Pescennio Nigro era discendente di una famiglia equestre italica; il nonno sarebbe stato procuratore di Aquino. Nacque attorno al 135 e fu il primo a diventare senatore. Fu infine eletto console suffetto e ottenne la provincia di Siria da Commodo nel 191.

«Uomo di mediocre istruzione, di carattere altero, smisuratamente avido di ricchezze, sobrio nel tenore di vita, privo di alcun freno nel dar sfogo ad ogni genere di passioni, per lungo tempo fu centurione e, attraverso numerose cariche militari, giunse infine a comandare per ordine di Commodo gli eserciti di Siria, grazie particolarmente all’appoggio di quell’atleta che poi ebbe a strangolare Commodo, secondo quanto avveniva a quei tempi in ogni cosa.»

(Historia Augusta, Pescennio Nigro, 1, 4-5)

Mentre si trovava in Siria giunse la notizia che Commodo era stato ucciso e che poi aveva fatto la stessa fine Pertinace. A quel punto si convinse di poter reclamare l’impero visto il potere traballante di Didio Giuliano, osteggiato da tutta la città di Roma:

«Nigro aveva già da tempo rivestito il consolato; e nel periodo in cui avvennero a Roma i fatti ora narrati [ndr. mentre Didio Giuliano diventava imperatore e veniva ucciso], era proconsole dell’intera Siria: aveva dunque una carica delle piú importanti, che poneva sotto la sua autorità tutti i Fenici, e tutto il territorio compreso fra il mare e l’Eufrate. Era di età matura, e aveva raggiunto la fama con molte brillanti imprese: lo si credeva uomo saggio e probo, e si diceva che avesse scelto Pertinace come suo modello di vita. Tutto ciò lo rendeva popolare presso i Romani, i quali lo acclamavano continuamente nelle pubbliche riunioni, e sebbene fosse lontano già lo salutavano imperatore, mentre coprivano d’insulti Giuliano, presente tra loro. Poiché Nigro conobbe l’animo dei Romani, e seppe delle grida che venivano lanciate negli assembramenti, ne fu, com’è logico, ben lieto; e ritenne che le prospettive fossero per lui estremamente favorevoli; sapendo che Giuliano era irriso dai suoi stessi pretoriani, per non aver corrisposto il donativo nella misura promessa, ed era dispregiato dal popolo come indegno del trono che aveva comprato, si lasciò attrarre dalla speranza del potere. In un primo tempo convocò a casa propria, in piccoli gruppi, i legati e i tribuni militari, con i soldati piú influenti, e li attirò alla sua causa; inoltre li informò delle notizie avute da Roma, affinché la voce circolasse e i fatti fossero noti a tutti i soldati e ai sudditi delle province orientali. Sperava cosí che tutti accettassero di seguirlo, rendendosi conto che egli non aspirava al potere di sua iniziativa, bensí era chiamato al trono, e muoveva in aiuto dei Romani che lo invocavano. E tutti, pieni di entusiasmo, si schierarono al suo fianco senza indugio, supplicandolo anch’essi di assumere il potere. La gente sira è per natura incostante, e propensa ai mutamenti; d’altra parte li spingeva anche l’affetto per Nigro, che governava su tutti con mitezza, e partecipava sempre alle loro cerimonie. I Siri amano molto le feste, e piú degli altri gli abitanti di Antiochia, città grande e ricca, i quali fanno festa, si può dire, tutto l’anno, ora nella cerchia urbana, ora nei sobborghi. Nigro dunque, prendendo frequentemente su di sé le spese degli spettacoli [a cui gli Antiocheni tengono tanto], e concedendo piena libertà di darsi buon tempo e di festeggiare, assecondava le loro inclinazioni; sicché a buon diritto era amato. Facendo calcolo su tali circostanze, egli convocò tutti i soldati per un giorno stabilito; e si aggiunse ai soldati grande massa di popolo. Salí quindi sulla tribuna che era stata predisposta, e cosí parlò: «Voi ben sapete, e da molto tempo, quanto il mio animo sia pacifico, e alieno dalle imprese temerarie. Né io mi sarei mai presentato a parlarvi, se fossi spinto da aspirazioni personali, o da una folle speranza, o addirittura da una ambizione smoderata. Ma sono i Romani che mi chiamano, e con manifestazioni continue insistono acciocché io tenda loro la mia mano soccorritrice, e non lasci giacere nella vergogna un impero che i nostri avi crearono con tanta gloria e tanto valore. E se l’affrontare una tale impresa senza un giusto motivo è segno d’incoscienza e di temerità, d’altra parte il mostrarsi riluttanti verso chi chiama e prega, procura la taccia di viltà e di tradimento. Perciò io son venuto a chiedervi quale sia il vostro parere e cosa riteniate debba farsi: in queste circostanze intendo usufruire del vostro consiglio e della vostra assistenza: sicché, quando la sorte ci sia favorevole, comuni saranno anche i vantaggi. Noi siamo chiamati, non da una speranza ingannevole e vana, ma dallo stesso popolo romano, cui gli dèi assegnarono il primato e la signoria su tutte le genti; e dallo stato, che è come nave in tempesta e non trova alcun appoggio sicuro. La nostra impresa si prospetta facile, e per il consenso di quelli che l’invocano e per la mancanza di oppositori e rivali. Infatti, secondo le notizie da Roma, nemmeno i pretoriani, che hanno venduto il potere a quell’uomo per denaro, gli sono fedeli e sono disposti a servirlo, ora che non ha mantenuto le sue promesse. Esprimete dunque la vostra volontà». Quando Nigro terminò il suo discorso, subito tutti i soldati, e il popolo colà raccolto, lo proclamarono imperatore e lo salutarono con il nome di Augusto. Quindi gli fecero cingere la porpora imperiale, con le altre insegne del potere preparate in gran fretta, e lo condussero, preceduto dalle fiaccole accese, ai templi di Antiochia, e infine alla sua casa. Questa non fu piú considerata la dimora di un privato, bensí quella di un imperatore, e fu adornata esternamente con tutti i segni della regalità. Da tutto ciò Nigro si sentí molto incoraggiato, e già pensava che il potere gli appartenesse, considerando i sentimenti dei Romani e l’entusiasmo dei suoi seguaci. Inoltre la notizia si era diffusa rapidamente presso le varie province dell’Asia, e tutti, senza eccezione, aderivano sollecitamente alla sua causa: da quei popoli si recavano ambascerie ad Antiochia come presso un monarca già riconosciuto. Anche i satrapi e i re delle regioni al di là del Tigri e dell’Eufrate inviavano i loro rappresentanti a congratularsi, e gli promettevano di mandare soccorsi se ne avesse avuto bisogno.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, II, 7-4, 8-8)

