Nel 204 a.C. Scipione era sbarcato in Africa, dopo che anche gli ultimi aiuti cartaginesi per Annibale in Italia erano falliti (il fratello Asdrubale era stato sconfitto da Livio Salinatore e Claudio Nerone presso il Metauro nel 207 a.C. e la sua testa era stata poi lanciata nel campo di Annibale). Anche Annibale fu costretto a fare ritorno in Africa, ormai senza rifornimenti e l’aiuto delle popolazioni italiche, in parte rimaste fedeli a Roma in parte punite da quest’ultima e tornate dunque sotto l’egida romana. Scipione, compresa e messa in pratica la tattica di Annibale che faceva largo uso della cavalleria numidica per accerchiare il nemico, riuscì a far passare dalla sua parte anche il principe numida Massinissa, a cui fu promesso il trono, al momento tenuto da Siface, alleato con i cartaginesi. La sua cavalleria sarà fondamentale per la vittoria romana. Il senato cartaginese richiamò Annibale che sbarcò ad Hadrumetum, più di trent’anni dopo aver lasciato l’Africa, nel 203 a.C., con i suoi 15.000 veterani della campagna d’Italia.

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Zama e la fine della seconda guerra punica

I cartaginesi, mentre organizzavano un nuovo esercito per Annibale, sicuri di vincere, rifiutarono le condizioni di pace di Scipione. I due eserciti si incontrarono nei pressi di Zama, la cui posizione non è del tutto sicura. Scipione aveva circa 35.000 uomini, di cui più di 4.000 erano cavalieri numidi. L’esercito di Annibale era forse leggermente più numeroso, circa 45-50.000 uomini stando a Livio e Polibio (12.000 mercenari liguri, celti, baleari e mauri, 15.000 libici e cartaginesi, 15.000 veterani e forse 4.000 macedoni, più 4.000 cavalieri di cui la metà numidi e 80 elefanti). Annibale tentò anche di trovare un accordo di pace il giorno prima della battaglia, chiedendo un incontro con Scipione, che avvenne, ma nel quale il romano rifiutò ogni resa che non fosse incondizionata. Il cartaginese schierò gli elefanti davanti e la cavalleria ai fianchi, lasciando i 15.000 veterani come riserva, più indietro di uno stadio, circa 200 metri, in modo che potessero intervenire se ce ne fosse stato il bisogno. Scipione schierò l’esercito secondo il triplex acies manipolare, con i veliti davanti e la cavalleria, più numerosa ai fianchi.

Gli elefanti guidarono la carica cartaginese, ma i veliti riuscirono a creare scompiglio e a ritirarsi negli spazi dei manipoli dietro di loro, opportunamente lasciati in colonna e non a scacchiera come al solito per permettere agli elefanti imbizzarriti di passare senza causare perdite. Un’altra parte degli elefanti, impazziti per il frastuono che facevano i romani per spaventarli, ripiegarono contro l’ala sinistra cartaginese, creando il caos tra i numidi di Annibale. Già scompaginati, questi furono attaccati dai cavalieri di Massinissa, mandandoli in rotta. Altri elefanti scapparono verso l’ala destra cartaginese, causando caos anche nella cavalleria punica, che venne affrontata e messa in rotta da quella italica comandata da Lelio. Forse Annibale aveva studiato il piano fin dall’inizio: permettere alla sua cavalleria di ritirarsi e farsi inseguire per vincere la battaglia con la fanteria, più numerosa, e nel caso impiegare i veterani per dare il colpo di grazia ai romani.

Gli astati ebbero inizialmente la meglio ma Annibale poteva contare su più fanteria e lanciò nella mischia anche i veterani, mentre Scipione ordinava ai triari di collocarsi ai fianchi e proteggere i principi. La battaglia fu estremamente furiosa e i legionari di Scipione, in parte sopravvissuti delle legioni cannensi, fecero di tutto per resistere, altrimenti sarebbe stato proibito loro di tornare in Italia. Scipione, costretto dall’inferiorità numerica, dovette lasciare i triari larghi alle estremità, mentre i veterani di Annibale si battevano strenuamente. Fu allora, quando i romani cominciavano ad arretrare, che Lelio e Massinissa fecero il loro ritorno sul campo di battaglia, cogliendo alle spalle i veterani di Annibale. Stavolta era veramente la fine: l’esercito cartaginese era in fuga e Scipione era appena diventato l’Africano e il primo a battere Annibale.

