Lucio Cornelio Silla nacque nel 138 a.C. a Roma; apparteneva ad un ramo della gens Cornelia tra i meno influenti nell’Urbe. Alcuni vociferavano che ottenne le ricchezze per entrare in senato seducendo ed ereditando da un’anziana ricca prostituta. Nel 107 a.C. divenne infine questore di Gaio Mario, dando il via alla sua straordinaria carriera politica.

Dalla guerra giugurtina alla guerra sociale

Proprio grazie all’intervento di Silla, che convinse il re della Mauretania Bocco a passare dalla parte dei romani, Mario riuscì a portare a termine la guerra numidica. Bocco infatti riuscì a convincere ad un incontro Giugurta, dove venne catturato e consegnato a Mario. Negli anni seguenti Silla continuò ad essere uno degli ufficiali superiori di Mario durante le campagne contro cimbri e teutoni, specialmente nella battaglia dei Campi Raudii. Silla riuscì a farsi eleggere pretore urbano grazie ai suoi successi, nonostante venisse accusato di aver corrotto gli elettori. Al termine della pretura, nel 96 a.C., gli fu data la Cilicia:

«Dopo l’anno di pretura, [Silla] fu inviato in Cappadocia. Motivo ufficiale della sua missione era il porre di nuovo sul trono Ariobarzane I. In verità egli aveva il compito di contenere e controllare l’espansione di Mitridate, che stava acquisendo nuovi domini e potenza non inferiori a quanti ne aveva ereditati.»

Plutarco, Vita di Silla, 5

Silla approfittò della posizione di potere, essendo il più alto magistrato in zona, per trattare direttamente con i parti sui confini della regione:

«Silla soggiornava lungo l’Eufrate, quando venne a trovarlo un certo Orobazo, un parto, quale ambasciatore del re degli Arsacidi. In passato non c’erano mai stati rapporti di sorta tra i due popoli. Tra le grandi fortune toccate a Silla, va ricordata anche questa. Egli fu infatti il primo romano che i Parti incontrarono, chiedendo alleanza e amicizia. In questa occasione si racconta che Silla fece disporre tre sgabelli, uno per Ariobarzane I, uno per Orobazo e uno per sé, e li ricevette mettendosi al centro tra i due. Di questa situazione alcuni lodano Silla, perché ebbe un contegno fiero di fronte a due barbari, altri lo accusano di impudenza e vanità oltre misura. Il re dei Parti, da parte sua, mise poi a morte Orobazo.»

Plutarco, Vita di Silla, 5

Ritornato a Roma, Silla comandò insieme a Mario alcuni degli eserciti impegnati nella guerra sociale; grazie anche alla cattura di Aeclanum, capitale degli irpini, Silla ottenne il consolato per l’88 a.C.

La guerra civile

Ottenuto poi il comando della guerra mitridatica, Silla dovette affrontare le resistenze di Mario, che con la forza si fece assegnare il comando della guerra grazie all’intervento del tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo. In quel momento Silla si trovava in Italia meridionale in attesa di imbarcarsi: decise di prendere le legioni più fedeli a lui e di marciare su Roma. Mario e i suoi, spaventati da una mossa inaudita, decisero di fuggire, mentre Silla, entrato nell’Urbe, cerca di ristabilire il potere del senato a danno dei comizi e dei tribunati della plebe. Silla decise poi di ripartire per l’oriente, mentre Mario rientrava a Roma, abolendo tutte le decisioni di Silla e facendolo dichiarare hostis publicus; tuttavia Mario morì in quello stesso 86 a.C.

La prima guerra mitridatica

«[Mitridate] aveva invocato come pretesto alla guerra davanti al nostro legato, Gaio Cassio Longino, il fatto che le frontiere erano state violate da Nicomede di Bitinia. Del resto insuperbito da un’enorme ambizione, ardeva dal desiderio di occupare l’intera Asia e se poteva anche l’Europa Gli davano speranza i nostri problemi: credeva che fosse il momento favorevole, poiché eravamo distratti dalle guerre civili e in lontananza Mario, Silla, Sertorio che mostravano indifeso il fianco dell’Impero.»

