Tarquinio Collatino, pronipote di Tarquinio il Superbo, era sposato con Lucrezia. Di lei si era invaghito Tarquinio Sestio, figlio del Superbo, che abbandonò l’assedio di Ardea per tornare a Roma e violentare Lucrezia. Lei si suicidò il giorno dopo, poco dopo aver raggiunto il marito ad Ardea. Sconvolti, Lucio Giunio Bruto e Tarquinio Collatino decisero di vendicare la moglie di quest’ultimo e non avere pace finché i Tarquini non sarebbero stati cacciati dalla città.

I due portarono a Roma il cadavere di Lucrezia, pronunciando un appassionato elogio funebre nel foro, tanto da far sì che il popolo si rivoltasse contro il re e lo deponesse, confiscando tutti i suoi beni e affidando al solo popolo e senato il potere: SPQR, Senatus PopolusQue Romanus. Era così nata la repubblica: nel 509 a.C. i primi due consoli furono Lucio Giunio Bruto e Tarquinio Collatino. Il potere regale venne diviso e divenne collegiale e limitato ad un anno. Non era prevista la reiterazione della carica se non ogni dieci anni. Dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo questi chiese aiuto ad alcune città etrusche e con il lucumone di Chiusi Porsenna cercò di riprendere Roma già nel 508 a.C., un anno dopo.

Nascita di un eroe

I romani, in difficoltà, furono salvati da Orazio Coclite che da solo fermò l’avanzata nemica sul ponte Sublicio, mentre i romani lo abbattevano per impedire ai nemici di attraversare il Tevere:

«All’avvicinarsi dei nemici gli abitanti delle campagne riparano disordinatamente in città, e la città stessa viene munita da presidii. Le mura e il Tevere parevano costituire una sicura barriera, ma il ponte Sublicio stava per aprire la via ai nemici, se non fosse stato di un uomo, Orazio Coclite: quel giorno la fortuna di Roma trovò in lui un baluardo. Egli era posto a guardia del ponte, quando vedendo il Gianicolo preso con improvviso assalto e i nemici correre giù velocemente, mentre la massa dei Romani in preda al panico abbandonava le armi e le file, si diede a trattenerli uno per uno, e piantandosi davanti e scongiurandoli in nome degli dèi e degli uomini proclamava che invano fuggivano abbandonando la difesa: se dopo aver passato il ponte lo avessero lasciato intatto alle spalle, tosto vi sarebbero stati più nemici sul Palatino e sul Campidoglio che non sul Gianicolo. Perciò ammoniva e predicava che troncassero il ponte col ferro, col fuoco, con qualsiasi mezzo riuscissero a trovare; egli frattanto avrebbe sostenuto l’impeto dei nemici, fino a quando umanamente era possibile resistere da parte di un solo. Avanza quindi sulla testa del ponte, e spiccando fra lo spettacolo dei dorsi dei compagni che abbandonavano la battaglia, rivolte le armi ad affrontare il combattimento a corpo a corpo, stupì i nemici con la sua miracolosa audacia. Due uomini tuttavia vi furono che il senso dell’onore trattenne con lui, Spurio Larcio e Tito Erminio, entrambi illustri per stirpe e per gesta. Col loro aiuto per un po’ di tempo sostenne la prima minacciosa ondata e il momento più critico della lotta; poi, quando quelli che tagliavano il ponte li richiamarono indietro, non rimanendo ormai che un ristretto passaggio, li costrinse a ritirarsi al sicuro. Volgendo allora intorno minacciosamente i fieri sguardi verso i capi degli Etruschi, ora singolarmente li sfidava, ora tutti li scherniva: schiavi di re superbi, immemori della loro libertà, venivano ad assalire l’altrui. Rimasero a lungo esitanti, guardandosi l’un l’altro prima di iniziare il combattimento. Infine la vergogna li fece muovere all’attacco, e levato il grido da ogni parte scagliano dardi contro quel’unico nemico. Essendosi questi infissi tutti nello scudo, ed egli non meno ostinato continuando a sbarrare il ponte, saldamente piantato sulle gambe, già tentavano di cacciarlo giù d’assalto, quando il fragore del ponte che crollava e le simultanee grida di gioia, innalzate dai Romani per il compimento dell’opera, arrestarono l’impeto dei nemici presi da improvviso sgomento. Allora Coclite disse: «O venerabile padre Tiberino, ti prego, accogli queste armi e questo soldato con benigna corrente». Armato così com’era si gettò nel Tevere, e pur piovendogli addosso molti dardi nuotando giunse incolume fra i suoi, dopo aver osato un’impresa tale da ricevere più fama che fede presso i posteri. La città fu riconoscente a tanto valore: fu eretta ad Orazio una statua nel Comizio, e gli fu dato tanto terreno quanto ne poteva arare all’intorno in un giorno. Oltre agli onori che gli rese lo stato singolari furono le dimostrazioni di gratitudine dei privati; infatti pur nella grande penuria del momento ciascuno gli offerse qualche cosa, a seconda dei propri mezzi, privandosi persino del necessario.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, II, 10, 1-12

