« Quando giunse la notizia… dicono che Augusto si mostrasse così avvilito da lasciarsi crescere la barba ed i capelli, sbattendo, di tanto in tanto, la testa contro le porte e gridando: “Varo rendimi le mie legioni!”. Dicono anche che considerò l’anniversario di quella disfatta come un giorno di lutto e tristezza”. »

« Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l’Italia e la stessa Roma. »

SVETONIO, VITE DEI DODICI CESARI II, 23; CASSIO DIONE COCCEIANO, STORIA ROMANA, LVI, 23, 1

Per i sopravvissuti di Teutoburgo la fine fu terribile: molti, catturati, vennero torturati ed esibiti come trofei. Specialmente centurioni e comandanti furono inchiodati ad alberi e seviziati a lungo, per compiere riti propiziatori barbarici. Qualche anno dopo Germanico tornò sul campo di battaglia, dove trovò i resti dei soldati che avevano perso la vita e diede ordine di farli seppellire. La vendetta romana sarebbe giunta a Idistaviso: Germanico sconfisse nettamente l’esercito di Arminio, che però riuscì a fuggire e morì alcuni anni dopo ucciso da altri capi barbarici che mal digerivano la sua posizione di potere.

Dalla sconfitta all’offensiva

«I barbari si impadronirono di tutti i forti [che erano presenti sul territorio germanico] tranne uno [Aliso], nei pressi del quale furono impegnati, non poterono attraversare il Reno ed invadere la Gallia […] la ragione per cui non riuscirono ad occupare il forte romano è da attribuirsi alla loro incapacità nel condurre un assedio, mentre i Romani facevano un grande utilizzo di arcieri, respingendo ed infliggendo numerose perdite ai barbari […] e si ritirarono quando vennero a sapere che i Romani avevano posto una nuova guarnigione a guardia del Reno [si trattava probabilmente di Asprenate] e dell’arrivo di Tiberio, che sopraggiungeva con un nuovo esercito […] Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l’Italia e la stessa Roma. […] Augusto poiché a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani […] nella Guardia Pretoriana […] temendo che potessero insorgere […] li mandò in esilio in diverse isole, mentre a coloro che erano privi di armi ordinò di allontanarsi dalla città […] Augusto organizzò comunque le rimanenti forze con ciò che aveva a disposizione […] arruolò nuovi uomini […] tra veterani e liberti e poi li inviò con la massima urgenza, insieme a Tiberio, nella provincia di Germania […]»

CASSIO DIONE COCCEIANO, STORIA ROMANA, LVI, 22-23

Tiberio, succeduto ad Augusto, aveva deciso di seguire gli insegnamenti di Augusto e quindi di non espandere la frontiera, ma di mantenere il limes. Perciò, dopo un suo primo intervento tra il 10 e 11 d.C., volto a prevenire invasioni come quelle dei cimbri e dei teutoni un secolo prima, una volta diventato imperatore nel 14, fu il nipote Germanico (figlio di suo fratello Druso maggiore) a terminare l’opera. Si trovava infatti in Gallia a raccogliere i dati del censimento voluto da Augusto quando seppe della morte di quest’ultimo. Mossosi a sedare la rivolta delle legioni germaniche dopo la notizia della morte del principe, colse l’occasione per intraprendere una campagna contro i germani.

«Tiberio Cesare viene inviato in Germania, e qui rafforza le Gallie, prepara e riorganizza gli eserciti, fortifica i presidi e avendo coscienza dei propri mezzi, non timoroso di un nemico che minacciava l’Italia con un’invasione simile a quella dei Cimbri e dei Teutoni, attraversava il Reno con l’esercito e passava al contrattacco, mentre al padre Augusto ed alla patria sarebbe bastato di tenersi sulla difensiva. Tiberio avanza così in territorio germano, si apre nuove strade, devasta campi, brucia case, manda in fuga quanti lo affrontano e con grandissima gloria torna ai quartieri d’inverno senza perdere nessuno di quanti aveva condotto al di là del Reno […] abbatté le forze nemiche in Germania, con spedizioni navali e terrestri, e placate più con la fermezza che con i castighi la pericolosissima situazione nella Gallia e la ribellione sorta tra la popolazione degli Allobrogi»

VELLEIO PATERCOLO, STORIA DI ROMA, II, 120-1

La battaglia di Idistaviso

La campagna di Germanico procedeva bene e decise di passare all’attacco, attraversando il Reno nella zona occupata dei batavi, andando incontro alle forze che avevano messo insieme i barbari dell’ex cavaliere romano. Prima della battaglia Arminio chiese di parlare col fratello Flavo, che combatteva ancora per i romani. L’incontro, approvato da Germanico, si fece in riva al fiume, che li separava:

«Tra i Romani e i Cherusci scorreva il fiume Visurgi. Arminio con gli altri capi si fermò su la riva e domandò se Cesare era giunto. Gli fu risposto che era già lì; allora pregò che gli fosse consentito un colloquio con il fratello. Questi, di nome Flavio, militava nel nostro esercito ed era noto per la sua lealtà. Pochi anni prima, mentre combatteva agli ordini di Tiberio, per una ferita aveva perduto un occhio. Ricevuta l’autorizzazione, si fa avanti e Arminio lo saluta; poi fa allontanare la scorta e chiede che vadano via anche gli arcieri, schierati lungo la riva. Non appena se ne furono andati, Arminio domanda al fratello come mai ha uno sfregio sul volto. Questi allora gli riferisce il luogo e la battaglia dove è avvenuto e Arminio gli chiede quale compenso abbia ricevuto; Flavio gli comunica l’aumento di stipendio, il bracciale, la corona e le altre decorazioni militari ottenute; e Arminio schernisce la grama mercede avuta per essere schiavo. A questo punto si mettono ad altercare uno contro l’altro: uno esalta la grandezza di Roma, la potenza dell’imperatore, le gravi pene inflitte ai vinti, la clemenza accordata agli arresi; e gli assicura che sua moglie e suo figlio non sono trattati da nemici. L’altro ricorda la santità della patria, la libertà avita, gli dèi tutelari della Germania e la madre, che si unisce alle sue preghiere; e lo ammonisce a non disertare, a non tradire i suoi. Poco a poco scesero alle ingiurie e poco mancò che si azzuffassero e neppure il fiume che scorreva tra loro avrebbe costituito un ostacolo, se non fosse accorso Stertinio a calmare Flavio, il quale, infuriato, chiedeva armi e un cavallo. Sull’altra riva si scorgeva Arminio che in atteggiamento minaccioso ci sfidava a battaglia; nel suo parlare frammischiava parecchi vocaboli in latino, poiché aveva militato negli accampamenti romani come comandante dei suoi connazionali.»

TACITO, ANNALES II, 9-10

Cariovaldo, capo dei batavi, alleati dei romani, una volta attraversato il fiume, si lanciò all’inseguimento dei cherusci, senza sospettare un’imboscata: infatti erano fuggiti dalla pianura per evitare lo scontro in campo aperto. L’attacco a sorpresa riuscì e i batavi si diedero alla fuga, senza successo, poiché ormai erano circondati. Tentarono di sfondare l’accerchiamento, ma Cariovaldo fu colpito e i batavi si salvarono solo grazie all’intervento della cavalleria di Stertino, che mise in salvo i sopravvissuti. Nel frattempo Germanico, varcato il Visurgi, venne a sapere da un disertore che Arminio avrebbe attaccato l’accampamento di notte; perciò schierò l’esercito a battaglia nel campo e quando questi attaccarono vennero respinti. Il giorno seguente, Arminio, incalzato da Germanico, accettò di combattere in campo aperto, nella piana di Idistaviso, collocata tra il fiume Visurgi e le colline; i germani avevano una fitta foresta alle loro spalle. Era il 16 d.C.

Germanico dispose l’esercito seguendo l’ordine di marcia, con in prima linea gli ausiliari galli e germani, poi gli arcieri, quattro legioni, due coorti di pretoriani con ai fianchi la cavalleria, poi altre quattro legioni e infine la fanteria leggera e gli arcieri a cavallo e le altre coorti ausiliarie. In questo modo, adottando uno schieramento simmetrico, i romani avrebbero potuto respingere un attacco da ogni direzione. I cherusci furono i primi ad attaccare, lanciandosi dai colli. Germanico ordinò alla cavalleria di attaccarli sul fianco e a Stertino di lanciare l’attacco alle spalle, mentre lui sarebbe giunto per chiuderli in una morsa. I germani, non reggendo l’urto delle legioni, si diedero immediatamente alla fuga, mentre Arminio urlava per tentare di fermarli. Combatté come un leone ma alla fine fu costretto a fuggire, dopo essersi imbrattato il viso di sangue per non essere riconosciuto.

Il vallo Angrivariano

La guerra però non era ancora conclusa. Arminio, fuggito, riorganizzò le forze e si spostò più a nord, dove fece erigere un enorme fortificazione, il vallo Angrivariano, che bloccava la strada ai romani tra le palude e le foreste della Germania, per attaccarli in modo simile a Teutoburgo. Ma Germanico non era Varo:

«Quella vista suscitò ira e dolore nei Germani più che i caduti, le ferite, il massacro. Coloro che poco prima si accingevano ad abbandonare le loro sedi e ritirarsi al di là dell’Elba, ora vogliono combattere, danno di piglio alle armi e tutti, i notabili e il popolo, i vecchi e i giovani, improvvisamente si avventano su le schiere romane, vi gettano lo scompiglio. Alla fine scelgono una località chiusa tra il fiume e le foreste, una pianura umida e angusta; tutt’attorno, una palude profonda, tranne che dal lato dove gli Angrivari avevano innalzato un largo argine, per separarsi dai Cherusci. Qui si fermò la fanteria; la cavalleria invece si nascose nei boschi vicini per prendere alle spalle le legioni penetrate nella selva. Di questi accorgimenti nulla sfuggiva a Cesare: i piani, le posizioni, sia visibili sia occulti, conosceva ogni cosa e si preparava a volgere a loro danno le astuzie del nemico. Al legato Seio Tuberone affida la cavalleria e la pianura; e dispone la schiera dei fanti in modo che una parte penetrasse nella foresta dove l’accesso era in piano, un’altra parte cercasse di salire su l’argine. Tenne per sé l’aspetto più arduo dell’impresa, lasciò il resto ai luogotenenti. Quelli che avevano avuto in sorte il terreno in piano, avanzarono senza difficoltà; ma quelli che dovevano scalare il terrapieno, quasi si arrampicassero su un muro, subivano gravi colpi dall’alto.»

TACITO, ANNALI, II, 19-20

Germanico conosceva ogni mossa del nemico, a differenza di Varo, e aveva deciso di marciare in assetto da battaglia, pronto a combattere sul posto. Il fronte si preparò a prendere il terrapieno anche con l’uso di macchine d’assedio, mentre le coorti pretorie respingevano i nemici che venivano dalla foresta e la cavalleria, tenuta al centro nella pianura, colpiva duramente dove necessario; in piano i romani non ebbero alcuna difficoltà, ne incontrarono di più soprattutto lungo la fortificazione, difesa strenuamente. Germanico fece avanzare arcieri e frombolieri e macchine d’assedio. Alla fine il terrapieno fu preso, mentre i barbari, costretti tra i romani e la palude venivano massacrati senza alcuna pietà. Il comandante romano si tolse l’elmo per farsi riconoscere nella mischia e implorava i romani di non avere alcuna pietà. Fu una carneficina:

«Il comandante si rese conto che la battaglia da vicino era impari e quindi distanziò un poco le legioni, e dette ordine ai frombolieri e ai lanciatori di pietre di scagliare i proiettili e gettare lo scompiglio nelle schiere nemiche. Dalle macchine di guerra furono lanciati giavellotti e i difensori dell’argine quanto più erano in vista da tante più ferite erano sbalzati giù. Occupato il terrapieno, Cesare per il primo con le coorti pretorie si lanciò verso le foreste; qui lo scontro fu corpo a corpo. Il nemico era chiuso alle spalle dalla palude, i Romani dal fiume e dai monti: sia gli uni sia gli altri dovevano combattere sul luogo, senza altra speranza che il valore, altro scampo che vincere. Non era inferiore l’animo dei Germani, ma si trovavano in condizione d’inferiorità per il genere del combattimento e delle armi: stretti in così gran numero in luoghi angusti, non riuscivano né a protendere né a ritirare le loro lunghissime aste, né a valersi della propria agilità e rapidità, ma erano costretti a combattere sul posto; i nostri, al contrario, con lo scudo aderente al petto e la mano stretta all’impugnatura della spada, trafiggevano le membra imponenti dei barbari e i loro volti scoperti e si aprivano il passo massacrando i nemici, mentre Arminio ormai dopo tante prove senza sosta non aveva più lo stesso ardore o forse lo indeboliva la recente ferita. Mentre a Inguiomero, che sembrava volasse lungo tutta la schiera, mancava la fortuna più che il valore. E Germanico per farsi riconoscere meglio s’era tolto l’elmo dal capo e pregava i suoi di insistere nel massacro: non c’era bisogno di prigionieri, solo lo sterminio di quel popolo avrebbe messo fine alla guerra. Solo al calar della sera ritirò dal combattimento una legione affinché allestisse l’accampamento; tutte le altre fino a notte si saziarono del sangue nemico. I cavalieri combatterono con esito incerto. Nell’allocuzione, Cesare espresse i suoi elogi ai vincitori; poi, eresse un trofeo d’armi con una iscrizione superba: «Debellati i popoli tra il Reno e l’Elba, l’esercito di Tiberio Cesare ha consacrato questo monumento a Giove, a Marte e ad Augusto». Di sé nulla aggiunse, per timore dell’invidia e perché riteneva bastasse la coscienza di ciò che aveva fatto. Sùbito dopo affidò a Stertinio la campagna contro gli Angrivari, a meno che non si affrettassero ad arrendersi; e quelli supplici nulla ricusarono e ottennero il perdono.»

TACITO, ANNALI, II, 20-22

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Germanico, il vendicatore di Teutoburgo
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