Alcuni imperatori sono passati alla storia come particolarmente instabili, come Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo ed Eliogabalo. Ma lo erano davvero?

«Eguale crudeltà, sia negli atti che nelle parole, mostrava anche quando si dedicava agli svaghi ed era intento al gioco o a banchettare. Spesso, mentre pranzava e sbevazzava, faceva svolgere in sua presenza interrogatori con torture, e un soldato abile a decapitare mozzava il capo ad alcuni prigionieri tratti dal carcere. A Pozzuoli, mentre si dedicava a quel ponte da lui escogitato, di cui abbiamo parlato prima, dopo aver invitato molti dalla riva ad avvicinarglisi, improvvisamente li gettò tutti in mare e con remi e pali ricacciò in acqua quelli che cercavano di salvarsi aggrappandosi ai timoni. A Roma, durante un banchetto pubblico, affidò immediatamente al carnefice un servo che aveva rubato una lamina d’argento da un letto tricliniare, e ordinò che le mani gli fossero mozzate e appese al collo e che fosse portato in giro tra i convitati così conciato, preceduto da un cartello che spiegava il motivo di quella punizione. Trafisse con un pugnale un gladiatore mirmillone che era venuto dalla palestra per addestrarlo al combattimento con armi spuntate: quando questi si lasciò cadere spontaneamente a terra, egli lo trafisse e poi andò in giro correndo con la palma in mano a mo’ di vincitore. Una volta, condotta una vittima all’altare, egli, con le vesti succinte da sacerdote sacrificatore, librato in aria il maglio, ammazzò il sacerdote che doveva sgozzare la vittima. Durante un assai lauto banchetto, scoppiò improvvisamente a ridere e ai consoli seduti al suo fianco, che gli chiedevano perché mai ridesse in tal modo, rispose: «Di cos’altro se non del fatto che a un mio solo cenno voi due potreste essere immediatamente sgozzati?». Tra le varie sue beffe, una volta, stando in piedi presso la statua di Giove, chiese ad Apelle, un attore tragico, chi dei due gli sembrasse più grande e, poiché quello esitava, lo frustò e mentre l’attore lo supplicava, egli magnificava quella voce come dolcissima perfino nei gemiti. Ogni volta che baciava il collo della moglie o di un’amante qualsiasi, soggiungeva: «Un collo così bello sarà spezzato appena lo vorrò». E a volte soleva anche ripetere che anche con le corde avrebbe cercato di far confessare alla sua Cesonia perché mai l’amasse tanto. E con livore e cattiveria pari a tale arroganza e crudeltà, perseguitò quasi tutti gli uomini d’ogni età. Fece abbattere e rompere le statue degli uomini illustri che Augusto aveva fatto trasportare dalla piazza del Carìipidoglio alquanto angusta, al Campo Marzio, in modo tale che, in seguito, quando furono restaurate, non si poterono ricostruire le iscrizioni e vietò di erigere alcuna statua ad alcun uomo ancora vivo in alcun luogo se non con il suo consenso o per sua iniziativa. Pensò persino di far distruggere i poemi omerici, chiedendosi «perché mai non dovesse esser lecito a lui ciò che lo era stato per Platone, che aveva bandito Omero dalla sua repubblica ideale». E poco mancò che non facesse togliere da tutte le biblioteche i libri e le immagini di Virgilio e Tito Livio, criticando l’uno come privo d’ingegno e di scarsissima cultura, l’altro come prolisso e trascurato nella narrazione storica. Anche dei giureconsulti spesso diceva in giro che aveva intenzione di abolire ogni uso della loro scienza e che egli «avrebbe fatto in modo, sì, per Ercole, che nessuno oltre lui amministrasse la giustizia». Tolse ai cittadini più nobili gli antichi stemmi gentilizi: ai Torquati la collana; ai Cincinnati il ricciolo; ai Pompei, di antica stirpe, l’appellativo Magno. Dopo aver invitato dal suo regno Tolomeo (del quale ho già parlato) e dopo averlo accolto con i dovuti onori, lo fece uccidere per la sola ragione che quello, al suo ingresso nell’anfiteatro, in occasione di uno spettacolo gladiatorio fatto allestire da Caligola, aveva attirato su di sé l’attenzione di tutti col suo splendido mantello di porpora. Ogni volta che gli capitavano davanti giovani belli, dai bei capelli, ne deturpava l’aspetto, facendo radere loro la nuca. Esio Proculo, figlio di un primipilo, per la sua notevole mole e bellezza fisica, era soprannominato Colossero: Caligola lo fece arrestare all’improvviso, mentre assisteva a uno spettacolo e lo costrinse a duellare prima con un gladiatore trace e subito di seguito con un oplòmaco e, poiché era riuscito entrambe le volte vincitore, ordinò di incatenarlo immediatamente, di trascinarlo per i rioni della città, mostrandolo alle donne ricoperto di stracci, e poi sgozzarlo. Nessuno per lui fu tanto povero o disgraziato da non trovare il modo di recargli danno. Istigò contro il sacerdote principale di Diana Nemorense, poiché da molti anni ormai era in carica, un avversario più vigoroso. Un giorno in cui si teneva uno spettacolo gladiatorio, poiché l’essedario Porio, mentre affrancava un suo schiavo per festeggiare il successo riportato nel combattimento, era stato applaudito dalla folla con particolare entusiasmo, Caligola