«Gli antenati di Otone erano originari di Férento: una famiglia antica e illustre, tra le principali dell’Etruria. Suo nonno, Marco Salvio Otone, veniva da un padre appartenente all’ordine dei cavalieri e da una madre di umile estrazione sociale (non si sa nemmeno se fosse di nascita libera); ma col favore di Livia Augusta, nella cui casa era cresciuto, fu eletto senatore, anche se non andò più in là della pretura. Il padre, Lucio Otone, che aveva alle spalle una famiglia materna assai cospicua con molti e importanti legami di parentela, fu assai caro a Tiberio, con il quale aveva una tale somiglianza nei tratti del volto che molti pensavano che fosse addirittura suo figlio. Ricoperse con grande rigore cariche urbane, il proconsolato d’Africa e altri incarichi straordinari. […] L’imperatore Otone nacque il 28 aprile durante il consolato di Camillo Arrunzio e Domizio Enobarbo. Fin dalla prima adolescenza si mostrò spendaccione e ribelle, tanto che spesso il padre dovette ricorrere alle nerbate per tenerlo a freno. Si diceva che andasse in giro di notte e, messe le mani su qualche sciancato o qualche ubriacone incontrato per via, dopo averlo posto su un mantello teso lo facesse rimbalzare per aria.»

(Svetonio, Otone, 1-2)

La famiglia di Otone era di origine equestre, di Ferento; era nato il 28 aprile del 32. Spendaccione, andava d’accordo con Nerone, tanto che il giorno in cui l’imperatore decise di uccidere la madre Agrippina, organizzò una cenetta intima, per mettere a tacere le voci. Ma Otone sedusse Poppea e Nerone lo inviò come governatore in Lusitania, l’odierno Portogallo, una zona molto remota e distante:

«Ormai a parte di tutti i segreti disegni del principe, il giorno in cui Nerone aveva stabilito di uccidere la madre, fu Otone che, per stornare i sospetti, offrì a entrambi una cena della più raffinata eleganza. Fu ancora lui che, con una parvenza di matrimonio, accolse in casa Poppea Sabina, che finora era stata solo l’amante di Nerone. Strappata al marito, la donna fu appunto, in un primo tempo, affidata ad Otone. Ma poi, non contento di averla sedotta, se ne innamorò davvero e a tal segno che non sopportava di aver per rivale neppure Nerone. Per lo meno è fama che non solo non fece entrare quelli che Nerone aveva mandati a riprenderla, ma tenne fuori dalla sua porta il principe in persona. Il quale se ne stette lì in piedi ad alternare invano minacce e preghiere e a chiedere che gli restituisse quanto lui gli aveva dato in consegna. Perciò, sciolto quel vincolo, fu relegato in Lusitania con il pretesto di reggerne il governo. Questo provvedimento parve sufficiente: d’altra parte una condanna più dura avrebbe reso pubblica tutta quella commedia. Ma che tuttavia la faccenda trapelasse lo dice un distico come il seguente: Perché con finto onore – Otone vada errante Chiedete. Della moglie – sua propria era l’amante.»

(Svetonio, Otone, 1-2)

Imperatore

A Otone non parve vero potersi vendicare di Nerone, e fu ben felice di supportare Galba quando questi divenne imperatore:

«Ma quando, alla fine, gli si presentò l’occasione di vendicarsi, fu il primo ad aderire al tentativo di Galba; e da quello stesso momento concepì anche lui la speranza del principato: ambizione grande, certo, ma riferita alla situazione del tempo, e fatta maggiore per le affermazioni dell’astrologo Seleuco. Costui, come già un giorno gli aveva predetto che sarebbe sopravvissuto a Nerone, così ora si era ripresentato a lui, spontaneamente, senza che nessuno se l’aspettasse, con un’altra promessa: che tra poco sarebbe diventato imperatore. Orbene, Otone non tralasciò alcun genere di sollecitazione o di beneficio. Ogni volta che invitava a cena il principe, distribuiva una moneta d’oro a ogni soldato della coorte di guardia; né era da meno nel conciliarsi – chi in un modo, chi in un altro – il favore degli altri militari. A un tale, per esempio, che l’aveva chiamato a far da arbitro in una lite col vicino per una questione di confini, egli comprò il campo tutto intero e glielo regalò. Così non c’era più nessuno, ormai, che non pensasse e non dicesse in giro che solo lui era degno di succedere all’impero.»

