Il 24 maggio del 15 a.C. nasceva Germanico, figlio di Druso Maggiore (fratello di Tiberio) e Antonia minore (nipote di Augusto). Il ragazzo, Nerone Claudio Druso, prese il nome di Germanico quando seguì il padre Druso nelle sue campagne germaniche tra il 12 e 9 a.C. Infatti, alla sua morte, nel 9 a.C., ricevette il nome di Germanicus da parte del senato, mutando poi il suo nome in Germanico Giulio Cesare nel momento in cui venne adottato dalla gens Iulia insieme allo zio Tiberio, riconosciuto come erede legale da Augusto, dal momento che i suoi eredi Marcello, Agrippa, Lucio e Gaio Cesare erano morti tutti prematuramente.

Nel 4 d.C. Germanico sposò Agrippina maggiore, nipote di Augusto, da cui ebbe nove figli, tra cui Nerone (morto nel 30 d.C.), Druso (morto nel 31), Caligola, Agrippina minore, Giulia Drusilla e Giulia Livilla. Fece poi la sua prima carriera militare durante la rivolta dalmato-pannonica del 6-9 d.C. in qualità di questore, al fianco del neo padre adottivo Tiberio, che ebbe infine la meglio sui ribelli. Qualche tempo dopo lo accompagnò nuovamente in guerra, stavolta in Germania, tra il 10 e 13 d.C., per placare la frontiera scossa dal disastro di Teutoburgo.

«Tiberio Cesare viene inviato in Germania, e qui rafforza le Gallie, prepara e riorganizza gli eserciti, fortifica i presidi e avendo coscienza dei propri mezzi, non timoroso di un nemico che minacciava l’Italia con un’invasione simile a quella dei Cimbri e dei Teutoni, attraversava il Reno con l’esercito e passava al contrattacco, mentre al padre Augusto ed alla patria sarebbe bastato di tenersi sulla difensiva. Tiberio avanza così in territorio germano, si apre nuove strade, devasta campi, brucia case, manda in fuga quanti lo affrontano e con grandissima gloria torna ai quartieri d’inverno senza perdere nessuno di quanti aveva condotto al di là del Reno […] abbatté le forze nemiche in Germania, con spedizioni navali e terrestri, e placate più con la fermezza che con i castighi la pericolosissima situazione nella Gallia e la ribellione sorta tra la popolazione degli Allobrogi»

«(nell’11 d.C.) … Tiberio e Germanico, quest’ultimo in veste di proconsole, invasero la Germania e ne devastarono alcuni territori, tuttavia non riportarono alcuna vittoria, poiché nessuno gli si era opposto, né soggiogarono alcuna tribù… nel timore di cadere vittime di un nuovo disastro non avanzarono molto oltre il fiume Reno (forse fino al fiume Weser).»

Velleio Patercolo, Historiae Romanae ad M. Vinicium libri duo, II, 120, 1-2; 121; Cassio Dione Cocceiano, Storia Romana, LVI, 25

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Il vendicatore di Teutoburgo

«I barbari si impadronirono di tutti i forti [che erano presenti sul territorio germanico] tranne uno [Aliso], nei pressi del quale furono impegnati, non poterono attraversare il Reno ed invadere la Gallia […] la ragione per cui non riuscirono ad occupare il forte romano è da attribuirsi alla loro incapacità nel condurre un assedio, mentre i Romani facevano un grande utilizzo di arcieri, respingendo ed infliggendo numerose perdite ai barbari […] e si ritirarono quando vennero a sapere che i Romani avevano posto una nuova guarnigione a guardia del Reno [si trattava probabilmente di Asprenate] e dell’arrivo di Tiberio, che sopraggiungeva con un nuovo esercito […] Augusto quando seppe quello che era accaduto a Varo, stando alla testimonianza di alcuni, si strappò la veste e fu colto da grande disperazione non solo per coloro che erano morti, ma anche per il timore che provava per la Gallia e la Germania, ma soprattutto perché credeva che i Germani potessero marciare contro l’Italia e la stessa Roma. […] Augusto poiché a Roma vi era un numero elevato di Galli e Germani […] nella Guardia Pretoriana […] temendo che potessero insorgere […] li mandò in esilio in diverse isole, mentre a coloro che erano privi di armi ordinò di allontanarsi dalla città […] Augusto organizzò comunque le rimanenti forze con ciò che aveva a disposizione […] arruolò nuovi uomini […] tra veterani e liberti e poi li inviò con la massima urgenza, insieme a Tiberio, nella provincia di Germania […]»