si slanciò dagli spalti contro di lui con tale foga che, inciampando nell’orlo della toga, ruzzolò per i gradini, esecrando indignato che un popolo, signore delle genti, per una cosa così insignificante tributasse più onore a un gladiatore che ai prìncipi deificati o a lui stesso, vivo e presente. Non rispettò né il suo né l’altrui pudore. Si racconta che abbia avuto relazioni scandalose con Marco Lepido, con il pantomimo Mnestere e con alcuni ostaggi. Valerio Catullo, giovane di famiglia consolare, raccontava in giro di averlo posseduto e di essersi sfiancato in quegli amplessi. Oltre ai rapporti incestuosi con le sorelle e alla sua ben nota passione per la prostituta Pirallide, non risparmiò donna alcuna di rango elevato: le invitava per lo più a cena con i loro mariti, le faceva sfilare ai suoi piedi, le esaminava con cura e a lungo, come fanno i mercanti di schiavi, sollevandone con la mano il volto, se alcune, vergognandosi, chinavano il mento. Poi, quando gli veniva l’uzzolo, uscito dalla sala del triclinio, faceva chiamare quella che aveva trovato più piacente e poco dopo tornava in sala con i segni ancora evidenti dell’amplesso lascivo, e pubblicamente esprimeva elogi o critiche elencando pregi e difetti del corpo della donna e dell’amplesso. Ad alcune, a nome del marito, se costui era assente, comunicava il ripudio e ordinava che venisse registrato agli atti. Nel dissipare, fu superiore in ingegno a qualsiasi scialacquatore. Ideò un nuovo tipo di bagni e straordinarie qualità di cibi e di cene, sì che si lavava con unguenti caldi e freddi, sorbiva preziosissime perle sciolte nell’aceto, faceva imbandire pani e vivande d’oro agli invitati, ripetendo spesso che o si era un uomo frugale o si era Cesare. E persino lanciò alla plebe dall’alto della Basilica Giulia, per alcuni giorni, monete in gran quantità. Fece costruire anche navi liburniche a dieci ordini di rematori con poppe incastonate di gemme, vele variopinte, con dovizia di terme, portici e triclinii e grande varietà di viti e di alberi da frutta, a bordo delle quali, sdraiato, banchettava di giorno, tra danze e musiche, navigando lungo le coste della Campania. Quando si faceva costruire ville e palazzi, senza alcun senso della misura, desiderava soprattutto la realizzazione di opere ritenute impossibili: costruire moli in acque di mare agitate e profonde, fendere rupi di pietra durissima, portare i campi all’altezza delle colline mediante terrapieni, spianare i gioghi dei monti con opere di scavo, il tutto con eccezionale rapidità, poiché ogni indugio si pagava con la vita. Per non elencare ogni cosa, in meno di un anno, dissipò immense ricchezze e l’intero tesoro di Tiberio, duemila e settecento milioni di sesterzi. Prosciugato il patrimonio, avendo bisogno di ricchezze, si diede alle ruberie, escogitando in maniera assai astuta ogni forma di calunnie, di aste giudiziarie e di tributi. Non riconosceva il diritto di cittadinanza ai discendenti di coloro che l’avevano ottenuta per sé e per i propri posteri, eccettuati i loro figli. Sosteneva infatti che non si dovessero intendere come posteri quelli che venivano dopo il primo grado e, se gli portavano come prove i diplomi del Divo Giulio o del Divo Augusto, li stracciava in quanto vecchi e obsoleti. Denunciava come false le dichiarazioni di quei censi che, per un qualsiasi motivo, successivamente fossero aumentati. Annullò i testamenti dei primipilari che, dall’inizio del principato di Tiberio, non avevano nominato come eredi né quello né lui stesso, in quanto esempi di ingratitudine ma ritenne nulli e vani anche i testamenti di chi, a detta di qualcuno, aveva deciso di nominare erede l’imperatore. Instillò in tutti una tale paura, che lo nominavano erede, insieme ai loro familiari, anche persone a lui sconosciute e dei genitori lo inserirono, insieme ai propri figli, nei loro testamenti ed egli osava anche dire che lo avevano preso in giro, se continuavano a vivere dopo il testamento e a molti di loro fece recapitare manicaretti avvelenati. Giudicava le cause solo dopo aver fissato la somma per la cui acquisizione si doveva procedere, e solo una volta ottenutala si levava la seduta. Inoltre, non sopportando anche il più piccolo indugio, una volta arrivò a condannare con una sola sentenza più di quaranta imputati di cause diverse e si vantò con Cesonia, che si era appena ridestata, di aver fatto tutto questo nel tempo che lei riposava dopo pranzo. Faceva mettere all’asta ciò che rimaneva dopo gli spettacoli e lo esponeva e lo vendeva fissando lui stesso i prezzi e facendoli salire a tal punto che alcuni, costretti a comprare a un prezzo altissimo e avendo perso così tutti i loro beni, si tagliarono le vene. È ben noto che una volta Caio avvertì il banditore di non lasciarsi sfuggire l’ex pretore Aponio Saturnino che, sonnecchiando lì tra i sedili, chinava ogni tanto il capo in avanti, come se annuisse, e non si ultimò la licitazione se non quando, senza che quello lo sapesse, gli furono aggiudicati tredici gladiatori per nove milioni di sesterzi.»

