Caso lampante per comprendere la cittadinanza a Roma è quello di San Paolo: ebreo di Tarso in Cilicia, perfettamente ellenizzato, era cittadino romano fin dalla nascita. Egli predicava a Gerusalemme, quando, nel 57 d.C., la popolazione ebraica insorge e lo fa arrestare. Al tempo era governatore di Giudea Porcio Festo. Portato dinanzi al tribuno Lisia, questi si prepara a farlo flagellare, quando Paolo dichiara di essere cittadino romano. Il tribuno, allarmato, ordina subito di rilasciarlo, poiché nessun cittadino romano poteva essere torturato prima di essere processato:

«Lo ascoltarono fino a questo punto e poi alzarono la voce dicendo: “Toglilo di mezzo, non è degno di vivere”. Siccome continuavano a strillare contro di lui, gettavano via le sue vesti e lanciavano la polvere in aria, il tribuno ordinò di condurlo nella fortezza, di percuoterlo con la frusta e torturarlo per sapere per quale motivo gridassero così contro di lui. E quando lo ebbero ben legato con funi, Paolo disse al centurione vicino a sè: “Vi è consentito flagellare un cittadino romano non ancora giudicato?” Sentito questo, il centurione si rivolse al tribuno e lo avvertì dicendo: “Cosa stai per fare? Quest’uomo è un cittadino romano”. Allora il tribuno si avvicinò poi a lui e disse: “Dimmi, sei cittadino”; e quello rispose: “Sì”. Il tribuno replicò: “Ho ottenuto questa cittadinanza con molta fatica”. E Paolo rispose: ” Io invece lo sono di nascita”. Allora immediatamente quelli che dovevano interrogarlo si allontanarono da lui; lo stesso tribuno ebbe paura dopo aver saputo che egli era cittadino romano e lui lo aveva legato.»

Atti degli Apostoli, XXII, 25-29

Dal racconto emerge anche il fatto che il tribuno Claudio Lisia aveva ottenuto la cittadinanza tramite la corruzione: una pratica non tutto da escludere neanche nell’antichità. Un cittadino romano, come Paolo, non poteva essere torturato prima di un regolare processo. È interessante notare la risposta del tribuno, comandante della guarnigione romana di Gerusalemme, che ammette di essersi comprato la cittadinanza. Ed è altrettanto impressionante la differenza di trattamento tra un comune ebreo di qualche decennio prima, crocifisso senza troppe remore da Ponzio Pilato e un ebreo, ma cittadino romano, che evita la tortura e ottiene la revisione del processo.

Fu portato in prigionia a Cesarea, in Palestina, dove rimase due anni e incontrò il governatore Porcio Festo e il re Marco Giulio Agrippa II. Nell’autunno del 59 cominciò il viaggio in mare verso Roma, venendo colto da una tempesta che causò il naufragio e il riparo a Malta. Giunto a Roma sarebbe rimasto agli arresti per altri due anni, ottenendo poi forse la scarcerazione e riprendendo la predicazione, viaggiando anche in Spagna, prima della morte che la tradizione cattolica colloca in concomitanza delle persecuzioni neroniane, per decapitazione (una morte più rapida riservata ai cittadini romani), nel 67 d.C.

Queste garanzie legali, ancora percepibili nel I secolo d.C., declinarono a partire dalla metà del secolo seguente, quando la giurisprudenza romana iniziò a distinguere non più tra cittadini e stranieri ma tra honestiores humiliores, ovvero tra abbienti e meno abbienti. Quando Caracalla decise di estendere la cittadinanza a tutti nel 212 d.C., non c’erano solo motivazioni fiscali o politiche, ma anche il riconoscimento di un’uguaglianza ormai sempre più visibile. D’altro canto, la perdita di numerosi contribuenti in seguito alla peste antonina e la svalutazione in corso della moneta resero inevitabile l’aumento delle tasse, nascosto dietro un provvedimento all’apparenza puramente benefico.

La cittadinanza romana

Durante un discorso in senato nel 48 d.C., l’imperatore Claudio propose una legge che concedeva lo ius honorum (il diritto a ricoprire cariche politiche) ai cittadini Romani della Gallia Comata,  cioè la possibilità di entrare in senato. Ci furono dure reazioni dei senatori, indignati. Claudio allora pronunciò un discorso storico, riportato da Tacito e confermato da un’epigrafe rinvenuta a Lione:

«I miei antenati, al più antico dei quali, Clauso, venuto dalla Sabina, furono conferiti insieme la cittadinanza romana e il patriziato, mi esortano ad adottare gli stessi criteri […] non ignoro che i Giuli vennero da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porcii da Tuscolo e, per non risalire ad epoche più antiche, furono tratti in Senato uomini dall’ Etruria, dalla Lucania e da tutta l’Italia […] A quale altra cagione fu da attribuirsi la rovina degli Spartani e degli Ateniesi, se non al fatto che essi, per quanto prevalessero con le armi, consideravano i vinti come stranieri?Romolo, nostro fondatore, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini. Stranieri presso di noi ottennero il regno […] O padri coscritti, tutte le cose che si credono antichissime furono nuove un tempo […] Anche questa nostra deliberazione invecchierà, e quello che oggi noi giustifichiamo con antichi esempi, sarà un giorno citato fra gli esempi.»

