La gens Claudia era una delle antiche e più prestigiose della storia romana: Appio Claudio Cieco costruì l’Appia e il primo acquedotto, Claudio Nerone console sconfisse Asdrubale che si stava ricongiungendo ad Annibale sul Metauro nel 207 a.C., il padre di Tiberio invece aveva guidato la flotta cesariana nella guerra alessandrina. Cinquantenne, mentre la madre Livia aveva solo quindici anni, era pretore mentre si combatteva a Filippi; seguì gli Antoniani durante il tentativo di rivolta di Fulvia e la guerra di Perugia, che però si risolse in un disastro e consegnò l’Italia a Ottaviano. Sostenitore di Antonio fino alla fine, scampò riparando in Grecia; fu solo quando Antonio e Ottaviano si riappacificarono che poté tornare in Italia.

L’imperatore che non voleva esserlo

Ritornato a Roma, il padre di Tiberio ricevette da Ottaviano la richiesta di avere in moglie Livia Drusilla, allora diciannovenne e incinta di sei mesi. Il marito fu felice di darla al futuro imperatore, per riappacificarsi con lui. Quest’ultimo aveva già spostato la tredicenne Claudia, figliastra di Antonio, da cui aveva divorziato per sposare Scribonia, imparentata con Sesto Pompeo, sperando di tenerlo a bada in Sicilia. Ma nel frattempo Pompeo era già passato dalla parte di Antonio. Tuttavia Scribonia gli aveva dato l’unica figlia, Giulia, che nasceva nello stesso giorno del divorzio.

Molti maliziosi sostennero già in antichità che Druso, il figlio che Livia portava in grembo, fosse figlio illegittimo di Ottaviano, ma in realtà i due non si incontrarono prima del concepimento. Ma, mentre Druso venne cresciuto in casa di Ottaviano, Tiberio rimase con il padre, che morì quando aveva nove anni; fu il giovanissimo Tiberio a pronunciare la sua laudatio funebris dai rostri. Solo allora seguì il fratello nella casa di Ottaviano. Pochi anni dopo, guidò insieme a Marco Claudio Marcello – nipote di Ottaviano – il carro che precedeva quello del trionfo del nipote di Cesare. Nel 25 a.C. Ottaviano, che aveva appena ricevuto il titolo onorifico di Augusto, inviò in Spagna (che fu pacificata solo in quegli anni) i sedicenni Tiberio e Marcello come tribuni militari; seguì il cursus honorum come questore, poi comandando nell’inverno del 21-20 a.C. un esercito in Armenia, regione in bilico tra romani e parti, riuscendo a far incoronare Tigrane III come re cliente.

Seguì la carriera politica ottenendo infine la pretura e seguendo Augusto in Gallia (16-13 a.C.), per aiutarlo nell’organizzazione della nuova provincia, per poi fare insieme una campagna punitiva oltre il Reno. Nel 15 a.C. Tiberio, insieme al fratello Druso, condusse i romani contro i reti, spingendo la frontiera romana fino al Danubio. Dal 12 al 9 a.C., subito dopo la morte di Agrippa, Tiberio condusse i romani contro i ribelli dalmato-illirici. La campagna, durissima, fu infine un successo, e gli venne concessa da Augusto un’ovazione e la processione per la via Sacra con le insegne trionfali, sebbene non fosse formalmente un trionfo. Poco dopo, nel 9 a.C., il fratello Druso morì, dopo una caduta da cavallo, mentre si trovava in Germania. Tiberio lo raggiunse rapidamente, appena in tempo per vederlo morire. Fu lui stesso a riportare il corpo a Roma e pronunciarne l’elogio funebre. Successivamente, nell’ 8-7 a.C., venne inviato di nuovo in Germania da Augusto, rafforzando il confine.