SVETONIO, CALIGOLA, 32-38

Caligola

Pochi mesi dopo l’inizio del suo principato Caligola cadde gravemente malato e per poco non rischiò di morire; non sappiamo quali siano state le sue reali condizioni di salute e cosa abbia causato tutto ciò, ma tutte le fonti sono concordi nell’identificare il principe venuto dopo la lunga degenza come un mostro:

«Finora ho parlato più o meno del principe; mi resta ora di parlare del mostro. Dopo aver assunto vari epiteti (si faceva chiamare infatti Pio, Figlio dell’accampamento, Padre degli eserciti, Cesare Ottimo Massimo), quando sentì per caso alcuni re, giunti a Roma per rendergli ossequio, discettare durante la cena che si teneva alla sua mensa, della nobiltà di stirpe, esclamò: «Uno solo sia il sovrano, uno solo il re!». E mancò poco che si mettesse in testa immediatamente il diadema e mutasse la parvenza del principato nella forma effettiva del regno. Ma, poiché gli ricordarono che egli era andato ben oltre la grandezza dei principi e dei re, da quel momento iniziò ad attribuirsi la maestà divina. Diede incarico di portare dalla Grecia i simulacri degli dei, noti per la loro importanza religiosa o artistica, e tra questi la statua di Zeus Olimpio, e fece sostituire la testa di queste statue con la riproduzione della propria. Fece prolungare una parte del Palazzo fino al Foro e, trasformato il tempio di Castore e Polluce in vestibolo, si presentava spesso seduto tra i due Dioscuri a coloro che si recavano da lui, come terza divinità da adorare in mezzo agli altri due e alcuni lo salutavano anche come Giove Laziale. Instituí inoltre in onore del proprio nume un tempio, dei sacerdoti e vittime assai rare. Nel tempio era stata eretta una sua statua d’oro a grandezza naturale, che ogni giorno veniva avvolta da una veste identica a quella indossata da lui stesso. I cittadini più ricchi si contendevano le cariche di quel sacerdozio brigando e offrendo grandi somme di denaro per ottenerle. Le vittime erano fenicotteri, pavoni, urogalli, faraone, galli indiani, fagiani ed ogni giorno ne veniva immolata una specie diversa. Di notte poi invitava la luna piena e luminosa, con preghiere assidue, a far l’amore e a giacere con lui; di giorno invece conversava in segreto con Giove Capitolino, ora bisbigliando e porgendo a sua volta l’orecchio, ora a voce alta e lanciando improperi. Lo si udì infatti minacciare: «O tu togli di mezzo me, o io te!». Finché, supplicato, così andava dicendo, e anzi invitato a vivere con lui, fece unire il Palatino con il Campidoglio, facendo passare un ponte sopra il tempio del Divo Augusto. Subito dopo, per stargli ancora più vicino, fece gettare le fondamenta della nuova reggia proprio nell’area capitolina[…] E non ebbe maggior rispetto o umanità verso il Senato: ad alcuni che avevano rivestito altissime cariche fece la concessione di correre in toga presso il suo cocchio per molte miglia e di stare ai suoi piedi o alla spalliera, con un tovagliolo alla cintola, mentre egli cenava; altri, dopo averli fatti ammazzare di nascosto, continuò a farli convocare, come se fossero vivi e dopo alcuni giorni, dichiarò, mentendo, che si erano suicidati. Sospese l’incarico ai consoli che si erano dimenticati di annunziare al pubblico il suo giorno natale e lo Stato rimase per tre giorni senza la sua più alta carica. Fece flagellare il suo questore, indiziato di congiura, avendo fatto gettare sotto i piedi dei soldati la veste che gli era stata strappata di dosso, affinché potessero poggiarvisi più saldamente per frustarlo. Con eguale disprezzo e violenza trattò anche gli altri ordini. Irritato dal chiasso della folla che occupava i posti gratuiti del Circo nel bel mezzo della notte, fece scacciare tutti a bastonate. In quello scompiglio rimasero schiacciati più di venti cavalieri romani e altrettante matrone, oltre un numero imprecisato di altre persone della folla. Durante i ludi scenici, per creare la rissa tra la plebe e i cavalieri, dava le elargizioni prima del tempo previsto, affinché i posti riservati ai cavalieri fossero occupati dai più poveri. Durante alcuni spettacoli gladiatori, talvolta faceva togliere il velario quando il sole era più ardente, non permetteva a nessuno di uscire e, eliminato l’allestimento ordinario, offriva al pubblico bestie macilente, gladiatori scadentissimi e vecchissimi, talora gladiatori per burla, padri di famiglia noti per un qualche difetto fisico. Spesso minacciò di affamare il popolo, dopo aver fatto chiudere i granai pubblici. In questi modi rivelò al massimo la sua indole