Giulio Agricola, suocero di Tacito, nominato governatore della Britannia da Vespasiano, cominciò la sua campagna per pacificare l’isola nel 77 d.C. a partire dal Galles e dall’isola di Mona, sede dei druidi, già precedentemente razziata da Svetonio Paolino. I primi a fare le spese delle manovre del nuovo governatore furono gli ordovici, che avevano annientato un contingente di cavalleria ausiliaria poco tempo prima.

La spedizione di Agricola e la battaglia del Monte Graupio

Sembrerebbe che Agricola avesse anche fatto una breve spedizione in Ibernia (l’Irlanda) e costruito un piccolo forte (a Drumanargh), forse per pianificare una futura conquista, forse per regolare i commerci con la popolazione locale, forse per frenare eventuali incursioni marine verso la Britannia. Pare che il governatore romano andasse dicendo al suocero Tacito che gli sarebbe bastata una sola legione per conquistare l’isola e pacificarla.

Continuando le sue campagne vittoriose, Agricola si spinse ancora più in profondità, perseverando la sua campagna verso nord e respingendo i barbari. Nel sesto anno del suo proconsolato, nell’83 a.C., riuscì infine a costringere i caledoni, fino ad allora sfuggenti, a venire a battaglia presso il Monte Graupio. Infatti Agricola era riuscito a tagliare loro i rifornimenti e l’unica alternativa sarebbe stata quella di morire di stenti.

Celebre è discorso messo in bocca da Tacito al comandante caledone Calgaco, portatore di una forte critica verso l’imperialismo romano, ma al tempo stesso una implicita verso l’imperatore Domiziano, geloso dell’operato del suocero dello storico romano. Ma anche un manifesto verso l’integrità dei costumi dei barbari (così come nella Germania), che vivevano secondo natura e non si lasciavano condurre da continue lotte civili fratricide:

«Calgaco, insigne tra tutti i comandanti per valore e nobiltà, in mezzo a quella folla ammassata che chiedeva la battaglia: «Ogni volta che io cerco di guardare dentro alle cause della guerra e al destino che ci sovrasta, sento crescere la fiducia che questa giornata e il vostro accordo saranno l’inizio della libertà per tutta la Britannia. Perché tutti insieme vi siete qui radunati, perché non siete ancora contaminati dalla schiavitù, perché oltre noi non esiste alcuna terra. Nemmeno il mare è sicuro da quando ci minaccia la flotta romana. E dunque la guerra dichiarata è sì onorevole per i forti ma è anche il partito più sicuro per i vigliacchi. Le precedenti battaglie, che ci hanno visto combattere con esito alterno contro i Romani, lasciavano nelle nostre mani ogni speranza di auto, perché noi, i più nobili di tutta la Britannia (per questo abbiamo sede nei penetrali di questa terra e nemmeno vediamo i litorali degli schiavi), perfino gli occhi avevamo incontaminati dal contatto con la tirannide. Il nostro vivere appartati e l’oscurità della nostra fama hanno difeso fino a oggi noi, estremi abitatori delle terre e della libertà; ora il confine estremo della Britannia si apre e solo ciò che è ignoto passa per magnifico. Ma nessun popolo ha sede oltre noi, nulla c’è se non scogli o flutti: i Romani sono ancora più ostili e dalla loro superbia non c’è scampo nemmeno con l’ossequio e la sottomissione. Predatori del mondo intero: quando alle loro ruberie vennero meno le terre, si misero a frugare il mare. Se il nemico è ricco, eccoli avidi; se è povero, diventano arroganti. Né Oriente né Occidente potranno mai saziarli: soli fra tutti gli uomini riescono a essere ugualmente avidi della ricchezza e della povertà. Depredare, trucidare, rubare essi chiamano col nome bugiardo di impero. Dove passano, creano deserto e lo chiamano pace. La legge di natura fa sì che tutti gli uomini amino sopra ogni cosa i figli e i congiunti: questi ci sono strappati con gli arruolamenti per portarli, come schiavi, altrove. Le mogli e le sorelle, anche se sfuggono agli stupri dei nemici, sono violate con la scusa dell’amicizia e dell’ospitalità. I beni e le rendite sfumano nei tributi, il raccolto annuo nelle contribuzioni in frumento; perfino i corpi e le braccia vengono logorati, in mezzo alle percosse e agli insulti, per aprire strade tra foreste e paludi. Gli schiavi di nascita sono venduti una volta sola e inoltre il padrone li sfama. La Britannia compra la sua schiavitù ogni giorno e ogni giorno la nutre. E come tra i servi di una casa, lo schiavo ultimo arrivato è oggetto di scherno anche dai suoi compagni di servitù, noi, in questo antico asservimento del mondo intero, siamo gli ultimi e valiamo meno di tutti; ci cercano per mandarci a morire. Non ci sono campi, miniere o porti in cui lavorare e per i quali ci vogliano riserbare. Il valore e la fierezza dei sudditi sono invisi ai dominatori e la nostra solitaria lontananza, quanto più è sicura tanto più è sospetta. Non c’è dunque speranza di essere risparmiati: armatevi di coraggio sia voi che avete cara la vita sia voi che desiderate fortemente la gloria. I Briganti, sotto il comando di una donna, sono riusciti a incendiare una colonia, a espugnare accampamenti. Se l’ebbrezza della vittoria non li avesse infiacchiti, davvero avrebbero potuto scuotere il giogo. Noi che siamo integri, indomiti, pronti a combattere per la libertà e non per pentircene, mostriamo subito, al primo scontro, che uomini si sia tenuta in serbo la Caledonia. Voi pensate che i Romani siano in guerra tanto valorosi quanto sono insolenti in pace? Sono bravi a trasformare in gloria del loro esercito quelle che sono in realtà le nostre colpe: grandi li abbiamo fatti noi coi nostri dissensi e con le nostre discordie. Il loro esercito è un’accozzaglia di genti straniere l’una all’altra; la vittoria lo tiene unito, ma le difficoltà lo sgretoleranno a meno che voi non crediate vincolati dalla fede e dalla riconoscenza i Galli, i Germani e perfino (la parola mi brucia in bocca) la maggior parte dei Britanni, anche se ora offrono il loro sangue a una tirannide straniera, di cui sono stati più a lungo nemici che schiavi. Paura e terrore forniscono un miserabile legame di amicizia e appena essi siano venuti meno, chi ha smesso di temere subito comincerà ad odiare. Siamo noi ad avere maggior fame di vittoria: non ci sono donne a infiammare i Romani, non ci sono genitori a farli vergognare della loro fuga. La maggior parte di loro non ha patria e, se ce l’hanno, non è questa. Sono poco numerosi, angosciati dall’ignoranza dei luoghi; se ne stanno a guardare il cielo e il mare e le foreste, tutte cose per loro sconosciute: gli dèi ve li stanno consegnando, in qualche modo, già presi e incatenati. Non vi facciano paura le vane apparenze come il fulgore dell’oro e dell’argento: oro e argento non proteggono e non servono a ferire. Nella stessa schiera dei nemici troveremo braccia che ci appartengono: sono quei Britanni che riconosceranno la loro causa, sono quei Galli cui tornerà alla mente l’antica libertà. E abbandoneranno i Romani anche i Germani come hanno fatto di recente gli Usipi. Nessuna paura, d’ora in poi: hanno fortezze vuote, colonie difese da vecchi, municipi debilitati e discordi tra chi obbedisce di malanino e chi governa senza giustizia. Qui voi avete un capo, qui un esercito. Là vi aspettano tributi, lavori in miniera e ogni altra sofferenza da schiavi: sul terreno dovrete decidere se sopportare in eterno o vendicarvi di tutto in un sol colpo. State per andare a combattere: pensate ai vostri antenati e alla vostra discendenza».