(Svetonio, Otone, 4)

Otone divenne un fedelissimo di Galba, lo seguiva ovunque, sperando di essere suo successore. Ma l’imperatore, molto più austero, scelse in base al merito, e adottò Pisone. Alla fine si ribellò e fu acclamato imperatore, il 15 gennaio del 69 d.C.:

«Aveva sperato di essere adottato da Galba e se l’aspettava di giorno in giorno. Ma, quando vide che gli era stato preferito Pisone, lasciò cadere ogni speranza e si risolse a forzare la situazione, spinto sì dal risentimento, ma anche dai molti debiti accumulati. Quindi, nascostosi in tutta fretta in una portantina da donna, si diresse al Castro pretorio. Sceso poi dalla lettiga dal momento che i portatori non reggevano al peso, si mise a correre, ma dovette fermarsi di nuovo, per via di un calzare che gli si era slegato. Alla fine, rotto ogni indugio, fu issato sulle spalle alla presenza di tutto il suo seguito e, tra le acclamazioni di augurio e le spade sguainate, fu salutato Imperatore. Giunse così sulla piazza d’armi, e tutti quelli che incontrava si univano alla sua schiera come se fossero consapevoli e partecipi della congiura. Qui, dopo aver mandato avanti coloro che dovevano uccidere Galba e Pisone, per conciliarsi con le promesse l’animo dei soldati giurò, al cospetto di tutti, che nessun altro potere egli avrebbe avuto se non quello che essi gli avessero lasciato. . Più tardi, ormai sul far della sera, fece il suo ingresso in Senato e improvvisò un breve discorso per sostenere che, quasi trascinato dalla folla, era stato costretto a viva forza ad assumere il potere imperiale: ma certo l’avrebbe gestito col comune e generale consenso. Si recò quindi a Palazzo. E, tra le varie adulazioni di quanti si congratulavano con lui, fu anche chiamato da parte del popolino con l’appellativo di Nerone. Non diede l’impressione di volerlo rifiutare; anzi – secondo alcune testimonianze – nei primi dispacci e privilegi spediti ad alcuni governatori di provincia aggiunse ufficialmente anche il soprannome di Nerone. È un fatto, inoltre, che fece ricollocare al loro posto le statue e i ritratti di lui, e ne rimise in carica procuratori e liberti e – come primo atto di governo – firmò lo stanziamento di cinquanta milioni di sesterzi per ultimare la Domus Aurea.»

(Svetonio, Otone, 5-7)

Otone cercò di ristabilire la figura di Nerone (colpito da damnatio memoriae), rimettendo al loro posto i funzionari e stanziando ben 50 milioni di sesterzi per completare la domus aurea. Il popolo lo chiamava nuovo Nerone e lui non se ne dispiaceva. Nel frattempo Vitellio, che era stato inviato da Galba in Germania, alla notizia della sua morte fu acclamato imperatore e tornò in Italia per affrontare Otone, le cui truppe vinse a Bedriaco, nei pressi di Cremona: nonostante fossero in arrivo le legioni danubiane Otone decise di togliersi la vita, forse per risparmiare ulteriori sofferenze alla res publica, il 16 aprile del 69:

«Orbene, dopo aver esortato a uno a uno il fratello, il figlio di lui e gli altri amici a provvedere a se stessi come meglio potevano, li congedò tutti abbracciandoli e baciandoli. Poi, isolatosi, vergò due biglietti consolatori, uno per la sorella, l’altro per Messalina, vedova di Nerone, che egli aveva pensato di far sua sposa, a loro affidando i suoi resti mortali e la sua memoria. Quindi bruciò ogni altra sua lettera perché, in mano al vincitore, non fosse di danno o di pericolo per nessuno. Infine divise tra i domestici il denaro di cui in quel momento poteva disporre. Mentre era così pronto e deliberato a morire, si levò in quel frattempo uno scompiglio: seppe che venivano arrestati e messi in ceppi quanti avevano preso ad allontanarsi e ad andarsene dal campo. Allora disse – proprio con queste precise parole: «Aggiungiamo ancora questa notte alla mia vita» e ordinò che a nessuno fosse fatta violenza. Poi permise a chiunque volesse vederlo di conferire con lui, fino a tardi, lasciando aperta la porta della sua camera. Quindi, calmata l’arsura della sete con un bicchiere d’acqua fredda, staccò due pugnali, ne provò il filo, ne nascose uno sotto il cuscino, chiuse la porta e si abbandonò a un sonno profondo. Destatosi, infine, sul far del giorno, si trafisse il petto d’un colpo solo, a sinistra. Spirò così, ora celando e ora scoprendo la ferita; mentre i servi accorrevano al primo suo gemito. Come aveva disposto, fu immediatamente cremato. Aveva trentotto anni ed era stato imperatore per novantacinque giorni.»

(Svetonio, Otone, 10-11)

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