crudele. Poiché le bestie da dare in pasto alle fiere destinate allo spettacolo costavano troppo care, fece dare loro da sbranare alcuni condannati e, passando in rassegna le prigioni, senza guardare le note di alcuno, ordinò di farli uscire tutti, «da quel calvo a quell’altro calvo», standosene soltanto in mezzo al portico. Pretese che un tale che aveva promesso di battersi come gladiatore per la guarigione dell’imperatore, mantenesse il voto e stette a guardarlo mentre combatteva con la spada e non lo fece smettere finché non risultò vincitore e solo dopo essersi fatto pregare a lungo. Un altro che, per lo stesso motivo, aveva fatto voto di uccidersi, lo consegnò a dei ragazzi affinché cinto di verbene e bende sacre, lo spintonassero da un rione all’altro fino a farlo precipitare da un’altura. Condannò molti cittadini di onorevole condizione, dopo averli sfregiati col marchio d’infamia, ai lavori forzati nelle miniere e nella lastricazione delle strade, o li fece rinchiudere in gabbia costringendoli a stare a quattro zampe, come bestie, altri li fece segare in due e non per gravi colpe, magari perché avevano giudicato male un suo spettacolo o non avevano mai giurato sul suo genio. Costringeva i genitori ad assistere alla tortura dei figli e ad un genitore che aveva addotto il pretesto di un’indisposizione per sottrarsi, fece mandare una lettiga; un altro, subito dopo averlo fatto assistere al supplizio, lo invitò a pranzo e lo provocava a ridere e scherzare, con ogni tipo di allettamento. Fece battere con le catene in sua presenza per svariati giorni un organizzatore di spettacoli e di cacce, e lo fece uccidere solo quando il lezzo della sua testa, per le ferite marcite d’infezione, divenne insopportabile. Fece bruciare vivo in mezzo all’arena dell’anfiteatro il compositore di un’atellana, per un verso di senso ambiguo. Ordinò di far ritirare dall’arena un cavaliere romano, condannato ad esser dato in pasto alle belve, che si proclamava innocente: gli fece strappare la lingua e poi lo mandò di nuovo nell’arena. Una volta, poiché aveva chiesto a un tale che tornava da un lungo esilio, come fosse solito passare il tempo laggiù e quello, per adularlo, gli aveva risposto: «Pregavo sempre gli dei di far morire Tiberio, come poi è accaduto, e che divenissi tu imperatore», pensando che anche quelli condannati da lui all’esilio chiedessero in preghiera la sua morte, mandò degli emissari nelle isole per ucciderli tutti. Essendogli venuta la voglia di fare a pezzi un senatore, istigò alcuni affinché, appena fosse entrato nella Curia, lo assalissero, proclamandolo nemico pubblico e dopo averlo trafitto con gli stili, lo dessero da straziare alla folla e fu pago solo dopo aver visto le membra e gli arti e le viscere di quello trascinati per le strade e poi ammucchiate davanti a sé. E aggiungeva all’atrocità delle sue azioni quella delle parole. Diceva che la cosa che più lodava e approvava della propria indole era, per usare un suo termine, la ἀδιατρεψίαν (cioè l’impudenza). Alla nonna Antonia che lo rimproverava, come se non bastasse solo disobbedire, disse: «Ricordati che a me è concesso fare ogni cosa e contro chiunque!». Quando stava per uccidere il fratello e sospettava che quello, temendo d’essere avvelenato, prendesse un antidoto, disse: «Un antidoto contro Cesare?». Minacciava le sorelle che aveva relegato in esilio, dicendo che egli oltre alle isole possedeva anche le spade […] Quando ogni dieci giorni firmava l’elenco dei prigionieri da torturare, diceva che egli «regolava i conti». Avendo condannato contemporaneamente dei Galli e dei Greci, si vantava di «aver soggiogato la Gallogrecia». Non permise che si suppliziasse alcuno se non con colpi brevi e frequenti, per via di quel suo precetto noto e spesso da lui ribadito: «Ferisci in modo che senta di morire!». Una volta, avendo fatto punire per un errore di nominativo una persona diversa, disse che anche quello aveva meritato eguale sorte. Di tanto in tanto andava ripetendo quel verso di una tragedia: Odino, purché temano. Spesso inveì contro tutti i senatori allo stesso modo, appellandoli clienti di Seiano, delatori di sua madre e delle sue sorelle, tirando fuori i documenti che aveva fatto finta di bruciare, difendendo la efferatezza di Tiberio come inevitabile se si doveva prestar fede a così tanti accusatori. Denigrò spesso l’ordine dei cavalieri come dedito agli spettacoli del Circo. Adirato con la folla che plaudiva contrariamente alle sue preferenze, esclamò: «Ah, se il popolo romano avesse una sola testa!».»