Augusto aveva avuto una predilizione fin dall’inizio per Marcello (figlio di Ottavia, sua sorella), coetaneo di Tiberio, a cui aveva dato in sposa la figlia Giulia avuta con Scribonia. Ma Marcello morì nel 23 a.C., e Agrippa nel 12 a.C. (che aveva sposato Giulia subito dopo). Alla morte di Agrippa Augusto decise di dare la figlia Giulia in sposa all’unico discendente possibile: il figliastro Tiberio, che nel 12 a.C. la sposò, costringendolo a ripudiare Vipsania Agrippina, figlia di Marco Vipsanio Agrippa, e da cui aveva avuto un figlio, Druso minore. I caratteri di Giulia e Tiberio erano però opposti: tanto licenziosa lei, quanto riservato lui; il rapporto si guastò quasi subito, quando morì loro figlio ancora infante. Nonostante questo Augusto decise di concedergli nel 6 a.C. la tribunicia potestas, il potere che conferiva la vera e propria dignità imperiale (si diventava in questo modo intoccabili e si aveva diritto di veto su qualsiasi decisione del senato). Ma Tiberio si ritirò in esilio volontario a Rodi

Infine anche i figli di Agrippa, Gaio e Lucio Cesare, morirono entrambi prematuramente; Lucio nel 2 d.C., ammalatosi, morì a Marsiglia, a soli 19 anni. Gaio due anni più tardi, nel 4 d.C., a 24 anni, per le ferite riportate durante la guerra in Armenia (Tigrane IV era stato ucciso e molti nobili armeni rifiutavano di riconoscere il re filoromano Ariobarzane), che gli avevano teso un’imboscata durante l’assedio di una fortezza. Il 26 giugno del 4 d.C. Augusto decise infine di adottare Tiberio (che nell’1 d.C. era tornato a Roma) come suo successore, a a patto che adottasse il nipote Germanico, figlio di Druso Maggiore, sebbene Tiberio avesse avuto già un figlio, Druso minore, avuto dalla prima moglie Vipsania. Contemporaneamente, per festeggiare, venne fatto un largo donativo all’esercito. Negli anni seguenti Tiberio combatté con notevoli successi in Germania, che i romani stavano ormai conquistando (almeno la parte a ovest dell’Elba), poi nell’Illirico, ancora in rivolta, e di nuovo in Germania, dopo il disastro di Varo che aveva perso tre legioni nella selva di Teutoburgo, nel 9 d.C. Pare che Augusto vagasse per il palazzo sbattendo la testa contro le porte e urlando: “Varo, rendimi le mie legioni!”, temendo un’invasione germanica fino in Italia.

«E non ignoro nemmeno che, secondo alcuni, [Augusto] acconsentì ad adottarlo solo per le preghiere di sua moglie, e anche spinto dal desiderio di farsi maggiormente rimpiangere, dandosi un simile successore. Non posso però credere che quel principe tanto circospetto e prudente abbia agito alla leggera in un caso di così grande importanza; credo piuttosto che abbia accuratamente pesato le virtù e i vizi di Tiberio e trovato maggiori le virtù, soprattutto tenendo conto che aveva giurato in assemblea di adottarlo nell’interesse dello stato, e che in molte sue lettere lo celebrò come un grande comandante militare e l’unico sostegno del popolo romano.»

«Mentre si parlava di queste cose e di altre simili, le condizioni di salute di Augusto si aggravavano e alcuni sospettavano la moglie di assassinio. Poiché s’era sparsa la voce che pochi mesi prima Augusto, confidatosi con pochi e accompagnato dal solo Fabio Massimo, si fosse recato a Pianosa per incontrare Agrippa; ivi, tra lacrime e dimostrazioni reciproche d’affetto, era sorta la speranza che il giovane potesse esser reso alla famiglia dell’avo. Fabio Massimo avrebbe riferito il fatto alla moglie Marcia, questa a sua volta a Livia. Cesare ne sarebbe stato informato. E non molto tempo dopo, spentosi Fabio – non si sa se di morte volontaria – ai funerali si sarebbe udita Marcia accusare piangendo se stessa d’esser stata la causa della morte del marito. Comunque sia andata, Tiberio era appena arrivato nell’Illirico, quando fu richiamato precipitosamente da una lettera della madre. E non è stato mai chiaro se abbia trovato Augusto in fin di vita, nei pressi di Nola, o già spirato. Livia infatti teneva il palazzo e le vie sbarrate con rigorosa custodia sì che di tanto in tanto correvano voci d’un miglioramento; fino a che, presi i provvedimenti che il momento esigeva, si seppe nello stesso momento che Augusto era deceduto e che Tiberio assumeva il potere.»