Floro, Compendio di Tito Livio, I, 40,3-4

Silla nel frattempo era arrivato in Grecia, dove Atene era appena caduta per mano di Mitridate, concentrato ad eliminare ovunque i mercanti romani e italici. Quando Silla riprese la città di Atene fu una massacro:

«Seguì ad Atene un grande e spietata strage. Gli abitanti erano troppo deboli per scappare, per mancanza di nutrimento. Silla ordinò un massacro indiscriminato, non risparmiando donne o bambini. Era adirato per il fatto che si erano così improvvisamente uniti ai barbari [mitridatici] senza causa, ed avevano mostrato una tale animosità verso lo stesso [comandante romano]. La maggior parte degli Ateniesi, quando sentirono l’ordine dato, si scagliarono contro le spade dei loro aggressori volontariamente. Alcuni presero la via che sale per l’Acropoli, tra i quali lo stesso tiranno Aristione, il quale aveva bruciato l’Odeon, in modo che Silla non potesse avere il legname a portata di mano per bruciare l’Acropoli.»

Appiano, Guerre mitridatiche, 38

Molti dei sopravvissuti furono poi venduti come schiavi. Silla prese poi il Pireo, mentre Archelao, comandante di Mitridate, fuggiva in Tessaglia:

«[…] i legionari romani, spronati dall’ardore del loro comandante, dalla gloria e dal pensiero che erano ormai prossimi a conquistare le mura nemiche, continuarono nel loro assalto. Archelao, rimasto sorpreso dalla loro persistenza insensata e folle, abbandonò le mura a loro e se ne andò verso quella parte del Pireo, che era stata maggiormente fortificata e circondata su tutti i lati dal mare, tanto più che Silla non aveva alcuna nave per attaccarla.»

Appiano, Guerre mitridatiche, 40

Seguirono due battaglie, a Cheronea ed Orcomeno, nell’86 a.C., dove i romani ebbero la meglio sui pontici, il cui esercito venne completamente distrutto.

Battaglia di Cheronea

«Quando [Silla] vide il nemico accampato in una regione rocciosa vicino a Cheronea, dove non c’era alcuna possibilità di fuga per coloro che fossero risultati sconfitti, prese possesso di un’ampia pianura nelle vicinanze, ed elaborò un piano, dove le sue forze avrebbero potuto costringere Archelao a combattere quando lo avessero voluto, e dove la pendenza della pianura avrebbe favorito i Romani, sia in caso di attacco, sia in caso di ritirata.»

«Archelao che non immaginava di combattere in quel momento, ragione per cui era stato negligente nella scelta del luogo del suo accampamento. Ora che i Romani stavano avanzando, si accorse tristemente e troppo tardi della sua posizione estremamente negativa, e mandò avanti un distaccamento di cavalleria per impedire il movimento [romano]. Il distaccamento fu però messo in fuga e distrutto tra le rocce. Egli quindi mandò 60 carri falcati, sperando di spezzare la formazione delle legioni romane e farle a pezzi per l’urto [del suo attacco]. I Romani aprirono i loro ranghi ed i carri si incunearono tra le file con il loro slancio fino alla parte posteriore [dello schieramento], ma prima che potessero tornare indietro, furono circondati e distrutti dai giavellotti della retroguardia.»

Appiano, Guerre mitridatiche, 42


«[Silla] colmò velocemente l’intervallo che divideva i due schieramenti ed in tal modo tolse efficacia alla carica dei carri falcati, che raggiungono la loro massima forza d’urto solo dopo una lunga “carica”, dando loro velocità e impeto necessario alla rottura attraverso la linea avversaria. Se la carica inizia da breve distanza risultano inefficaci e deboli […]. I primi carri partirono così debolmente e lentamente, che i Romani li respinsero, per poi batter loro le mani, scoppiando a ridere e chiedendo un “bis”, come sono soliti fare alle corse nel circo. Intervennero quindi le forze di fanteria. I barbari protesero in avanti le loro lunghe aste, e tentarono di serrare i loro scudi insieme, per mantenere la loro linea di battaglia unita e compatta, mentre i Romani lanciarono i giavellotti, e quindi impugnarono le spade, cercando di colpire le aste nemiche lateralmente, per poter venire ad un “corpo a corpo” il più velocemente possibile, nello stato di furore in cui si trovavano.»