Tacito, Annales, XI, 24
L’imperatore Cacalla

Nel 212 d.C. l’imperatore Caracalla decise di concedere la cittadinanza romana a tutti (o quasi) gli abitanti liberi dell’impero romano. Un provvedimento storico, che però le fonti antiche lasciano passare in sordina. Nell’impero romano, e ancora prima durante la repubblica, la cittadinanza non era una questione di sangue, come accadeva in Grecia: ad Atene solo gli uomini adulti, figli di genitori ateniesi, potevano partecipare alla democrazia. A partire dal principato tutta l’Italia godeva dello ius italicum, ossia dell’esenzione dalle imposte dirette, abolite per i romani dopo la vittoria nella terza guerra macedonica (171-68 a.C.), che aveva consentito all’erario di accumulare enormi fortune.

Per secoli i cittadini romani erano stati soggetti quasi esclusivamente alle sole tasse indirette, come la ventesima sull’eredità. La continua dilatazione della res publica aveva permesso di mantenere intatti questi privilegi fiscali, fino al principato di Marco Aurelio (161-180 d.C.) quando, a causa della peste antonina, era avvenuta una drastica diminuzione della popolazione e quindi di contribuenti. Secondo stime moderne l’epidemia, chiamata dagli antichi peste (è ipotesi comune tra gli studiosi che si trattasse di vaiolo), avrebbe causato la morte di un quarto o addirittura un terzo della popolazione totale dell’impero, stimata precedentemente in circa 60 milioni di persone.

Già a partire da Settimio Severo era in atto una forte svalutazione monetaria (preceduta da decise spinte inflazionistiche al tempo di Marco Aurelio e Commodo), con il denario che conteneva ormai meno del 50% dell’argento. Fino ad allora la moneta valeva tanto argento quanto pesava, mentre a partire dall’età severiana si cominciò a dargli un valore nominale. Severo d’altra parte per controbilanciare la perdita di potere economico dell’esercito, cui doveva l’acquisizione della porpora, ne aumentò la paga, che era rimasta invariata da Domiziano, alla fine del I secolo d.C. Pochi anni dopo Caracalla alzò di nuovo gli stipendi, seguendo il precetto paterno ricevuto in punto di morte insieme al fratello Geta (quest’ultimo soggetto a fratricidio poco tempo dopo): “andate d’accordo, arricchite i soldati e non preoccupatevi degli altri”. È proprio in questa chiave che Cassio Dione commenta polemicamente l’editto di Caracalla, considerato semplicemente un modo per rimpinguare le casse pubbliche. Ma è anche vero che l’imperatore, consapevole delle problematiche economiche, aveva deciso di coniare una nuova moneta, l’antoniniano, dal peso di un denario e mezzo ma dal valore nominale di due: in questo modo con l’argento che entrava nelle casse imperiali attraverso la tassazione si poteva battere più moneta di prima e spendere di più. Caracalla inoltre adorava la figura di Alessandro Magno e si era ispirato anche a lui: il macedone aveva infatti deciso, dopo la conquista della Persia, di unire macedoni e persiane in matrimonio, in modo da eliminare ogni distinzione tra vincitori e sconfitti.

Gli storici devono destreggiarsi tra testimonianze entusiastiche o fortemente critiche, potendo fare affidamento su un unico documento ufficiale che ne parli, il papiro Giessen n.40. Nell’impero romano i provinciali sottomessi, che non erano cittadini, erano chiamati peregrini; a questi si aggiungevano i dediticii (letteralmente “coloro che si sono dati”), gruppi tribali che vivevano in zone remote, nomadi, gladiatori liberati o prigionieri di guerra che si erano consegnati (da cui l’origine del nome). Nel testo del papiro di Giessen è presente una lacuna subito prima la parola dediticii: la cittadinanza era data a tutti compresi o esclusi i dediticii? Gli storici moderni, come Barbero, concordano nel dire che i dediticii siano stati probabilmente esclusi da questo provvedimento. Ma, in ogni caso, quasi tutti gli abitanti liberi dell’impero si trovavano ad essere, improvvisamente, cittadini romani.

Il papiro Giessen n.40

Quando si otteneva la cittadinanza direttamente dall’amministrazione, come nel caso dell’esercito, si prendeva il nome dell’imperatore. Fu così che interi reparti dell’esercito furono formati da un giorno all’altro da soldati che si chiamavano Marco Aurelio più il loro nome natio. Infatti, quando si diventava cittadini si prendeva il praenomen e il nomen di chi concedeva la cittadinanza (in questo caso Marco Aurelio Antonino Caracalla), mantenendo il cognomen originario.

Fino a quel momento la metà dell’esercito romano era stato formato da ausiliari reclutati in larga parte tra i peregrini delle province (mentre le legioni erano formate da cittadini romani), che ricevevano la cittadinanza romana al congedo, su un diploma di bronzo (l’emerita missio). La cittadinanza era tanto ambita che un veterano della Pannonia, Dasente figlio di Dasmeno, di cui è stata trovata la lapide a lui dedicata dai figli, diede loro i nomi di Emeritus ed Emerita. Un cittadino di Alessandria, Marco Aurelio Melas, decise di scolpire un’iscrizione nello stesso 212 d.C. in lode dell’imperatore Caracalla, chiamandolo “salvatore del mondo intero”. Un altro neocittadino, Marco Aurelio Zosimo, definì la concessione della cittadinanza “il sacro dono”.

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San Paolo, cittadino romano
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