Le condizioni di pace romane saranno durissime e piegheranno Cartagine per i successivi 50 anni, costretta a versare un tributo nel complesso di 10.000 talenti. Inoltre doveva:

  • consegnare la Spagna a Roma
  • evacuare i territori numidi
  • consegnare tutti gli elefanti e i prigionieri di guerra
  • ridurre la flotta a sole 10 triremi
  • non arruolare truppe tra galli e liguri
  • consultare Roma per ogni decisione politica in campo internazionale

Per Cartagine era la fine (e la fine del pagamento dei tributi e la paura di una sua rinascita porteranno alla terza guerra punica, la presa di Cartagine e la sua distruzione nel 146 a.C.), per Roma, nonostante le gravissime perdite della seconda guerra punica, era l’inizio dell’espansione nel Mediterraneo. Annibale restò a Cartagine, ma quando temette di essere venduto ai romani fuggì in oriente, prima da Antioco III, il quale venne sconfitto sonoramente dai romani a Magnesia nel 189 a.C., e poi dal re di Bitinia Prusa. Quando Tito Quinzio Flaminino, vincitore di Cinocefale, venne a sapere che si trovava in Bitinia, chiese al re di consegnarlo ai romani. Prima che potesse farlo Annibale si tolse la vita con del veleno. Era probabilmente il 183 a.C., lo stesso anno in cui sarebbe morto Scipione Africano.

Fine della vita politica dell’Africano

Finita la guerra, Scipione nel 199 diventò censoreprinceps senatus e di nuovo console nel 194. Insolitamente per l’epoca si ritirò a vita privata, ma nel 190 accettò di andare come legato del fratello Lucio e Gaio Lelio (che comandava la cavalleria romana a Zama), entrambi consoli, in Grecia, ad affrontare Antioco III, re dei Seleucidi. Infatti Antioco III, che voleva conquistare la Grecia, aveva tra le proprie fila Annibale. Per Scipione il cartaginese era la sua nemesi. Nonostante l’Africano fosse ammalato, nel 189 a.C. a Magnesia, in Asia Minore, i romani vinsero. Antioco, pur di compiacere i romani, era disposto a consegnare il cartaginese, che fuggì alla corte del re di Bitinia, Prusa. I romani, tuttavia, ossessionati dal cartaginese, cercarono di assassinarlo, ma prima di riuscirci Annibale si tolse la vita con del veleno. Era all’incirca il 183 a.C.

Nel frattempo Lucio, fratello dell’Africano, aveva ottenuto il soprannome di Asiatico. Publio si ritirò a vita privata in Campania, a Literno, dopo che Catone lo accusò di aver comprato una pace favorevole con il re seleucida Antioco III. Per uno strano scherzo del destino morì anch’egli nel 183 a.C., cinquantenne, ormai distrutto dalle accuse di Marco Porcio Catone che in quello stesso 184 era stato eletto censore. La sua tomba lanciava una forte accusa contro la patria che riteneva lo avesse tradito:

«Ingrata patria, ne ossa quidem mea habes»
«Patria ingrata, non avrai mai le mia ossia»

Valerio Massimo, V, 3, 2

Questo è il ritratto che ne fa Polibio:

« A mio avviso, Publio aveva un carattere e tenne una linea di condotta molto simile a quella del legislatore spartano Licurgo. […] [non dobbiamo credere che] Publio abbia dato alla propria patria un impero del genere, lasciandosi guidare dalle suggestioni di sogni e di presagi. Al contrario, poiché entrambi ritenevano che la maggior parte degli uomini non accettasse facilmente ciò che ha dello straordinario, e neppure avesse il coraggio di affrontare i pericoli senza il benestare degli Dei, […] Publio fece in modo che gli uomini che aveva sotto il suo comando diventassero più coraggiosi e pronti ad affrontare i rischi delle imprese di guerra, convincendoli che i suoi piani fossero ispirati dagli Dei. »

Polibio, Storie, X, 2.8-10

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Scipione Africano: dall’apogeo al declino
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