Quinto Fabio Massimo Verrucoso, detto il temporeggiatore, nacque attorno il 275 a.C. Era discendente della gens Fabia, nipote di Quinto Fabio Massimo Gurgite e bis-nipote di Quinto Fabio Massimo Rulliano; quest’ultimo aveva vinto (dopo l’immolazione tramite devotio dell’altro console Publio Decio Mure) la battaglia di Sentinum del 295 a.C. che pose fine alle terza guerra sannitica e diede il via all’egemonia romana in Italia.

Carriera politica

La carriera politica del Verrucoso, il cui soprannome era dato da una verruca sul labbro superiore, iniziò a decollare nel 233 a.C. quando trionfò sui liguri e dedicò un tempio ad Onore e Virtù. Plutarco narra che Fabio fosse di temperamento mite e lento nel parlare e in genere dal carattere forte e deciso. Nel 265 a.C. era stato augure, ma non è chiaro il ruolo svolto durante la prima guerra punica. Probabilmente era stato questore nel 237 o 236 e edile curule attorno al 235, per raggiungere il consolato nel 233. Nel 230 a.C. ottenne infine la censura e un secondo consolato nel 228 a.C. Probabilmente in quel periodo (attorno al 221) ottenne la prima dittatura poiché Livio narra che quella del 217 fu la seconda (considerando un buco nei fasti consolari per quella data e l’assenza di quella parte di Livio).

Fabio venne inviato come ambasciatore a Cartagine (insieme a senatori importantissimi in seguito come Marco Livio Salinatore e Lucio Emilio Paolo) dopo la resa di Sagunto in Spagna, assediata da Annibale, per capire se le azioni del cartaginese fossero appoggiate dalla madrepatria. Alla fine del discorso di Fabio, che chiedeva spiegazioni, i cartaginesi accettarono la guerra:

«[…] Perciò, smettetela di citare Sagunto e l’Ebro, e una buona volta il vostro animo dia alla luce ciò che da tanto tempo cova in sé!». Allora il Romano, fatta una piega con la toga, disse: «Qui vi portiamo la guerra e la pace; delle due cose, prendete quella che volete». Sùbito dopo queste parole, non meno fieramente gli fu risposto con grida che desse quella che volesse; ed avendo egli per contro lasciato andare la piega e detto che dava la guerra, tutti risposero che la accettavano e l’avrebbero combattuta con il medesimo ardimento con cui l’accettavano.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri, XXI, 18, 12-14

Fabio Massimo, tornato a Roma, fu inviato allora in Spagna per cercare l’appoggio delle popolazioni locali; i bargusi accettarono, ma i volciani risposero sdegnosamente:

«Come potete avere la sfacciataggine, Romani, di chiederci di preferire la vostra amicizia a quella dei Cartaginesi, dal momento che coloro, i quali così hanno fatto, sono stati traditi da voi, gli alleati!, più crudelmente di quanto siano stati annientati dai Cartaginesi, cioè dai nemici? Vi propongo di cercare alleati là dove nulla si sa della sventura di Sagunto; per i popoli della Spagna le rovine di Sagunto saranno un mònito tanto memorabile quanto luttuoso, a non fidarsi mai della lealtà dei Romani e dell’alleanza con essi».

Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri, XXI, 19, 9-10

Abbandonata la Spagna, da cui i romani non ricevettero più aiuto, Fabio si rivolse ai galli, che rifiutarono anch’essi:

«[…]gli ambasciatori romani non ottennero parole più benevole da nessun’altra assemblea della Spagna. E così, inutilmente percorsa la Spagna, passarono in Gallia. Qui si presentò loro uno spettacolo straordinario e terribile, poiché essi vennero all’assemblea in armi, secondo l’usanza gallica. Dopo che gli ambasciatori, esaltando la gloria e il valore del popolo romano e la grandezza dell’impero, ebbero chiesto loro di non lasciar passare attraverso il loro territorio e le loro città il Cartaginese, qualora questi portasse guerra all’Italia, si levò, a quanto si racconta, una così grande risata generale con mormorii di disapprovazione, che a stento i magistrati e gli anziani poterono calmare i giovani; a tal punto sciocca e impudente pretesa sembrò il proporre che i Galli, per tener lontana la guerra dall’Italia, la tirassero addosso a sé stessi e abbandonassero al saccheggio i loro campi al posto di quelli altrui. Calmato finalmente lo strepito, fu risposto agli ambasciatori che non esistevano nei confronti dei Galli né benemerenze da parte dei Romani né offese dei Cartaginesi […]»

Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri, XXI, 19,11 – 20,5

La seconda guerra punica e la seconda dittatura

Dopo l’arrivo in Italia di Annibale e la sconfitta del Trasimeno nel 217 a.C., in quello stesso anno Massimo venne nominato dittatore. La sua scelta, a differenza dei predecessori, fu di attendere ed evitare lo scontro diretto, dove Annibale sembrava invincibile, lasciandolo libero di scorrazzare ma seguendolo sempre da vicino e stando pronto a fare piccole sortite, ma ponendo il campo in zone rialzate e impervie dove la cavalleria numida non avrebbe potuto dispiegare la sua forza. Nonostante l’opposizione la tattica si rivelò vincente e si guadagnò il sopranome di cuntactor (dice Ennio che qui cunctando restituit rem, “temporeggiando ripristinò lo stato), ossia “temporeggiatore“:

«Fabio aveva deciso di non esporsi al rischio e di non venire a battaglia [con Annibale]. […] Inizialmente tutti lo consideravano un incapace, e che non aveva per nulla coraggio […] ma col tempo costrinse tutti a dargli ragione e ad ammettere che nessuno sarebbe stato in grado di affrontare quel momento delicato in modo più avveduto e intelligente. Poi i fatti gli diedero ragione della sua tattica.»

Polibio, Storie, III, 89, 3-4

Tuttavia le critiche verso la sua strategia restavano forti e il magister equitum Marco Minucio Rufo, alla guida dei suoi detrattori, cercarono nuovamente di tornare ad affrontare Annibale, mentre il tribuno della plebe Marco Metilio presentava una legge per dividere in parti uguali il potere tra il dittatore e il suo vice, come se fossero stati due consoli. La legge fu comunque accettata e votata dai comizi e ratificata dal senato (si ebbero così due dittatori), ma quando Rufo fu quasi ucciso da Annibale e il suo esercito in forte pericolo vennero salvati dall’intervento risolutivo di Massimo, l’ex magister equitum lasciò la sua carica lasciando di nuovo la dittatura a Fabio, che però la rimise al termine dei sei mesi di mandato. Dei due consoli che seguirono, Lucio Emilio Paolo seguì i suoi insegnamenti, mentre Gaio Terenzio Varrone, più avventato, guidò i romani nel disastro di Canne del 216 a.C.

Dopo quest’ultima battaglia Fabio venne nominato pontefice (insieme a Quinto Cecilio Metello e Quinto Fulvio Flacco) e nel 215 consul suffectus, ossia sostituto, dopo la rinuncia di Marco Claudio Marcello. Fabio e l’altro console Tiberio Sempronio Gracco si divisero l’esercito: il temporeggiatore iniziò l’assedio di Capua dove Annibale, dopo aver preso la città, si dedicava ai famosi ozi. Fabio, rieletto console nel 214 a.C., continuò la guerra in Campania e riconquistò Casilinum. Nel 213 fu legato di suo figlio Quinto Fabio Massimo, eletto console. Narra Livio che:

“Il padre si recò nell’accampamento a Suessula come legato del figlio. Mentre il figlio 〈gli〉 stava venendo incontro e i littori, per riverenza verso la dignità di lui, precedevano senza parlare, il vecchio, dopo aver già oltrepassato a cavallo undici fasci, allorché il console ordinò al littore che gli era più vicino di far attenzione e quegli gridò ad alta voce che scendesse da cavallo, soltanto allora smontando, disse: «Ho voluto, figlio, far la prova se eri ben consapevole di essere tu console.»”

Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri, XXIV, 44, 9-10

Nel 211 a.C. Annibale abbandonò Capua e si diresse verso Roma; fu allora, nel terrore generale, che venne proposto di richiamare ogni esercito per difendere l’Urbe. Massimo però stemperò la paura e fece in modo che i romani, imperterriti, continuassero l’assedio di Capua, dove i capuani erano ormai allo stremo senza l’aiuto cartaginese:

Annibale

«Prima che succedesse ciò, avendo scritto Fulvio Fiacco al Senato a Roma che si era saputo dai disertori che così sarebbe avvenuto, gli animi degli uomini furono variamente impressionati a seconda dell’indole di ciascuno. Come avviene in una situazione così densa d’incognite, essendosi riunito subito il Senato, P. Cornelio che aveva il soprannome di Asina, dimentico di Capua e di ogni altra circostanza intendeva richiamare a difesa della città tutti i generali e gli eserciti dall’intero territorio italiano; Fabio Massimo giudicava disonorante retrocedere da Capua e spaventarsi e farsi strapazzare in giro al cenno e alle minacce di Annibale: il quale se vincitore a Canne tuttavia non aveva osato marciare su Roma, adesso proprio lui avrebbe vagheggiato la speranza d’impadronirsi della città di Roma? Veniva non per stringere d’assedio Roma, ma per liberare Capua dall’assedio. Giove testimone dei patti infranti da Annibale e gli altri dèi avrebbero difeso Roma con quell’esercito che era presso la città. Il conciliante parere di P. Valerio Fiacco superò queste divergenze d’opinione, costui con l’occhio attento all’una e all’altra cosa ritenne che si dovesse scrivere ai generali che erano davanti a Capua quale difesa disponesse la città; essi stessi dovevano sapere quante truppe guidava Annibale o di quanta fanteria ci fosse bisogno per assediare Capua. Se uno dei due capitani e una parte dell’esercito potesse essere mandata a Roma così che Capua potesse essere regolarmente assediata dal generale che rimaneva e dall’esercito, Claudio e Fulvio decidessero di comune accordo a chi dei due toccasse assediare Capua, a quale venire per difendere dall’assedio la patria romana.»

Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri, XXVI, 8, 1-8

Nel 210 a.C., dopo una lunga diatriba tra il dittatore Quinto Fulvio Flacco e i tribuni della plebe sull’eleggibilità di quest’ultimo a console, il senato si risolse a prendere l’iniziativa e diede il via libera: fu così eletto console Flacco per la quarta volta insieme a Fabio Massimo per la quinta.

A quest’ultimo, nominato anche princeps senatus, fu affidata la guerra contro Taranto e a Flacco la Lucania e il Bruzzio. Taranto venne riconquistata, sebbene la cittadella non fosse mai caduta, tanto che il governatore Marco Livio Macato vantava anni dopo la vittoria. Fabio avrebbe risposto : “tu non l’hai mai persa, io non l’ho mai riconquistata” (Plutarco, Fabio Massimo, 23). Tutte le statue degli dei furono lasciate a Taranto tranne una statua di Ercole, antenato della gens Fabia, che venne posta in Campidoglio.

Negli ultimi anni di guerra Fabio non svolse più incarichi importanti, essendo ormai anziano e messo in secondo piano dalla figura di Scipione. Morì nel 203 a.C., poco prima della vittoria di Zama e la fine delle ostilità.

«Quinto Fabio Massimo, figlio di Quinto, due volte dittatore, cinque volte console, censore, due volte interrè, edile curule, due volte questore, due volte tribunus militum, pontefice, augure; durante il primo consolato sottomise i Liguri per i quali ottenne il trionfo; durante il terzo e quarto (consolato) mise un freno al bellicoso Annibale (che aveva ottenuto) tante vittorie; (fu eletto) dittatore con magister equitum Minucio, che il popolo aveva posto allo stesso livello del comando del dittatore; egli era venuto in aiuto all’esercito sconfitto e fu chiamato per nome dall’esercito di Minucio come un padre; console per la quinta volta occupò Taranto; trionfò come comandante prudentissimo della sua epoca ed espertissimo nelle questioni militari; fu eletto abitualmente princeps senatus per due lustri.»

CIL XI, 1828, proveniente da Arretium

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