Secondo Polibio Orazio sarebbe poi morto affogato a causa del peso dell’armatura, mentre secondo Livio si sarebbe salvato a nuoto. Il popolo romano lo avrebbe poi ringraziato dedicandogli una statua e donandogli un terreno da arare. Ricevette anche molti doni da privati cittadini, ma non divenne mai console, secondo Livio, poiché venne colto da una malattia alle gambe che gli impediva di camminare. In questo caso il racconto liviano è più attendibile, in primis perchè Larcio ed Erminio, presenti nel racconto, furono consoli nel 506: avrebbe aggiunto la parte relativa alle ricompense, mentre effettivamente ricevette una statua, confermata dagli Annales Maximi, che riferiscono di una statua sua “in comitio posita“, trasportata nel Vulcanale perché fosse perennemente al Sole. Era infatti una scultura solare, un chiaro riferimento alla condizione di Orazio: per le ferite riportate dalla caduta era rimasto zoppo e cieco da un occhio e la statua è riconducibile a un dio zoppo che arranca. Lo stesso nome Cocles è l’equivalente latino di Cyclops. E’ possibile però che il nome Orazio sia legato più all’azione compiuta che non al suo vero nome, in quanto gli stessi Orazi derivano la loro radice da ὅρος, ossia difensori dei confini.

Muzio Scevola

Gaio Muzio Cordo era un giovane nobile romano che mal sopportava l’assedio. Infatti nonostante il sacrificio di Orazio avesse permesso ai romani di ritirarsi, la città era ancora accerchiata dai nemici. Muzio decise di proporre allora al senato di uccidere Porsenna, che glielo concesse. Secondo Dionigi di Alicarnasso l’infiltrazione fu favorita dal fatto che era di origine etrusca, passando dunque inosservato.

Armato di pugnale arrivò nell’accampamento e attese la distribuzione della paga ai soldati. Quando però cercò di ucciderlo, sbagliò persona. Allora si diede alla fuga ma venne arrestato e portato davanti al tribunale del re. Lì però non si mostrò spaventato, anzi: disse che molti altri romani come lui sarebbero arrivati a tentare di ucciderlo, senza tregua, al che Porsenna minacciò di bruciarlo vivo. Muzio reagì in modo inaspettato, terrorizzando il lucumone; mise infatti la mano destra sul fuoco e la fece bruciare senza fiatare, come giuramento e mostrando la dedizione imperterrita dei romani. Porsenna, rimasto sconvolto, liberò il giovane, che replicò ancora come fossero trecento coloro i quali avevano giurato di ucciderlo e che sarebbero riusciti nell’impresa. Rientrato a Roma, Muzio ottenne il cognomen di Scevola (il mancino), mentre Porsenna trattò la fine delle ostilità.

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Orazio Coclite
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