Svetonio, Tiberio, 21; Tacito, annali, i, 5

Imperatore

Nel 12 d.C. Tiberio celebrò il suo trionfo per la guerra illirica; nel 13 ottenne di nuovo la tribunicia potestas e l’imperium proconsulare maius. Mentre Tiberio si recava in Illirico per riorganizzare la provincia, nell’estate del 14, venne richiamato urgentemente perché Augusto stava morendo a Nola. Il 19 agosto l’imperatore morì; il 17 settembre Tiberio convocò il senato per leggerne il testamento, in cui lasciava come eredi il figlio adottivo e la moglie. Pare che Tiberio venne supplicato dai senatori di prendere il titolo del padre adottivo e che lui inizialmente rifiutò; non sappiamo se per modestia, o per altri motivi, ma infine accettò, non volendo lasciare la res publica priva di un capo.

«Il primo avvenimento del nuovo principato fu l’assassinio di Agrippa Postumo; benché preso alla sprovvista e inerme, non fu facile al centurione, che pure era uomo d’animo fermo, sopprimerlo. Tiberio in Senato non fé cenno dell’accaduto, fingendo che fosse un ordine del padre, il quale avrebbe ordinato al tribuno incaricato della custodia di non indugiare a uccidere Agrippa, non appena egli fosse giunto al giorno estremo. Senza dubbio Augusto aveva deplorato amaramente l’indole selvatica del giovane per ottenere che il Senato ne sancisse con un decreto l’esilio, ma non s’era mai spinto fino alla condanna capitale per uno dei suoi, né si poteva credere che avesse voluto spento il nipote per la sicurezza del figliastro; piuttosto che Tiberio e Livia, il primo per paura, la seconda per odio di matrigna, avessero affrettato l’omicidio del giovane, sospetto all’uno, inviso all’altra. Al centurione che, conforme all’uso militare, gli annunziò d’aver eseguito l’ordine, Tiberio disse di non averglielo ordinato affatto e che si doveva render conto del fatto al Senato. Al che Crispo Sallustio, che era a parte dei segreti era stato lui a mandare l’ordine scritto al centurione – temendo d’esser ritenuto responsabile, sia che mentisse sia che deponesse la verità, cose egualmente pericolose, ammonì Livia «che non era opportuno mettere in piazza i segreti di famiglia, i pareri degli intimi, gli ordini impartiti ai militari, né svigorire l’autorità del principato di Tiberio con il deferire ogni cosa al Senato. La logica del potere è questa: i conti tornano soltanto se si rendono a uno solo». A Roma intanto consoli, senatori, equestri si precipitarono a prestare ossequio, ciascuno quanto più altolocato, tanto più pronto a simulare; atteggiato il volto a non mostrarsi né lieto per la morte del principe né troppo spiacente per l’avvento del nuovo, esprimevano al tempo stesso lacrime ed esultanza, rammarico e adulazione. I consoli Sesto Pompeo, Seio Strabone e Sesto Apuleio giurarono per primi fedeltà a Tiberio; dopo di loro Caio Turrano, quello Prefetto delle coorti pretoriane, questo dell’Annona. Subito dopo il Senato, l’esercito e il popolo. Tiberio intanto non prendeva una iniziativa se non attraverso i consoli, come al tempo della repubblica, quasi fosse insicuro del suo potere; persino l’editto con il quale convocò i padri nella curia lo promulgò con la sola intestazione dell’autorità tribunicia che aveva ricevuta da Augusto. Breve l’editto e molto misurato: intendeva consultare i senatori a proposito delle onoranze da rendere al padre; quanto a lui, non si sarebbe allontanato dalla salma: questa sola, tra le funzioni pubbliche, si assumeva. Ma, non appena Augusto ebbe chiuso gli occhi, egli dettò la parola d’ordine