regolare, a otto miglia da Roma sulla via di Gabi, dove si erano raccolti dopo la fuga. Qui la strage fu generale: furono presi gli accampamenti, e non sopravvisse neppure uno che potesse recare la notizia della disfatta. Il dittatore ritolta la patria ai nemici tornò trionfando in città, e fra i rozzi canti scherzosi, che i soldati sogliono improvvisare in tali occasioni, fu chiamato Romolo, padre della patria e secondo fondatore di Roma, con lodi non immeritate. Dopo aver salvata la patria in guerra la salvò poi sicuramente una seconda volta in pace, quando impedì che si emigrasse a Veio, mentre i tribuni avevano ripreso con maggior accanimento la loro proposta dopo l’incendio della città, ed anche la plebe era di per sé più incline a quell’idea. Questa fu la causa per cui non abdicò alla dittatura dopo il trionfo, poiché il senato lo scongiurava di non abbandonare la repubblica in un momento difficile.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 49, 1- 9

Il dittatore, schierato l’esercito a battaglia, avrebbe poi sconfitto i galli, che si sarebbero dovuti ritirare. Mancano però fonti che possano confermare quanto raccontato, dato che tutti gli archivi del tempo andarono in fumo; è possibile pure che a quel tempo Camillo fosse già morto. Le fonti arcaiche d’altra parte lasciano intendere che Roma venne presa dai galli, come fa Ennio (“quella notte i galli attaccarono le più alte mura della cittadella e fecero improvvisa strage dei difensori”), Silio Italico (“le armi portate in processione da Camillo al suo ritorno, quando i galli furono cacciati dalla cittadella”) e Polibio, che ignora completamente la storia di Camillo. Cacciati i galli da Roma, restava il problema di come ricostruire la città; mentre si discuteva se spostarsi a Veio, appena finito il discorso in senato di Camillo, che voleva rimanere a Roma, un centurione di passaggio al di fuori della curia avrebbe fatto piantare le insegne esclamando “qui rimarremo ottimamente”. Il gesto fu interpretato come di buon auspicio dai senatori, mentre di Brenno si perdono le tracce:

“Ma a togliere ogni incertezza sopraggiunse una frase pronunziata proprio a tempo: mentre poco dopo il discorso di Camillo il senato era riunito nella curia Ostilia per discutere della questione, e delle coorti inquadrate ritornando dai presidii per caso attraversavano il foro, un centurione nella piazza del Comizio esclamò: «O alfiere, pianta l’insegna, qui rimarremo felicemente». Udita quella voce il senato uscito dalla curia gridò che accoglieva quello come un augurio, e la plebe accorsa intorno approvò. Respinta quindi la proposta di legge si cominciò a ricostruire la città disordinatamente. Le tegole furono fornite a spese dello stato, e fu dato il permesso di prendere le pietre e il legname di costruzione dove ciascuno volesse, dietro garanzia di condurre a termine gli edifici entro l’anno. Nella fretta non si presero cura di tracciare vie diritte, e senza distinzione di proprietà si edificava sul terreno trovato libero. Questo è il motivo per cui le vecchie cloache, che prima passavano sotto il suolo pubblico, ora in molti punti passano sotto case private, e inoltre la topografia della città fa pensare che il suolo cittadino sia stato occupato a caso e non distribuito secondo un piano.”

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, V, 55, 1- 5

Il secondo fondatore di Roma

Camillo non solo aveva salvato Roma dunque, ma aveva anche fatto in modo da convincere i senatori a non emigrare a Veio e ricostruire la città, tanto da meritarsi l’appellativo di secondo Romolo. L’anno seguente fu nominato di nuovo dittatore, affrontando volsci, equi ed etruschi, che speravano di approfittare di un’Urbe stremata dall’assedio. Camillo riorganizzò l’esercito, dividendolo in tre parti: una a Roma, una a Veio e con la terza attaccò personalmente i volsci, che sconfisse a Mecio, nei pressi di Lanuvio. Firmata la resa, Camillo passò agli equi, a cui tolse Bola. Infine accorse Sutri, alleata di Roma, sconfiggendo gli etruschi. Ciò gli garantì un nuovo trionfo, dopo quello di Veio. Nel 368, subito prima del riconoscimento della possibilità di accedere al consolato per i plebei, il senato decise di nominare dittatore Camillo per impedire la votazione delle leges Liciniae Sextiae (approvate poi l’anno seguente)

«E dato che le tribù erano giù state chiamate a votare e il veto dei colleghi non ostacolava più i promotori delle leggi, i patrizi allarmati ricorsero ai due estremi rimedi: la più alta delle cariche e il cittadino al di sopra di ogni altro. Decisero di nominare un dittatore. La scelta cadde su Marco Furio Camillo, che scelse Lucio Emilio come maestro di cavalleria […] Tuttavia, prima ancora che la contesa avesse designato un vincitore tra le due parti in causa, Camillo rinunciò al proprio incarico, sia perché – come hanno scritto alcuni autori – la sua elezione non era stata regolare, sia perché i tribuni della plebe proposero e la plebe si disse d’accordo che, qualora Marco Furio avesse preso qualche iniziativa in qualità di dittatore, gli sarebbe stata inflitta un’ammenda di 500.000 assi»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, VI, 4, 38.

Dopo le sue dimissioni venne eletto dittatore Publio Manlio Capitolino. Nel 367 a.C. Camillo venne eletto di nuovo dittatore per affrontare un’invasione di galli, che vennero sconfitti ad Albano, mentre a Camillo fu concesso ancora il trionfo:

«E nonostante l’enorme spavento ingenerato dai Galli e dal ricordo della vecchia disfatta, i Romani conquistarono una vittoria che non fu né difficile né mai in bilico. Molte migliaia di barbari vennero uccise nel corso della battaglia e molte altre dopo la presa dell’accampamento. I sopravvissuti, dispersi, ripararono soprattutto in Puglia, riuscendo a evitare i Romani sia per la grande distanza della fuga, sia per il fatto di essersi sparpagliati in preda al panico»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA, VI, 4, 42

Alla fine fu anche grazie a Camillo che vennero approvate le leges Liciniae Sextiae, che concessero nel 367 a.C. ai plebei di accedere al consolato e posero fine alla lotta degli ordini. Poco dopo, nel 365 a.C. morì di malattia.

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Non auro sed ferro patria recuperanda est
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