Plutarco, Vita di Silla, 18, 2-4


«Archelao a questo punto decise di lanciare una “carica” di cavalleria contro l’armata romana, riuscendo ad incunearsi tra la stessa e spezzando così lo schieramento romano in due ora completamente circondati, anche per il ridotto numero dei Romani. I Romani, seppure circondati da ogni parte, combatterono con grande con coraggio. I distaccamenti di Galba ed Ortensio, che si trovavano in maggiori difficoltà per l’attacco a loro diretto dallo stesso Archelao, reagirono con il più alto senso di responsabilità e valore.»

«Quando le due ali dello schieramento di Archelao cominciarono a cedere, anche il centro non riuscì più a mantenere la posizione e si diede alla fuga in modo disordinato. Poi tutto quello che Silla aveva previsto, capitò al nemico. Non avendo spazio per girarsi o un campo aperto per fuggire, molti si rifugiarono tra le rocce inseguiti [dai Romani]. Alcuni di loro caddero nelle mani dei Romani. Altri con più saggezza fuggirono verso il loro accampamento. Archelao si mise allora di fronte a loro sbarrandone l’ingresso, ed ordinò loro di girarsi ad affrontare il nemico, poiché così dimostravano la più grande inesperienza all’esigenza di combattere. Le truppe allora gli obbedirono con grande prontezza, ma non avevano più né i generali, né altri comandanti ad allinearli, o dare ordini che li ponessero nel reparto a cui appartenevano, ma erano sparsi in totale confusione, poiché inseguiti erano andati a trovarsi in un posto troppo stretto per fuggire o per combattere, furono quindi uccisi senza alcuna resistenza da parte loro, non potendo reagire; altri invece furono calpestati dai loro stessi amici nella confusione generale. E così molti tentarono, ancora una volta, la fuga verso le porte del campo, attorno alle quali si sono ammassati. […] Infine Archelao, avendo lasciato trascorrere troppo tempo rispetto a quello necessario, aprì le porte dell’accampamento ricevendo i fuggiaschi in modo disordinato. Quando i Romani videro ciò, per loro fu una manna, poiché fecero irruzione nell’accampamento insieme ai fuggitivi, ed ottennero una vittoria completa.»

Appiano, Guerre mitridatiche, 43-44


Battaglia di Orcomeno

«Tra tutte le pianure della Beozia, questa è la più grande e più bella, che inizia dalla città di Orcomeno e si sviluppa piana e priva di alberi, fino alle paludi in cui il fiume Melas si perde. Questo fiume sgorga sotto l’acropoli della città di Orcomeno, e si tratta dell’unico fiume greco navigabile e di grande portata fin dalle sue fonti, entrando in piena verso il solstizio d’estate, come il fiume Nilo, e genera piante come quelle che vi crescono senza frutto. Il suo percorso è breve, tuttavia, e scompare nella vicina palude generando dei laghi, mentre una piccola parte di esso si unisce per un breve tratto con il vicino fiume Cefiso, nei pressi della palude adatto a produrre la famosa canna per flauti.»

Plutarco, Vita di Silla, 20.4-5


«Allora Silla scese da cavallo, afferrò un’insegna e si aprì un varco attraverso i fuggitivi in direzione del nemico, gridando: “Possa avere io, o Romani, una morte onorevole qui, ma voi, quando vi chiederanno dove avete abbandonato il vostro comandante ricordatevi di dire loro: a Orcomeno”. Queste parole fecero sì che i fuggitivi tornassero sui loro passi, mentre due coorti si radunarono sull’ala destra per venirgli in aiuto: Silla allora le condusse contro il nemico e lo mise in fuga. Poi retrocedette un poco, e dopo aver saziato i suoi soldati con del cibo, ancora una volta riprese lo scavo della fossa, che doveva servire ad isolare il nemico. Ma i barbari lo attaccarono di nuovo con maggior ordine di prima, Diogene, figliastro di Archelao, che combatté valorosamente lungo la loro “ala destra”, cadde gloriosamente, mentre i loro arcieri, erano talmente pressati dai Romani, da non avere lo spazio per scaricare i loro archi e da prendere le loro frecce a piene mani, per colpire [i Romani] come fossero delle spade a distanza ravvicinata. Alla fine furono però rinchiusi nel loro accampamento e vi trascorsero la notte in modo assai triste per il grande numero dei loro morti e feriti.»