Infatti pare che il popolo romano avesse acclamato Pescennio Nigro durante il breve principato di Didio Giuliano, considerato da loro l’assassino di Pertinace, nel corso dei giochi nel Circo Massimo. Nel frattempo Giuliano, saputo di Severo e Nigro, per stroncare la rivolta di quest’ultimo gli inviò un centurione, tale Aquilio, a cercare di assassinarlo, senza riuscirci. Alla morte di Giuliano Severo si accordò con Clodio Albino, acclamato in Britannia, per affrontare subito Pescennio Nigro:

«Nel libro precedente ho narrato l’assassinio di Pertinace, l’esecuzione di Giuliano, l’ingresso di Severo in Roma, e la sua partenza contro Nigro. Quest’ultimo fu colto del tutto impreparato dalla notizia che Severo aveva occupato Roma, era stato riconosciuto imperatore dal senato, e avanzava con forze terrestri e navali fra cui tutto l’esercito illirico. Profondamente turbato, mandò messaggi a tutti i governatori delle province, ordinando loro di presidiare le strade e i porti; inoltre chiese aiuto ai re dei Parti, degli Armeni e degli Atreni. L’Armeno rispose che non avrebbe aiutato nessuno dei due rivali, e si sarebbe contentato di salvaguardare il proprio territorio, poiché Severo era ormai vicino. Il Parto disse che avrebbe scritto ai satrapi incaricandoli di raccogliere milizie: cosí infatti soleva fare quando aveva bisogno di truppe, non disponendo né di mercenari né di un esercito permanente. Per contro vennero in aiuto di Nigro alcuni arcieri atreni, mandati da Barsemio, che regnava su quel popolo; egli poi raccolse altre forze dai presidi delle sue province; inoltre si arruolarono nel suo esercito moltissimi Antiocheni, soprattutto giovani, spinti dalla loro leggerezza e dall’affetto per Nigro, e lasciandosi guidare dall’entusiasmo piú che dalla riflessione. Nigro ordinò di sbarrare gli impervi valichi del Tauro con robuste mura e con baluardi, pensando che l’asprezza di quel territorio montuoso avrebbe costituito un efficace ostacolo a un’avanzata verso oriente. Il Tauro, infatti, si trova fra la Cappadocia e la Cilicia, e separa le province settentrionali da quelle orientali. Egli poi mandò avanti una parte del suo esercito a occupare Bisanzio, che era allora la città piú grande e prospera della Tracia, fiorente per abbondanza d’uomini e di ricchezze. Poiché, infatti, si trova nel punto in cui piú si restringe la Propontide, otteneva molti introiti dall’attività commerciale, dalla pesca, dai pedaggi. Possedeva anche un esteso contado, sicché traeva lauti guadagni dalla terra come dal mare. Essendo dunque Bisanzio una città fortissima, Nigro decise di occuparla per primo, soprattutto sperando di poter impedire il passaggio dall’Europa all’Asia attraverso gli stretti. La città era circondata da mura alte e robuste, fatte con grosse pietre squadrate; e queste erano connesse in modo talmente preciso che la costruzione sarebbe sembrata a chiunque fatta di un sol pezzo, anziché di molti messi insieme. Ancora adesso chi vede i ruderi che ne rimangono ha ragione di ammirare sia l’arte di quelli che dapprima le elevarono, sia il valore di quelli che poi le distrussero. Nigro dunque aveva predisposto la propria difesa in modo, com’egli credeva, saggio e sicuro. Severo, dal canto suo, avanzava a marce forzate, non lasciando luogo all’inerzia e al riposo. Poiché venne a conoscenza di essere stato prevenuto nell’occupazione di Bisanzio, e sapeva che questa città era munita di saldissime mura, ordinò che l’esercito passasse la Propontide all’altezza di Cizico. Il governatore della provincia d’Asia, Emiliano, cui Nigro aveva affidato la cura e il comando di quel settore, quando gli si annunciò che l’esercito di Severo si avvicinava, marciò anch’egli verso Cizico, portando tutte le truppe che egli stesso aveva raccolto e che Nigro gli aveva mandato. Quando i due eserciti si scontrarono, in tutta la zona si ebbero sanguinosi combattimenti, e le truppe di Severo ebbero la meglio. I soldati di Nigro si dispersero e fuggirono subendo gravi perdite: questo fece sí che fin dall’inizio della campagna gli Asiatici fossero scoraggiati, e gli Illiri imbaldanziti.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, III, 1,1 -2,2)