ai pretoriani da imperatore, pretese sentinelle, armi e tutto ciò che si addice a una corte; si fece accompagnare da armati, sia che si recasse al foro o al Senato. Inviò messaggi agli eserciti come chi è in possesso del principato, mostrandosi esitante solo quando parlava in Senato. La ragione principale consisteva nel timore che Germanico, al comando di tante legioni e immense forze ausiliarie nonché estremamente amato dal popolo, preferisse aver subito il potere, anziché aspettarlo e Tiberio cercava di apparire chiamato ed eletto dalla repubblica, anziché per le manovre d’una moglie e l’adozione d’un vecchio. In seguito fu chiaro che s’era mostrato incerto per indagare le intenzioni dei notabili; e conservava nella mente espressioni dei volti e parole, interpretandole a loro danno. 8. Il primo giorno non permise si parlasse d’altro che delle esequie di Augusto, il cui testamento, recato dalle Vergini Vestali, designò eredi Tiberio e Livia; questa, adottata nella famiglia Julia, assumeva il titolo di Augusta; come secondi eredi, i nipoti e pronipoti, in terzo luogo i cittadini più eminenti, che per la maggior parte gli erano invisi, ma per ostentazione e gloria presso la posterità. Lasciò poi legati all’uso dei privati, tranne che settantacinque milioni di sesterzi alla plebe e al popolo, mille nummi ciascuno ai militari delle coorti pretoriane, cinquecento ciascuno a quelli delle coorti urbane, trecento ai legionari e alle milizie dell’Urbe. Poi si parlò delle onoranze funebri. Le più solenni parvero quelle proposte da Asinio Gallo, che il feretro passasse sotto l’arco trionfale e, secondo Lucio Arrunzio, lo precedessero i titoli delle leggi emanate e i nomi dei popoli vinti. Valerio Messalla aggiunse la proposta che si rinnovasse ogni anno il giuramento a Tiberio, al che questi gli chiese: te l’ho forse suggerito io? e quello a protestare d’averlo detto di testa sua, ché anzi per tutto ciò che riguardava lo Stato non si sarebbe mai valso d’altra opinione che della propria, anche a rischio di offendere: la sola forma di adulazione che mancava. I senatori poi a una voce gridarono che il corpo doveva esser portato al rogo su le loro spalle. Cesare acconsentì con misurata alterigia e con un editto ammonì il popolo che non si avventurasse, com’era accaduto per eccessiva devozione, ai funerali del divo Giulio, a voler cremare la salma di Augusto nel Foro anziché in Campo Marzio, luogo deputato a quest’uso. Il giorno dei funerali si vide uno schieramento di forze a presidio dell’ordine. Ridevano quelli che avevano assistito personalmente – o l’avevano sentito raccontare dai genitori – a quel giorno di servitù ancora acerba o di libertà recuperata in modo infausto, quando l’assassinio del dittatore Cesare era parso ad alcuni un avvenimento nefasto, ad altri invece estremamente fausto: e ora, ci voleva davvero un servizio d’ordine per far sì che si svolgessero senza incidenti le esequie d’un vecchio principe, che governava già da tanto tempo, con gli eredi già al potere! Si fece un gran parlare di Augusto, i più meravigliandosi di cose futili: che fosse morto lo stesso giorno in cui aveva assunto il potere e proprio a Nola, nella stessa casa, nella stessa camera in cui s’era spento suo padre Ottavio. Alcuni celebravano il numero dei suoi consolati, tanti quanti quelli di Valerio Corvo e Caio Mario messi assieme, la potestà tribunicia esercitata ininterrottamente per trentasette anni, il titolo d’imperatore ottenuto ventuno volte e altri onori, ripetuti e nuovi. Le