Plutarco, Vita di Silla, 21.2-3


«I Romani, protetti dai loro scudi, stavano demolendo un certo angolo del campo nemico, quando i barbari saltarono giù dal parapetto interno e si fermarono intorno a questo angolo con le spade sguainate per cacciare gli invasori. Nessuno osava entrare fino a quando il tribuno militare, Basillus, per primo saltò all’interno del campo e uccise l’uomo di fronte a lui. Poi tutto l’esercito lo seguì. Seguì una vera e propria carneficina dei barbari.»

Appiano, Guerre mitridatiche, 50


Conseguenze

«Quando Mitridate seppe della sconfitta a Orcomeno, rifletté sull’immenso numero di armati che aveva mandato in Grecia fin dal principio, e il continuo e rapido disastro che li aveva colpiti. In conseguenza di ciò, decise di mandare a dire ad Archelao di trattare la pace alle migliori condizioni possibili. Quest’ultimo ebbe allora un colloquio con Silla in cui disse: “il padre di re Mitridate era amico tuo, o Silla. Fu coinvolto in questa guerra a causa della rapacità degli altri comandanti romani. Egli chiede di avvalersi del tuo carattere virtuoso per ottenere la pace, se gli accorderai condizioni eque“.»

Appiano, Guerre mitridatiche, 54

L’esercito pontico, completamente distrutto, condusse Mitridate a trattare. Il trattato di Dardano, dell’85 a.C., riconsegnò ai romani il dominio sulla Grecia e l’Asia minore occidentale, oltre al versamento, secondo Plutarco, di 2.000 talenti e 70 navi:

«Una volta passato in Asia, Silla trovò Mitridate supplicante e disposto a fare ciò che voleva. Gli impose il pagamento di una somma di denaro e la consegna di una parte delle sue navi. Lo costrinse quindi a ritirarsi dall’Asia e dalle altre province che aveva occupato. Riprese i prigionieri, punì coloro che avevano disertato ed i colpevoli. Ordinò infine a Mitridate di rimanere dentro i confini del regno paterno, del Ponto.»

Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, II, 23.6

«[Silla rispose ad Archelao] “Se fu fatta un’ingiustizia a Mitridate, o Archelao, egli avrebbe dovuto mandare un’ambasciata per dimostrare come fu offeso, invece di mettersi dalla parte del torto, sconfinando su vasti territori che appartengono ad altri, uccidendo un numero così immenso di persone, togliendo i tesori pubblici e sacri della città, confiscando proprietà private di coloro che egli distrusse. Si è comportato in modo perfido sia con i suoi amici, proprio come con noi, molti dei quali mise a morte, tra cui i Tetrarchi che aveva condotto insieme ad un banchetto, insieme alle loro mogli e figli, sebbene non avessero commesso alcun atto ostile contro di lui. Verso di noi fu mosso da un odio innato, piuttosto che una reale necessità di guerra, portando ogni genere di calamità su gli Italici in tutta l’Asia, torturando e uccidendo tutti quelli della nostra razza, insieme con le loro mogli, i loro figli e servitori. Un tale odio ha portato questo uomo all’Italia, ed ora pretende amicizia per suo padre! Un’amicizia che hai dimenticato finché non sono stati uccisi 160.000 armati tra le tue truppe!”. […]
“Invece di trattare per la pace, dovrei essere assolutamente implacabile verso di lui, ma per il vostro bene [rivolto ad Archelao] mi impegno ad ottenere da Roma il suo perdono, se si pente realmente. Ma se lui sta giocando in modo ipocrita di nuovo, vi consiglio, o Archelao, di guardarvi le spalle. Pensate a quali rapporti avete, oggi, tra voi e lui. Tenete a mente come egli ha trattato gli suoi altri amici e di come [noi Romani] abbiamo invece trattato il [re] Eumene [di Pergamo] ed il [re] Massinissa [di Numidia].”[…]
“Se Mitridate consegna a noi tutta la flotta in vostro possesso, se ci consegnerà tutti i nostri generali, gli ambasciatori, i prigionieri, i disertori e gli schiavi fuggitivi; se restituirà le loro case agli abitanti di Chio ed a tutti gli altri che egli ha condotto nel Ponto; se rimuoverà i suoi presidi da tutti i luoghi, ad eccezione di quelli dove era già presente dello scoppio delle ostilità; se vorrà pagare il costo della guerra sostenuta per causa sua, e rimanere contento dei domini che aveva in precedenza, io spero di convincere i Romani a dimenticare le ferite che ha fatto loro.”»