Tacito, Agricola, 29-32

I barbari, molto superiori in numero, erano posizionati ai piedi del monte, quindi anche in vantaggio strategico. La tattica di Agricola fu quella di mandare avanti le coorti ausiliarie, specialmente i batavi e i tungri, tenendo dietro le legioni e la cavalleria ai fianchi. La manovra riuscì perfettamente: le prime coorti romane respinsero i barbari, i quali reagirono attaccando furiosamente e in modo scomposto. Agricola lo aveva previsto e lanciò contro i caledoni la cavalleria, che aveva già respinto i carri barbarici. I barbari tentarono un nuovo contrattacco, impegnando furiosamente i romani, ma Agricola riuscì ad attaccare di nuovo con la cavalleria, che colse di sorpresa i barbari: senza ulteriori rinforzi i caledoni caddero nel panico, fu una vittoria schiacciante per i romani, che secondo Tacito riportarono solo 360 morti:

«Una grande eccitazione accolse la perorazione di Calgaco; e fremiti, canti, clamori confusi, come sempre fanno i barbari. Già i più eccitati correvano avanti facendo intuire gli schieramenti, tra bagliori di armi. Nel tempo stesso l’esercito romano si stava organizzando per la battaglia, quando Agricola prese a parlare, pensando di dover ancor di più accendere l’animo dei soldati, peraltro già entusiasti e a stento trattenuti dentro le fortificazioni: «È il settimo anno, miei commilitoni, da quando col vostro valore e, secondo gli auspici dell’impero romano, con la nostra leale azione, avete cominciato a riportare vittorie in Britannia. In tante spedizioni, in tante battaglie spesso abbiamo dovuto impegnarci a fondo contro il nemico o sopportare grandi fatiche quasi contro la natura stessa: mai però ho dovuto lamentarmi dei soldati, o i soldati di me. Abbiamo ormai superato io i limiti raggiunti dai miei predecessori, voi dagli eserciti precedenti: la parte estrema della Britannia noi non la presidiamo con le parole o facendoci forti delle dicerie, ma con accampamenti ben muniti. Noi la Britannia l’abbiamo scoperta e sottomessa. Spesso, mentre eravamo in marcia e le paludi, le montagne, i fiumi vi affaticavano, ho sentito le parole dei più valorosi tra voi: “Quando ci sarà dato il nemico? E quando una battaglia?”. Eccoli qua, stanati dai loro covili ed ecco l’occasione che il vostro valore e i vostri desideri attendevano. Vinciamo e tutto ci sarà facile, perdiamo e avremo tutto contro. Abbiamo fatto tanta strada, superato foreste, guadato fiumi: bello e glorioso perché stavamo avanzando. Le stesse cose che oggi ci sono favorevoli, sarebbero di enorme pericolo per uomini in rotta. Noi non abbiamo la stessa conoscenza dei luoghi o ugual abbondanza di salmerie, ma solo il nostro braccio, le nostre armi e la consapevolezza che tutto risiede in loro. Dal canto mio, da molto tempo so bene che mai reca salvezza a un esercito o a un comandante girare le spalle al nemico. Dunque una morte onorevole è preferibile a una vita di vergogna; e salvezza e onore abitano nello stesso luogo. Del resto non c’è nulla di inglorioso nel cadere vicino all’estremo confine delle terre e della natura. Se contrapposti a voi ci fossero popoli o eserciti sconosciuti, vi esorterei ricorrendo a esempi di altri eserciti; ma qui basta ripensare a successi già conseguiti, basta interrogare i vostri occhi. Eccoli qua, quelli che voi avete sbaragliato, praticamente con un grido, l’anno scorso dopo che avevano aggredito un’unica legione e con un agguato notturno. Questi sono, di tutti i Britanni, i più veloci a scappare e, grazie a ciò, quelli che più a lungo sono riusciti a sopravvivere. Quando voi entrate in qualche bosco o in qualche regione montuosa, gli animali più imponenti vi vengono contro per travolgervi, ma quelli pavidi e impotenti scappano al solo calpestio dell’esercito in marcia: esattamente allo stesso modo i più valorosi dei Britanni sono