persone di giudizio lodavano o criticavano in vario modo la sua esistenza: per alcuni era stato spinto alla guerra civile dalla devozione verso il padre e dalla situazione della repubblica, nella quale in quel momento non c’era legge che vigesse e, del resto, le guerre civili non si possono né preparare né combattere con mezzi legali. Dicevano che aveva fatto molte concessioni sia ad Antonio sia a Lepido pur di vendicarsi su gli assassini del padre. Mentre questo invecchiava nell’inerzia, quello degenerava nei piaceri, non vi fu altro rimedio alle discordie della patria se non il governo di uno solo. E tuttavia non aveva retto la repubblica da re o da dittatore, ma con il solo titolo di principe; l’impero aveva avuto per confini l’Oceano e fiumi lontani; legioni, province, flotte, composta insieme ogni cosa, regnava il diritto verso i cittadini, la moderazione verso gli alleati; l’urbe stessa splendidamente abbellita; raramente s’era fatto ricorso alla forza, al fine di assicurare la tranquillità di tutti. Alcuni al contrario dicevano che la devozione verso il padre e la situazione della repubblica erano state un pretesto; che per avidità di potere mediante largizioni aveva sollevato i veterani, ancora adolescente e semplice privato aveva adunato un esercito, corrotto le legioni del console, simulando d’esser sostenitore del partito di Sesto Pompeo. Poi, quando – a seguito d’un decreto del Senato – aveva usurpato i fasci e i diritti del pretore, caduti Irzio e Pansa, uccisi dal nemico, oppure Pansa per un veleno iniettato nella ferita, Irzio per mano dei suoi soldati per una trama ordita da chi si era impadronito degli eserciti di entrambi. Estorse il consolato, benché il Senato fosse contrario, volse contro la repubblica le armate tolte ad Antonio; la proscrizione dei cittadini, le spartizioni dei campi non furono lodate neppure da quelli che le eseguirono. Fossero pure Cassio e i due Bruti immolati all’odio del padre, benché sia sacro dovere rinunziare agli odii privati per il bene pubblico, ma Pompeo fu ingannato con una parvenza di pace, Lepido sotto il velo dell’amicizia; quanto poi ad Antonio, adescato con l’accordo di Brindisi e di Taranto e le nozze con la sorella, pagò con la morte quella insidiosa parentela. Indubbiamente, dopo questi fatti vi fu pace, ma grondante sangue: le sconfitte di Lollio e di Varo e a Roma le uccisioni di Varrone, Egnazio e Julo. Né ci si asteneva dai fatti privati: la moglie portata via a Nerone e consultati per ischerno i pontefici, se potesse sposarsi secondo il rito una donna che aveva concepito ma non ancora partorito; le dissipazioni di Q. Tedio e di Vedio Pollione; e infine Livia, madre funesta per la repubblica, matrigna funesta per la casa dei Cesari. Non aveva lasciato nulla per le onoranze agli dèi, mentre aveva voluto esser adorato nei templi da flàmini e sacerdoti nell’aspetto d’un dio. Tiberio, inoltre, non l’aveva assunto a successore per affetto o sollecitudine verso la repubblica, ma avendone intuito la boria e la crudeltà, aveva voluto procurarsi gloria attraverso un paragone ignobile. Pochi anni prima, infatti, quando aveva chiesto al Senato di conferire la potestà tribunicia a Tiberio per la seconda volta, benché nel suo discorso gli facesse onore, s’era lasciato sfuggire qualche allusione alle maniere, alla condotta e ai costumi di lui che sembrava volerlo scusare, ma in realtà lo riprovava. Comunque, celebrate le esequie secondo il costume, ad Augusto furono decretati un tempio e culto divino.»