SVETONIO, CALIGOLA, 22-30

Forse l’imperatore era impazzito, forse era già pazzo, o forse semplicemente molte delle fonti essendo scritte da senatori sono ostili nei suoi confronti per partito preso, o forse tutte le cose messe insieme. Si fece costruire perfino delle enormi navi nel lago di Nemi, dove passava il tempo libero, che vennero poi ritrovate durante il periodo fascista quando il lago fu prosciugato (e successivamente distrutte durante la seconda guerra mondiale in circostanze non del tutto chiaro). E’ difficoltoso distinguere la propaganda dalla realtà, ma è estremamente probabile sia che la malattia abbia compromesso le sue facoltà mentali, sia che nei suoi modi di fare ci fosse una deliberata sfida al senato:

«Favorì chi gli stava a cuore, fino alla follia. Inviava baci all’attore di pantomimo Mnestere, anche durante lo spettacolo e se qualcuno faceva anche un minimo rumore mentre quello danzava, lo faceva trascinare presso di sé e lo flagellava con le sue stesse mani. A un cavaliere romano che dava fastidio, fece notificare l’ordine di partire senza il minimo indugio per Ostia e recare al re Tolomeo, in Mauritania, un plico il cui contenuto era: «Non fare né bene né male al latore della presente». Nominò a capo della sua guardia del corpo germanica alcuni Traci. Alleggerì l’armatura dei mirmilloni. A uno di essi, di nome Colombo, che aveva vinto il combattimento ma era rimasto leggermente ferito, fece stillare nella piaga un veleno che poi chiamò Colombino. Fu trovato infatti insieme agli altri veleni così denominato con una scritta di suo pugno. Era accanito sostenitore dei Verdi tanto che spesso si intratteneva a cena nelle scuderie e, durante una di queste gozzoviglie, diede vari doni per un valore di due milioni di sesterzi all’auriga Eutico. Per il suo cavallo Incitato faceva imporre e rispettare il silenzio, anche con l’intervento delle guardie, la sera prima della corsa, affinché non fosse disturbato. Gli donò, oltre una stalla di marmo e una greppia d’avorio, coperte di porpora e bardamenti di pietre preziose e anche una casa con tanto di servitù e mobilio, perché le persone che faceva invitare a nome del cavallo fossero ospitate assai degnamente. Si dice che volesse persino candidarlo al consolato.»