già caduti e questi che restano sono gli ignavi e i paurosi. Finalmente li incontrate, ma non perché vi abbiano atteso: siete stati voi che li avete sorpresi. La disperazione e lo stordimento della paura estrema li hanno inchiodati qui, sulle loro stesse orme, perché voi riportiate una vittoria bella e memorabile. Basta con le campagne militari: chiudete con una grande giornata cinquantanni di guerra. E provate alla repubblica che i ritardi della guerra e i motivi delle rivolte non sono mai stati colpa dell’esercito». Agricola stava ancora parlando e già era evidente l’ardore dei soldati. Grande eccitazione seguì alla fine del discorso e subito fu un correre di tutti alle armi. Agricola dispose gli ottomila fanti ausiliari, entusiasti e frementi, a rafforzare il centro; i tremila cavalieri andarono a collocarsi alle ali. Le legioni rimasero schierate davanti al vallo: grande merito perché sarebbe stato risparmiato sangue romano in caso di vittoria immediata, riserva in caso di momentaneo ripiegamento. L’esercito dei Britanni, per incutere terrore fin dal primo colpo d’occhio, si era disposto sulle alture in modo che la prima linea era schierata nel piano e gli altri guerrieri, in file serrate, su per il vicino pendio, si elevavano come su una gradinata. I cavalieri, montati su carri da guerra, riempivano di corse rumorose la pianura tra i due schieramenti. Agricola, poiché era soverchiante il numero dei nemici, temette che la battaglia impegnasse i suoi contemporaneamente di fronte e sulle ali. Allora diradò le file, anche se lo schieramento ne risultava troppo allungato e molti lo esortavano a far subentrare le legioni. Pronto alla speranza e saldo contro i pericoli, lasciò andare il cavallo e piantò i piedi davanti ai vessilli. Il primo scontro avvenne a distanza: con grande fermezza e abilità i Britanni, grazie alle loro lunghe spade e ai piccoli scudi, evitavano o facevano cadere i nostri giavellotti; a loro volta scagliavano una grande quantità di dardi, fino a quando Agricola esortò quattro coorti di Batavi e due di Tungri, ad attaccare da vicino con spade corte: era un modo di combattimento che essi da tempo avevano sperimentato e che creava disagi ai nemici i quali adoperavano scudi piccoli e spade enormi. Infatti gli spadoni dei Britanni, privi di punta, non erano adatti all’incrociarsi delle armi e agli scontri ravvicinati. I Batavi cominciarono a tempestarli di colpi, a ferirli con gli umboni, a devastare i loro volti. Sbaragliate le file poste sulla pianura, cominciarono a salire sulle alture; le altre coorti, coinvolte nella foga dal desiderio di emulazione, presero a sterminare i Britanni più vicini; ma, presi dalla fretta di vincere, ne lasciavano indietro moltissimi tramortiti o illesi. Appena quelli montati sui carri falcati cominciarono a fuggire, gli squadroni della nostra cavalleria presero a mescolarsi alla battaglia della fanteria. Pur spargendo un improvviso terrore, erano impacciati dalle file serrate dei nemici e dai dislivelli del terreno. Quella non assomigliava in nulla a una battaglia equestre perché, già malfermi sul pendio, i soldati erano urtati dai corpi dei cavalli. E, anzi, carri spesso senza guidatore e cavalli spaventati e privi di cavaliere, erano trascinati a caso dalla paura e li investivano ripetutamente di traverso e di fronte. I Britanni che, attestati sulla sommità delle colline, fino a quel momento non erano stati coinvolti nella battaglia e guardavano con disprezzo l’esiguità del nostro numero, cominciarono a scendere a poco a poco e ad aggirare il nostro esercito ormai vittorioso. Proprio questo Agricola aveva temuto: oppose quattro squadroni di cavalleria, tenuti di riserva per le situazioni impreviste della battaglia, ai Britanni accorrenti e li sbaragliò mettendoli in fuga con tanta più energia quanto maggiore era la ferocia