CASSIO DIONE COCCEIANO, STORIA ROMANA, LVI, 22-23

Tiberio, succeduto ad Augusto nel 14 d.C., aveva deciso di seguire gli insegnamenti del padre adottivo e quindi di non espandere la frontiera, ma di mantenere il limes. Perciò, dopo un suo primo intervento tra il 10 e 11 d.C., volto a prevenire invasioni come quelle dei cimbri e dei teutoni un secolo prima, una volta diventato imperatore nel 14, fu il nipote Germanico a terminare l’opera. Si trovava infatti in Gallia a raccogliere i dati del censimento voluto da Augusto quando seppe della morte di quest’ultimo. Mossosi a sedare la rivolta delle legioni germaniche dopo la notizia della morte del principe, colse l’occasione per intraprendere una campagna contro i germani.

La battaglia di Idistaviso

La campagna di Germanico procedeva bene e decise di passare all’attacco, attraversando il Reno nella zona occupata dei batavi, andando incontro alle forze che avevano messo insieme i barbari dell’ex cavaliere romano. Prima della battaglia Arminio chiese di parlare col fratello Flavo, che combatteva ancora per i romani. L’incontro, approvato da Germanico, si fece in riva al fiume, che li separava:

«Tra i Romani e i Cherusci scorreva il fiume Visurgi. Arminio con gli altri capi si fermò su la riva e domandò se Cesare era giunto. Gli fu risposto che era già lì; allora pregò che gli fosse consentito un colloquio con il fratello. Questi, di nome Flavio, militava nel nostro esercito ed era noto per la sua lealtà. Pochi anni prima, mentre combatteva agli ordini di Tiberio, per una ferita aveva perduto un occhio. Ricevuta l’autorizzazione, si fa avanti e Arminio lo saluta; poi fa allontanare la scorta e chiede che vadano via anche gli arcieri, schierati lungo la riva. Non appena se ne furono andati, Arminio domanda al fratello come mai ha uno sfregio sul volto. Questi allora gli riferisce il luogo e la battaglia dove è avvenuto e Arminio gli chiede quale compenso abbia ricevuto; Flavio gli comunica l’aumento di stipendio, il bracciale, la corona e le altre decorazioni militari ottenute; e Arminio schernisce la grama mercede avuta per essere schiavo. A questo punto si mettono ad altercare uno contro l’altro: uno esalta la grandezza di Roma, la potenza dell’imperatore, le gravi pene inflitte ai vinti, la clemenza accordata agli arresi; e gli assicura che sua moglie e suo figlio non sono trattati da nemici. L’altro ricorda la santità della patria, la libertà avita, gli dèi tutelari della Germania e la madre, che si unisce alle sue preghiere; e lo ammonisce a non disertare, a non tradire i suoi. Poco a poco scesero alle ingiurie e poco mancò che si azzuffassero e neppure il fiume che scorreva tra loro avrebbe costituito un ostacolo, se non fosse accorso Stertinio a calmare Flavio, il quale, infuriato, chiedeva armi e un cavallo. Sull’altra riva si scorgeva Arminio che in atteggiamento minaccioso ci sfidava a battaglia; nel suo parlare frammischiava parecchi vocaboli in latino, poiché aveva militato negli accampamenti romani come comandante dei suoi connazionali.»

TACITO, ANNALES II, 9-10

Cariovaldo, capo dei batavi, alleati dei romani, una volta attraversato il fiume, si lanciò all’inseguimento dei cherusci, senza sospettare un’imboscata: infatti erano fuggiti dalla pianura per evitare lo scontro in campo aperto. L’attacco a sorpresa riuscì e i batavi si diedero alla fuga, senza successo, poiché ormai erano circondati. Tentarono di sfondare l’accerchiamento, ma Cariovaldo fu colpito e i batavi si salvarono solo grazie all’intervento della cavalleria di Stertino, che mise in salvo i sopravvissuti. Nel frattempo Germanico, varcato il Visurgi, venne a sapere da un disertore che Arminio avrebbe attaccato l’accampamento di notte; perciò schierò l’esercito a battaglia nel campo e quando questi attaccarono vennero respinti. Il giorno seguente, Arminio, incalzato da Germanico, accettò di combattere in campo aperto, nella piana di Idistaviso, collocata tra il fiume Visurgi e le colline; i germani avevano una fitta foresta alle loro spalle. Era il 16 d.C.