SVETONIO, CALIGOLA, 55

Nerone

Inizialmente il principato di Nerone è ricordato in modo entusiasta dai contemporanei: è il quinquennium Neronis, il quinquennio del buon principe, sullo stile augusteo, forse coadiuvato anche da Seneca. Nerone allontanò Ottavia, che mal sopportava, per Poppea, di cui era innamorato. Lei sì sposò con Otone in un matrimonio di facciata (per ordine di Nerone), che diventerà imperatore dopo la morte di Nerone. Inizia ora il periodo “buio” di Nerone. Forse sotto l’influenza di Poppea cerca di far assassinare la madre simulando un incidente, ma questa si salva, e quindi è costretto a inviare dei soldati a farla fuori: Nerone voleva ingombrarsi dell’ombra pesante di Agrippina, che lo condizionava. Morta Agrippina, nel 62 d.C. Nerone ripudiò Ottavia accusandola di sterilità, per sposare Poppea. Infine la spinse al suicidio. Nello stesso anno morì Burro (forse avvelenato da Nerone) e fu sostituito da Tigellino, persona senza scrupoli nel macchiarsi di delitti. Divenne ricchissimo e potentissimo. Pompea morì forse attorno al 66 d.C. e Nerone sposò Statilia Messalina.

«Un po’ alla volta, però, i suoi vizi si accentuarono e abbandonò tali ribalderie e sotterfugi e, non badando più a non farsi scoprire, si diede apertamente ad eccessi peggiori. Protraeva i banchetti da mezzogiorno a mezzanotte e spesso si ristorava facendo il bagno in piscine con acqua calda oppure, d’estate, in acque in cui veniva sciolta della neve. Soleva anche talvolta cenare in pubblico, nel recinto della Naumachia o in Campo Marzio o nel Circo Massimo, facendosi servire dalle puttane di tutta la città e dalle suonatrici ambulanti. Ogni volta che navigava lungo il Tevere, per andare a Ostia, o costeggiava le rive di Baia, si allestivano lungo le rive o sulla spiaggia delle taverne come posto di ristoro, notoriamente luoghi di dissolutezza, e da qui le matrone, imitando nelle mosse le ostesse, lo invitavano ad approdare. Si faceva anche invitare dagli amici e ad uno di questi una cena mitellita 13 costò quattro milioni di sesterzi, a un altro, un banchetto di rose costò ancor di più. 28. Non solo faceva sesso con ragazzi liberi e donne sposate, ma violentò anche Rubria, una vergine Vestale e fu quasi sul punto di sposare Atte, una liberta: aveva persino corrotto alcuni consolari perché giurassero che era di famiglia regale. Fece recidere i testicoli al giovane Sporo, cercando anche di fargli cambiare sesso, se lo fece portare con la dote e il velo rosso, con una cerimonia fastosa, come nei riti nuziali solenni, e lo tenne presso di sé come una moglie. E si cita ancora la battuta arguta di un tale che disse a riguardo che «sarebbe stato un bene per l’umanità se anche suo padre Domizio avesse avuto una moglie siffatta». Questo Sporo, vestito con abbigliamento da imperatrice, se lo portava con sé in lettiga, baciandoselo di tanto in tanto, sia in Grecia, per tutte le adunate e le fiere, sia a Roma, per i Sigillari 14. Che abbia desiderato unirsi anche con sua madre e che sia stato dissuaso dai nemici di Agrippina, i quali temevano che la donna, già così fiera e prepotente, dopo un simile trattamento di favore, avrebbe preso il sopravvento, nessuno lo mise in dubbio, soprattutto dopo che prese tra le sue concubine una prostituta nota per la sua somiglianza con Agrippina. Dicono anche che tutte le volte che andava in giro in lettiga con la madre, si eccitava di desiderio incestuoso e questo era evidente dalle macchie della sua veste.»

