«Passato quindi in Asia, venne a sapere che Domizio, sconfitto da Farnace, figlio di Mitridate, era fuggito dal Ponto con pochi compagni e che Farnace, non pago di quella vittoria, dopo che s’era impadronito della Bitinia e della Cappadocia, mirava alla cosiddetta Piccola Armenia, sobillando tutti i re e i principi della regione. Perciò mosse subito contro di lui con tre legioni e dopo averlo vinto in battaglia presso Zela lo costrinse a sloggiare dal Ponto e distrusse tutto il suo esercito. Per dare un’idea della rapidità con cui aveva condotto questa spedizione scrisse a Mazio, un suo amico di Roma, queste tre sole parole: «Veni, vidi, vici», che nella lingua latina terminano in un modo pressoché identico, e sono un incredibile esempio di sinteticità.»

Plutarco, Cesare, 50

Una guerra lampo

Mentre Cesare si trovava ad Alessandria, in forte difficoltà, Farnace re del Ponto, erede di Mitridate VI, aveva vinto Domizio Calvino e tentava di espandersi in Asia Minore a discapito dei romani. Cesare decise di affrontare la questione mentre, di ritorno a Roma dopo aver messo a posto le cose ad Alessandria, passava prima per la Siria e poi per l’Asia Minore.

Cesare, che marciava a tappe forzate come suo solito, incontrò il tetrarca d Galazia Deiotaro, alleato del popolo romano, che da supplice chiese aiuto al comandante romano poiché il suo potere era nei fatti inesistente. Cesare allora rispose che avrebbe messo ordine tra i tetrarchi e gli restituì la veste regale. Inoltre gli permise di comandare una legione che aveva reclutato, quella che sarebbe diventata la XXII Deiotarana: «Gli ordinò poi di condurre la legione, che Deiotaro aveva costituita con uomini della sua gente, ma con armatura e disciplina romana e tutta la cavalleria, per far guerra a Farnace.» (Cesare, Bellum Alexandrinum, 68, 2)

Cesare mise insieme un esercito al meglio delle sue capacità per affrontare Farnace e ristabilire l’ordine in Asia Minore: disponeva della sesta legione, formata da veterani che avevano combattuto ad Alessandria, della legione di Deiotaro e due legioni superstiti di Domizio Calvino. Farnace inviò ambasciatori, millantando di essere pronto a sottomettersi a Cesare e che non aveva fornito alcun aiuto a Pompeo, mentre Deiotaro lo aveva fatto: «Cesare rispose che sarebbe stato molto equanime con Farnace, se egli avesse eseguito quanto prometteva. Però avvertì i legati con cortesi parole, come soleva, di non porgli innanzi il caso di Deiotaro o di non gloriarsi troppo come di un beneficio, perché non avevano mandato aiuti a Pompeo. Infatti egli nulla faceva più volentieri che perdonare a chi lo supplicava, ma non poteva condonare le pubbliche offese fatte alle province, a coloro che pure erano stati rispettosi verso di lui.» (Cesare, Bellum Alexandrinum, 70, 1-3)

Il romano fece poi presente agli ambasciatori di Farnace, nonostante il mancato appoggio a Pompeo, le ripetute offese e violenze verso i cittadini romani nella regione, alcuni uccisi, altri evirati, pena peggiore della morte. Ordinò dunque di liberare le famiglie di pubblicani e restituire ai romani quanto era stato loro tolto. Farnace sperava che dopo le promesse Cesare si fosse dovuto precipitare a Roma e avesse dovuto abbandonare la regione; pertanto perdeva tempo, continuava a discutere sui patti e tirava le cose per le lunghe. Cesare, compreso l’inganno, decise di attaccarlo per primo:

«Zela è una città situata nel Ponto, abbastanza fortificata, pur essendo in luogo piano: infatti su un’altura naturale, che pare fatta apposta, poggia da ogni parte un muro parecchio elevato. Tutt’intorno a questa città s’intersecano tra valloncelli molte e grandi colline; la più alta di queste è assai conosciuta da quelle parti per la vittoria di Mitridate, per l’azione infelice di Triario e per la sconfitta ricevuta nei tempi passati dal nostro esercito. Essa è quasi congiunta alla città per vie sulle alture e dista da Zela non molto più di tre miglia. Farnace occupò questa località con tutte le sue truppe, dopo aver rifatte le antiche opere di fortificazioni del fortunato campo del padre. Cesare pose l’accampamento a cinque miglia dal nemico e vedendo che quelle valli che facevano da difesa all’accampamento del re avrebbero difeso anche il suo ad un uguale intervallo, se però i nemici non avessero occupato per primi quelle posizioni che erano molto più vicine all’accampamento del re, ordinò di portare materiale per un terrapieno entro le fortificazioni. Fatto ciò con molta celerità, nella notte seguente, dopo le tre del mattino, prendendo con sé truppe spedite e lasciando i bagagli nell’accampamento, sul far dell’alba, mentre i nemici non se lo aspettavano, prese quello stesso luogo, nel quale Mitridate aveva vittoriosamente combattuto contro Triario. Fece ammucchiare dagli schiavi fuori dall’accampamento il materiale già portato per il terrapieno, affinché nessun soldato fosse distolto dalle opere di fortificazione, mentre per lo spazio di non più di un miglio una valle interposta divideva l’accampamento dei nemici dalla fortificazione che Cesare aveva incominciata per il suo accampamento. Appena Farnace alle prime luci dell’alba vide ciò, fece lo schieramento di tutte le sue truppe dinanzi all’accampamento. Data l’asprezza dei luoghi frapposti, Cesare credeva che quello schieramento fosse fatto secondo la consuetudine guerresca più comune o per ritardare i suoi lavori, affinché più gente fosse tenuta in armi, o per ostentare la fiducia del re, affinché non sembrasse che Farnace difendesse la posizione più con le fortificazioni che con l’esercito in campo. Perciò non si lasciò distogliere dal suo proposito e, schierata la prima linea dinanzi alla trincea, lasciò al lavoro il resto dell’esercito. Ma Farnace, sia spinto dalla posizione favorevole, sia indotto dagli auspici e dalle superstizioni a cui, come abbiamo saputo dopo, era ossequente, sia perché aveva constatato che i nostri armati erano pochi infatti aveva creduto che quella grande moltitudine di schiavi impiegata di solito ogni giorno nei lavori fosse di soldati sia anche per la fiducia che aveva nel suo esercito veterano che, stando alle vanterie dei suoi ambasciatori, aveva combattuto in campo aperto e vinto ben ventidue volte, e finalmente per disprezzo del nostro esercito, che sotto il comando di Domizio era stato da lui sconfitto, cominciò a discendere nella valle scoscesa, con la decisione di combattere. Cesare per un po’ irrideva a quella vana ostentazione e a quel raduno di soldati in quel luogo in cui nessun nemico che avesse senno si sarebbe mai avventurato; ma intanto Farnace, con lo stesso passo con cui era disceso nella valle dirupata, cominciò a montare con tutto l’esercito spiegato verso l’alto colle. Cesare, colpito dalla sua incredibile temerità o fiducia che fosse, non colto tuttavia alla sprovvista né impreparato, richiama ad un tempo i soldati dai lavori, comanda di prendere le armi, pone in ordine le legioni e fa lo schieramento per la battaglia; l’improvvisa fretta di questi preparativi apportò grande terrore ai nostri. Quando le file non erano ancora schierate, le quadrighe falcate del re portarono scompiglio in mezzo ai soldati; tuttavia esse furono presto ricoperte da una moltitudine di dardi. Dietro di queste segue l’esercito nemico e, levato il clamore, si viene a conflitto, traendo i nostri molto vantaggio dalla posizione favorevole del luogo, e più ancora dalla benevolenza degli dèi immortali; i quali intervengono in tutti gli eventi di guerra, ma soprattutto in quelli in cui nulla si potrebbe fare con la tattica normale. Da un grande e accanito combattimento fatto a corpo a corpo nell’ala destra, dove era schierata la sesta legione di veterani, ebbe principio la vittoria. Mentre da quella parte i nemici erano gettati giù per il declivio, molto più lentamente ma tuttavia con l’aiuto degli dèi, anche l’ala sinistra e al centro tutte le truppe del re vennero sconfitte. Esse quanto facilmente erano venute in posizione sfavorevole, tanto celermente vennero ricacciate indietro, premute dalla difficoltà del luogo. Perciò molti soldati furono uccisi, molti altri furono schiacciati per la precipitosa discesa dei compagni, quelli che poterono fuggire rapidamente e passare la valle, avendo gettato via le armi ed essendo così inermi, non poterono essere affatto utili pur trovandosi in una posizione elevata. Ma i nostri, imbaldanziti dalla vittoria, non esitarono a salire nel luogo sfavorevole e ad assaltare il campo fortificato. Trovandosi alla difesa dell’accampamento solo quelle coorti che Farnace vi aveva lasciato come presidio, i nostri s’impadronirono presto dell’accampamento nemico. Poiché tutta la moltitudine dei suoi era stata uccisa o catturata, Farnace se ne fuggì con pochi cavalieri; e se l’espugnazione del campo non gli avesse dato la possibilità di fuggire liberamente, sarebbe stato portato vivo nelle mani di Cesare.»

Cesare, Bellum Alexandrinum, 72,1-76,4

La guerra era stata condotta in modo fulmineo ed aveva portato a una completa vittoria, che sarebbe entrata negli annali (riportata da Cassio Dione, Plutarco e Appiano) col motto di “veni vidi vici” (venni, vidi vinsi):

«Cesare, già tante volte vittorioso, ebbe grandissima gioia per questa vittoria, perché con grande celerità aveva terminato una grandissima guerra e ne fu tanto più lieto per il ricordo dell’improvviso pericolo, in quanto aveva conseguito una facile vittoria, pur in condizioni difficilissime. Recuperato il Ponto, concesse ai soldati tutta la preda del re; egli poi il giorno dopo, con cavalieri spediti, partì, dopo aver dato l’ordine alla sesta legione di ritornare in Italia per ricevere premi ed onori, dopo aver rimandato in patria le truppe ausiliarie di Deiotaro e aver lasciato nel Ponto due legioni con Celio Viniciano.»

Cesare, Bellum Alexandrinum, 77,1-2

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