Germanico dispose l’esercito seguendo l’ordine di marcia, con in prima linea gli ausiliari galli e germani, poi gli arcieri, quattro legioni, due coorti di pretoriani con ai fianchi la cavalleria, poi altre quattro legioni e infine la fanteria leggera e gli arcieri a cavallo e le altre coorti ausiliarie. In questo modo, adottando uno schieramento simmetrico, i romani avrebbero potuto respingere un attacco da ogni direzione. I cherusci furono i primi ad attaccare, lanciandosi dai colli. Germanico ordinò alla cavalleria di attaccarli sul fianco e a Stertino di lanciare l’attacco alle spalle, mentre lui sarebbe giunto per chiuderli in una morsa. I germani, non reggendo l’urto delle legioni, si diedero immediatamente alla fuga, mentre Arminio urlava per tentare di fermarli. Combatté come un leone ma alla fine fu costretto a fuggire, dopo essersi imbrattato il viso di sangue per non essere riconosciuto.

Il vallo Angrivariano

La guerra però non era ancora conclusa. Arminio, fuggito, riorganizzò le forze e si spostò più a nord, dove fece erigere un enorme fortificazione, il vallo Angrivariano, che bloccava la strada ai romani tra le palude e le foreste della Germania, per attaccarli in modo simile a Teutoburgo. Ma Germanico non era Varo:

«Quella vista suscitò ira e dolore nei Germani più che i caduti, le ferite, il massacro. Coloro che poco prima si accingevano ad abbandonare le loro sedi e ritirarsi al di là dell’Elba, ora vogliono combattere, danno di piglio alle armi e tutti, i notabili e il popolo, i vecchi e i giovani, improvvisamente si avventano su le schiere romane, vi gettano lo scompiglio. Alla fine scelgono una località chiusa tra il fiume e le foreste, una pianura umida e angusta; tutt’attorno, una palude profonda, tranne che dal lato dove gli Angrivari avevano innalzato un largo argine, per separarsi dai Cherusci. Qui si fermò la fanteria; la cavalleria invece si nascose nei boschi vicini per prendere alle spalle le legioni penetrate nella selva. Di questi accorgimenti nulla sfuggiva a Cesare: i piani, le posizioni, sia visibili sia occulti, conosceva ogni cosa e si preparava a volgere a loro danno le astuzie del nemico. Al legato Seio Tuberone affida la cavalleria e la pianura; e dispone la schiera dei fanti in modo che una parte penetrasse nella foresta dove l’accesso era in piano, un’altra parte cercasse di salire su l’argine. Tenne per sé l’aspetto più arduo dell’impresa, lasciò il resto ai luogotenenti. Quelli che avevano avuto in sorte il terreno in piano, avanzarono senza difficoltà; ma quelli che dovevano scalare il terrapieno, quasi si arrampicassero su un muro, subivano gravi colpi dall’alto.»

TACITO, ANNALI, II, 19-20

Germanico conosceva ogni mossa del nemico, a differenza di Varo, e aveva deciso di marciare in assetto da battaglia, pronto a combattere sul posto. Il fronte si preparò a prendere il terrapieno anche con l’uso di macchine d’assedio, mentre le coorti pretorie respingevano i nemici che venivano dalla foresta e la cavalleria, tenuta al centro nella pianura, colpiva duramente dove necessario; in piano i romani non ebbero alcuna difficoltà, ne incontrarono di più soprattutto lungo la fortificazione, difesa strenuamente. Germanico fece avanzare arcieri e frombolieri e macchine d’assedio. Alla fine il terrapieno fu preso, mentre i barbari, costretti tra i romani e la palude venivano massacrati senza alcuna pietà. Il comandante romano si tolse l’elmo per farsi riconoscere nella mischia e implorava i romani di non avere alcuna pietà. Fu una carneficina:

«Il comandante si rese conto che la battaglia da vicino era impari e quindi distanziò un poco le legioni, e dette ordine ai frombolieri e ai lanciatori di pietre di scagliare i proiettili e gettare lo scompiglio nelle schiere nemiche. Dalle macchine di guerra furono lanciati giavellotti e i difensori dell’argine quanto più erano in vista da tante più ferite erano sbalzati giù. Occupato il terrapieno, Cesare per il primo con le coorti pretorie si lanciò verso le foreste; qui lo scontro fu corpo a corpo. Il nemico era chiuso alle spalle dalla palude, i Romani dal fiume e dai monti: sia gli uni sia gli altri dovevano combattere sul luogo, senza altra speranza che il valore, altro scampo che vincere. Non era inferiore l’animo dei Germani, ma si trovavano in condizione d’inferiorità per il genere del combattimento e delle armi: stretti in così gran numero in luoghi angusti, non riuscivano né a protendere né a ritirare le loro lunghissime aste, né a valersi della propria agilità e rapidità, ma erano costretti a combattere sul posto; i nostri, al contrario, con lo scudo aderente al petto e la mano stretta all’impugnatura della spada, trafiggevano le membra imponenti dei barbari e i loro volti scoperti e si aprivano il passo massacrando i nemici, mentre Arminio ormai dopo tante prove senza sosta non aveva più lo stesso ardore o forse lo indeboliva la recente ferita. Mentre a Inguiomero, che sembrava volasse lungo tutta la schiera, mancava la fortuna più che il valore. E Germanico per farsi riconoscere meglio s’era tolto l’elmo dal capo e pregava i suoi di insistere nel massacro: non c’era bisogno di prigionieri, solo lo sterminio di quel popolo avrebbe messo fine alla guerra. Solo al calar della sera ritirò dal combattimento una legione affinché allestisse l’accampamento; tutte le altre fino a notte si saziarono del sangue nemico. I cavalieri combatterono con esito incerto. Nell’allocuzione, Cesare espresse i suoi elogi ai vincitori; poi, eresse un trofeo d’armi con una iscrizione superba: «Debellati i popoli tra il Reno e l’Elba, l’esercito di Tiberio Cesare ha consacrato questo monumento a Giove, a Marte e ad Augusto». Di sé nulla aggiunse, per timore dell’invidia e perché riteneva bastasse la coscienza di ciò che aveva fatto. Sùbito dopo affidò a Stertinio la campagna contro gli Angrivari, a meno che non si affrettassero ad arrendersi; e quelli supplici nulla ricusarono e ottennero il perdono.»

TACITO, ANNALI, II, 20-22

Gli ultimi anni e la morte

Il 10 ottobre del 19 d.C. moriva a Antiochia, in Siria, Germanico. Forse per allontanarlo da Roma Tiberio lo inviò in Siria, al seguito del proconsole Pisone (con cui aveva condiviso il consolato nel 7 a.C. ed era una persona inflessibile nei modi), ma gli affidò comunque l’imperium proconsulare maius sull’oriente nel 18 d.C., che Germanico riorganizzò formando anche la nuova provincia di Cappadocia. Probabilmente Tiberio temeva da un lato il potere che stava acquisendo il nipote, dall’altro che volesse emulare Alessandro e fare la guerra ai parti, dopo il riavvicinamento avuto ai tempi di Augusto, che aveva ottenuto la restituzione delle aquile di Carre.

Tuttavia i contrasti tra Pisone e Germanico erano aspri e il primo infine fece ritorno a Roma. Poco dopo Germanico si ammalò e morì, forse avvelenato, il 10 ottobre. In punto di morte accusò Pisone del gesto e alcuni hanno sospettato ci fosse anche Tiberio dietro. Sarà Agrippina maggiore, sua moglie, a riportare le sue ceneri a Roma e collocarle nel mausoleo di Augusto:

«Prima di essere dato alla fiamme, il corpo (di Germanico) fu denudato nel forum di Antiochia, che era stato prescelto per la cremazione.»

«Si deliberò di erigere un cenotafio ad Antiochia, dove era stato cremato; un tumulo a Epidafne, dove Germanico aveva cessato di vivere.»

Tacito, Annales, II, 73; Tacito, Annales, II, 83

Non sarà un caso che quando Caligola, suo figlio, diventerà imperatore, sarà inizialmente accolto con i migliori presagi e che l’avvenimento influenzerà il giudizio dei posteri su Tiberio, il quale anche se probabilmente estraneo non aveva saputo gestire Pisone, che mal tollerava il giovane erede della dinastia giulio-claudia.

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Germanico: il vendicatore di Roma
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