Appiano, Guerre mitridatiche, 54-55

La dittatura e il ritiro dalla vita politica

Alla morte di Cinna, nell’84 a.C., Silla rientrò a Roma, ottenendo anche l’appoggio di Gneo Pompeo, figlio di Strabone, che aveva guidato gli eserciti romani durante la fase finale della guerra sociale. Nel novembre dell’82 a.C. Silla entrò a Roma dopo aver sconfitto i populares (appoggiati dai sanniti) a Porta Collina. Morti entrambi i consoli, Silla venne eletto dittatore a tempo indeterminato dai comizi centuriati grazie alla lex Valeria de Sulla dictatore.

Silla possedeva poteri straordinari, compreso il diritto di condannare a morte, presentare leggi, scegliere i magistrati, effettuare confische, fondare città e colonie. Forte della sua posizione Silla decise di riformare la repubblica. Prima di tutto emanò delle liste di proscrizione, mettendo a morte gli oppositori politici; tra loro rischiò anche di finire Cesare (sua zia era moglie di Mario), che riuscì a fuggire in oriente. In sostanza Silla decise di intraprendere una politica di restaurazione del senato a scapito dei cavalieri e dei populares.

Il senato venne portato a 600 membri, mentre veniva fissato il cursus honorum: la questura portava automaticamente alla cooptazione nell’assemblea. Seguiva l’edilità o il tribunato della plebe, la pretura e il consolato. Al senato venne anche restituito il controllo dei processi (quindi nel caso di malversazioni i senatori si giudicavano tra di loro), dato dai Gracchi ai cavalieri. Silla venne rieletto console nell’80 a.C., ma proprio quando era all’apice della carriera politica, nel 79 a.C., decise di abbandonare il potere e ritirarsi a vita privata, morendo nel 78 a.C.

Dopo la morte di Silla e la fine delle proscrizioni, iniziò la carriera politica del giovane Cesare, poco più che ventenne. Il discendente di Venere era infatti nipote di Gaio Mario e genero di Cinna, entrambi avversari della fazione sillana, e per questo venne proscritto dal dittatore. Era già in fuga verso Brindisi quando l’intercessione della madre Aurelia e delle vestali lo salvò; Silla infine cedette alle lamentele, esclamando “vedo molti Marii in un solo Cesare” (nam Caesari multos Marios inesse).

«Ma finalmente, per intercessione delle vergini Vestali, di Mamerco Emilio e di Aurelio Cotta, suoi parenti ed affini, ottenne il perdono. Pare certo che Silla, quando lo supplicarono i suoi più intimi amici, e uomini di altissimo rango, per qualche tempo oppose un rifiuto; ma poiché essi tenacemente insistevano, finalmente si lasciò piegare, ma dichiarò – o per ispirazione divina o per riflessione personale – che l’avessero pure vinta e se lo tenessero pure, purché sapessero che quello che essi tanto volevano salvo, un giorno o l’altro sarebbe stato la rovina proprio di quel partito degli ottimati che essi insieme con lui avevano difeso: in Cesare c’erano molti Marii.»

Svetonio, vita di Cesare, 1

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