TACITO, ANNALI, I, 6-11

Inizialmente il prestigio di Tiberio fu messo a dura prova dal nipote Germanico, che portò a termine diverse campagne a nord, recuperando due delle tre aquile di Teutoburgo e sconfiggendo Arminio ad Idistaviso. Germanico venne richiamato, non sappiamo se perchè Tiberio effettivamente temeva che la sua popolarità avrebbe messo a repentaglio il suo posto come imperatore, e inviato in oriente. A Germanico fu concesso un imperium proconsulare maius su tutto l’oriente da parte del senato, mentre Tiberio gli affiancava il burbero Gneo Calpurnio Pisone, nominato proconsole della Siria e suo ex collega nel consolato del 7 a.C. I due entrarono ben presto in conflitto e Germanico morì forse avvelenato dallo stesso Pisone già nel 19 d.C. Morto Germanico, venne scelto come successore il figlio Druso minore. Al tempo stesso acquisiva potere il prefetto al pretorio Lucio Elio Seiano, dopo la decisione di Tiberio di stanziare le nove coorti pretorie, prima sparse in tutta Italia, nei castra pretoria al limite di Roma. Seiano sedusse la moglie di Druso, Claudia Livilla, e poco tempo dopo, nel 23, Druso morì avvelenato. Ancora una volta i sospetti ricaddero su Tiberio, che però probabilmente era ancora una volta estraneo al delitto, in cui era coinvolta Livilla.

Mentre Seiano spadroneggiava a Roma, Tiberio, rimasto senza eredi (Tiberio Gemello, figlio di Druso minore, era nato nel 19 d.C. e il suo gemello, Germanico Gemello, era morto nel 23; inoltre non si era certi della paternità e alcuni supponevano che il padre fosse Seiano) e più che sessantenne, decise di ritirarsi in Campania e specialmente a Capri. Nel frattempo Seiano prese il potere a Roma, diventando in tutto e per tutto il capo dello stato. L’unione con Livilla credeva di aprirgli le porte per la successione, e nel 31 ottenne il consolato insieme all’imperatore. Ma fu proprio allora che Antonia minore, vedova di Druso maggiore e madre di Germanico e Claudio, inviò una lettera a Tiberio in cui paventava che Seiano fosse in procinto di effettuare un colpo di stato. Tiberio nominò segretamente Macrone, a capo delle coorti urbane, prefetto al pretorio e informò anche le coorti di vigiles, di arrestare Seiano. Con l’inganno, Macrone, dopo avergli detto falsamente che gli era stata conferita la tribunicia potestas, si congedò. Entrato in senato, venne letta una lettera di Tiberio, in cui alla fine improvvisamente comandava di arrestare Seiano. Il console Mummio Regolo procedette all’arresto, e poco dopo Macrone si presentò nei castra pretoria come nuovo prefetto. Seiano, portato nel Carcere Mamertino, venne condannato a morte dopo un rapido processo e strangolato, insieme ai suoi figli.

La morte di Tiberio

Tiberio trascorse i suoi ultimi anni a Capri, nella villa Iovis. Quando dovette procedere al testamento, erano ormai rimasti solo due eredi: Tiberio Gemello, quindicenne, e di cui si dubitava della paternità, il nipote Claudio, fratello di Germanico e figlio di Druso maggiore, mai preso in considerazione poiché zoppo e balbuziente, e il nipote Caio, detto poi Caligola, figlio di Germanico, amatissimo dal popolo, che poco più che ventenne sembrava la scelta migliore. Tiberio nel 37 lasciò Capri, forse per passare i suoi ultimi giorni a Roma, ma si fermò poco prima di entrare in città, forse titubante della reazione del popolo. Dopo un primo malore, fu portato a Miseno, dove fu creduto morto. Tacito riporta che venne infine soffocato:

«Il diciassettesimo giorno prima delle Calende di aprile, gli mancò il respiro e si credette che avesse cessato di vivere; già Caio Cesare, in mezzo a una folla di persone festanti, usciva a cogliere le primizie del potere, quando improvvisamente gli si riferì che Tiberio aveva recuperato la voce e la vista e chiamava qualcuno che gli portasse da mangiare per riprendersi dal deliquio. Si sparse il terrore e mentre gli altri si disperdevano qua e là, e chi si fingeva triste e chi mostrava di non saper nulla; Caio Cesare [Caligola] immobile, muto, caduto dal culmine delle speranze, si aspettava imminente chissà quale condanna. Macrone senza tremare ordinò di soffocare il vecchio sotto un cumulo di coperte e di allontanarsi dalla porta. Così finì Tiberio, a settantotto anni.»

Tacito, Annali, VI, 50

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Tiberio, l’imperatore che non voleva esserlo
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