con cui si erano precipitati all’assalto. Così la strategia dei Britanni si rivolse contro loro stessi e i cavalieri, distolti per ordine del comandante dal fronte della battaglia, aggredirono i nemici alle spalle. Ecco nella pianura, allora, un grandioso e atroce spettacolo: i nostri inseguivano, ferivano, catturavano prigionieri, ma se poi ne facevano altri, uccidevano i primi. Ormai i nemici, assecondando il loro istinto, anche se numerosi e armati, avevano girato le spalle ad avversari poco numerosi. Alcuni, inermi, si gettavano nella battaglia per cercare la morte. Armi sparse ovunque; corpi e membra lacerati; e la terra intrisa di sangue. Talora i vinti avevano un bagliore di ira e valore. Infatti dopo essersi avvicinati, nella fuga, alle foreste, conoscendo la zona, si riorganizzarono e presero a circondare i primi che con troppa foga li avevano inseguiti. Ma Agricola era dappertutto e aveva disposto delle coorti valide e agili, come in una battuta di caccia, per perlustrare ovunque; dove gli alberi erano più folti i cavalieri si muovevano a piedi, mentre gli altri, in sella, battevano le zone più aperte. Senza di loro, i nostri avrebbero, per eccessiva fiducia, subito qualche grave colpo. Quando i Britanni compresero che a inseguirli c’erano schiere di nuovo saldamente organizzate, ripresero la fuga. Non, come prima, in gruppi e tenendo i collegamenti con i compagni, ma dispersi ed evitandosi a vicenda, cercarono luoghi lontani e poco praticabili. Solo la notte e la sazietà posero fine all’inseguimento. Caddero circa diecimila nemici; noi perdemmo trecentosessanta dei nostri, tra i quali Aulo Attico, prefetto di coorte, trascinato in mezzo ai nemici dalla sua baldanza giovanile e dalla foga del cavallo. La notte, trascorsa nell’allegria per il bottino fatto, fu piacevole per i vincitori. I Britanni, sparsi qua e là, piangevano e mescolavano il loro pianto con quello delle donne: trascinavano via i feriti e chiamavano gli incolumi; abbandonavano le case e le incendiavano, con furore, di loro iniziativa; sceglievano un nascondiglio per lasciarlo subito dopo; si riunivano per scambiarsi qualche consiglio e subito si separavano; guardavano i loro cari e ne provavano disperazione e talora rabbia. Ed era risaputo che, fatti crudeli dalla pietà, alcuni avevano ucciso la moglie e i figli. Il giorno seguente diede un volto più completo alla vittoria: ovunque desolato silenzio, i colli deserti, i tetti che fumavano in lontananza, nessun incontro per i nostri esploratori. Questi, spediti in ogni direzione, accertarono che le tracce della fuga erano confuse e che i nemici, dunque, non si stavano riorganizzando da nessuna parte. Del resto, l’estate ormai alla fine impediva il propagarsi della guerra. Agricola condusse allora l’esercito nel territorio dei Boresti. Lì ricevette ostaggi e ordinò al prefetto della flotta di circumnavigare la Britannia: concesse, a questo scopo, dei soldati e, del resto, lo aveva preceduto il terrore. Lo stesso Agricola condusse fanteria e cavalleria negli accampamenti invernali con una marcia rallentata, perché il suo lento spostamento spaventasse l’animo delle genti appena soggiogate. E intanto la flotta, aiutata dai venti e dalla fama che la accompagnava, ritornò, dopo aver costeggiato tutta la costa britannica, nel porto di Trucculo, da cui era partita.»

Tacito, Agricola, 33-38

Nonostante la vittoria, l’anno seguente, l’84, Domiziano richiamò Agricola e la conquista non fu portata a termine. Non sappiamo il perché; forse Domiziano aveva bisogno di rinforzare la Germania (dove venne creata la nuova provincia degli Agri Decumates) o forse, come suppongono i più, fosse geloso del successo di Agricola.

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Ubi solitudinem faciunt pacem appellant
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