SVETONIO, NERONE, 27-28

Circolava dopo l’incendio la voce, già durante il divampare delle fiamme, che ad appiccarlo fosse stato Nerone stesso. Infatti oltre alle 7 coorti di vigili in azione (che spesso non potevano fare altro che abbattere gli edifici in fiamme prima che le fiamme si propagassero a quelli adiacenti) molti avevano visto agenti di Nerone in giro per la città impedire alla gente di rientrare nelle case o appiccare incendi in case non ancora coinvolte. Inoltre il fuoco era ripreso dopo che si era estinto e Roma aveva continuato a bruciare ancora per giorni. Alcuni credevano che fosse stato Nerone proprio per questo; tuttavia l’azione di queste persone era volta a creare con ogni probabilità zone cuscinetto per evitare ulteriori propagazioni delle fiamme. Sarebbe strano pensare che mentre avveniva questo e le persone erano convinte della sua colpevolezza Nerone si aggirasse per Roma cercando di portare aiuto. E sarebbe ancora più strano pensare che andò in fiamme la domus transitoria in cui erano custodite moltissime e preziosissime opere d’arte che Nerone adorava; sarebbe stato più logico, se fosse stato il mandante dell’incendio, restare al sicuro a Anzio (dove si trovava) e spostare le opere d’arte.

«Tuttavia gli sperperi maggiori li fece nelle opere di costruzione. Si fece costruire una casa che si estendeva dal Palatino all’Esquilino che chiamò dapprima transitoria e poi, quando la fece ricostruire, perché era stata distrutta da un incendio, aurea. Della sua grandezza e magnificenza basterà dire questo: c’era un atrio in cui era stata eretta una statua colossale di Nerone alta centoventi piedi. Tale era l’ampiezza, che all’interno aveva porticati a tre ordini di colonne, lunghi un miglio; c’era anche un lago artificiale che sembrava un mare, circondato da edifici che formavano come delle città. Inoltre, all’interno c’erano campi, vigne, pascoli, boschi con svariati animali, selvatici e domestici, d’ogni genere. Nelle altre parti, ogni cosa era rivestita d’oro e ornata di gemme e madreperla. Il soffitto delle sale da pranzo era di lastre d’avorio mobili e forate, perché vi si potessero far piovere dall’alto fiori ed essenze. La sala principale era circolare e ruotava su se stessa tutto il giorno e la notte, senza mai fermarsi, come la terra. Nelle sale da bagno scorrevano acque marine e albule. Quando Nerone inaugurò questa casa, alla fine dei lavori, espresse il suo compiacimento, dicendo che «finalmente poteva cominciare ad abitare in modo degno di un uomo».»

SVETONIO, NERONE, 31

Domiziano

Domiziano andava ripetendo che nel testamento di Vespasiano sia lui che il fratello Tito erano designati come co-imperatori ma che quest’ultimo, abile calligrafo, lo avesse falsificato. Emblematico è anche Svetonio che narra di Tito, ormai prossimo alla morte, di non pentirsi di niente tranne di una cosa. Che fosse realmente il testamento falsificato e ci fosse Domiziano dietro la morte del fratello? O forse sapeva dell’indole di Domiziano e si pentiva di averlo lasciato in vita e non aver fatto nulla per impedirne la successione? O semplicemente rimpiangeva la regina Berenice, con cui aveva avuto una relazione durante la campagna giudaica ma che poi non aveva potuto proseguire? Probabilmente non lo sapremo mai.

«Indiceva continuamente spettacoli splendidi e costosi, non solo nell’anfiteatro, ma anche nel circo, dove, oltre alle tradizionali corse di bighe e quadrighe, organizzò anche un doppio combattimento, di cavalieri e di fanti. Nell’anfiteatro diede un combattimento navale, e cacce e lotte di gladiatori anche di notte, alla luce delle fiaccole, e non solo combattimenti fra uomini, ma anche fra donne. Inoltre presenziava sempre agli spettacoli offerti dai questori che, dopo un periodo di sospensione, aveva ripristinati.»