Sembra che Nigro e Severo fossero stati grandi amici quando quest’ultimo era governatore della Gallia Lugdunense, ma ciò non frenò l’imperatore nativo della Tripolitania, che affrontò nuovamente Nigro a Isso, nello stesso luogo dove Alessandro aveva vinto i persiani, che venne sconfitto e morì poco dopo, nel maggio del 194, ad Antiochia:

«Nigro, informato dell’accaduto, avanzò in gran fretta con l’esercito che aveva riunito: numeroso, ma non allenato alle fatiche e al combattimento. Grande massa di uomini, fra cui tutta la gioventú di Antiochia, si era infatti votata a combattere e a rischiare la vita per lui. L’entusiasmo delle truppe, dunque, non gli faceva difetto, ma quanto a vigore e a esperienza l’esercito illirico era di gran lunga superiore. I due eserciti si scontrarono nella pianura bagnata dal golfo d’Isso, che è di grandissima estensione; la circonda una catena di colline a forma di anfiteatro, e dalla parte del mare si estende una larga spiaggia: quasi che la natura abbia voluto preparare uno stadio adatto per un combattimento. Ivi, come si racconta, Dario affrontò Alessandro nell’ultima e piú importante battaglia; fu sconfitto, e preso prigioniero. Cosí anche allora gli uomini venuti dal nord ebbero la meglio sui popoli dell’Oriente. Esiste ancora una città, chiamata Alessandria, elevata sul colle, quasi trofeo destinato a ricordare quella vittoria; ivi è una statua di bronzo, dell’eroe da cui la città prende nome. E non soltanto gli eserciti di Nigro e di Severo si scontrarono nel medesimo luogo; ma la battaglia ebbe anche la medesima conclusione. Infatti essendosi schierati gli uni contro gli altri a tarda sera, passarono tutta la notte vegliando, in preda all’ansia e al timore; all’alba si affrontarono senza indugio, guidati dai condottieri dei due partiti. Considerando quella battaglia come l’ultima e la decisiva, in base alla quale il fato avrebbe scelto l’imperatore, tutti si impegnarono a fondo. Il combattimento fu lungo, e il massacro tanto grande che le correnti dei fiumi, attraversando la pianura, portavano al mare piú sangue che acqua: infine gli orientali piegarono. Gli Illiri, incalzandoli, spinsero in mare, a colpi di spada, una parte dei nemici; inseguirono gli altri fino alle colline, e lí ne fecero strage. Sterminarono anche una grande moltitudine di altri uomini che erano accorsi dalle città e dalle campagne circostanti, per assistere alla battaglia da un luogo ritenuto sicuro. Nigro, montato un cavallo molto veloce, fuggí con pochi uomini, e giunse ad Antiochia. Là incontrò altri superstiti che vi si erano rifugiati, e trovò la città funestata dal lutto di coloro che piangevano i figli e i fratelli. Perduta ogni speranza, lasciò Antiochia, e si nascose in un sobborgo. Scoperto colà dai cavalieri mandati a inseguirlo, fu preso e decapitato.»

(Erodiano, Storia dell’impero romano dopo Marco Aurelio, III, 4,1 -4,6)

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