Svetonio, Domiziano, 4

Domiziano si dedicò anche al restauro di molte opere pubbliche e fu molto meno parsimonioso del padre, finendo per dover sottrarre molte proprietà a senatori, dopo averli uccisi o fatti suicidare. Fu inoltre un moralizzatore e promosse in ogni modo la religione latina; fu estremamente duro con chi non rispettava i dettami religiosi: per le vestali che avevano infranto la castità decretò la morte (contrariamente al padre e il fratello che avevano fatto finta di nulla). Ma specialmente cominciò a gradire di essere chiamato dominus et deus, e cominciò a diventare sempre più autoritario:

«La sua crudeltà poi non solo era grande, ma anche subdola e imprevedibile. Il giorno prima di far crocifiggere il suo tesoriere, lo chiamò nella sua camera, lo costrinse a sedergli vicino sul letto, lo accomiatò rassicurato e contento, gli offrì perfino una parte della sua cena. […] Depauperato dalle spese sostenute per l’edilizia, per gli spettacoli e per l’aumento delle paghe, cercò, sì, di abbassare il numero dei soldati per alleviare le spese militari, ma, quando si avvide che, con questo provvedimento, da un lato rimaneva indifeso di fronte ai barbari, dall’altro si trovava non meno invischiato nell’affrontare le difficoltà finanziarie, allora non ebbe più nessuno scrupolo a rapinare in tutti i modi possibili e immaginabili. Dovunque, con qualsiasi accusatore e qualsiasi accusa, venivano sequestrati i beni dei vivi e dei morti. Bastava che fosse denunciato un gesto o una qualunque parola contro la maestà del principe. Venivano confiscate anche le eredità più impensabili, purché qualcuno comparisse a dire di aver udito dal defunto, quando era in vita, che suo erede era Cesare.»

«Con pari arroganza, nel dettare una lettera circolare a nome dei suoi procuratori, così la iniziò: «Il nostro signore e dio comanda che ciò sia fatto». Per cui, in seguito, fu stabilito che non fosse chiamato altrimenti neppure negli scritti e nei discorsi di una qualsiasi persona. Non acconsentì che gli venissero erette statue in Campidoglio, se non d’oro e d’argento e di un determinato peso. Fece costruire nei vari quartieri della città tante e tali volte ed archi sormontati da quadrighe e insegne trionfali, che su uno di essi si trovò scritto in greco: Basta!»

Svetonio, Domiziano, 11; 13

Commodo

Commodo decise di abbandonare le conquiste del padre oltre il Danubio e di ritornare a Roma. Era stato nominato Cesare e aveva ricevuto la tribunicia potestas nel 177. Strinse la pace con i barbari, contro i consigli dei collaboratori paterni e fermò le persecuzioni contro i cristiani che c’erano state sotto il padre. Tuttavia il suo atteggiamento libertino e l’amore per i giochi e gli spettacoli, e la poca cura che riponeva nel governo, spinse la sorella Lucilla e il consolare Ummidio Quadrato, a organizzare una congiura, fallita, per eliminarlo. La congiura, avvenuta nel 182, era fallita.

«Dopo quanto avvenuto Commodo si mostrava difficilmente in pubblico, e non voleva che gli venissero portati messaggi senza che prima se ne fosse occupato Perenne. Perenne, poi, che sapeva tutto del carattere di Commodo, trovò il modo di diventare lui stesso potente. Persuase infatti Commodo a dedicarsi completamente ai suoi divertimenti, mentre lui, Perenne, si assumeva le cure del governo; ciò che Commodo accettò con entusiasmo. Vivendo dunque secondo questo accordo, se la spassava nel Palazzo gozzovigliando tra banchetti e bagni in compagnia di trecento concubine, che aveva radunato scegliendole fra le matrone e le meretrici per la loro bellezza, e di giovanetti pervertiti, anch’essi in numero di trecento, che aveva raccolto a viva forza o comprandoli, tanto fra il popolo quanto di mezzo alla nobiltà, e avendo quale criterio di scelta l’avvenenza. Di tanto in tanto, in veste di sacerdote, immolava vittime. Si cimentava in duelli in qualità di gladiatore, usando nell’arena dei bastoni, mentre, quando combatteva con gli inservienti di corte, con armi talvolta affilate. Intanto comunque Perenne aveva avocato a sé ogni potere; metteva a morte chi voleva, spogliava dei beni moltissime persone, sovvertiva tutte le leggi, si accaparrava tutto ciò che poteva arraffare. Dal canto suo Commodo fece uccidere la sorella Lucilla dopo averla confinata a Capri. Poi, dopo aver violentato, a quanto si dice, tutte le altre sorelle, e aver anche avuto rapporti con una cugina del padre, arrivò a dare il nome della madre a una delle sue concubine. Sua moglie, che aveva sorpreso in adulterio, la cacciò di casa, poi la fece deportare, e infine la fece uccidere. Ordinava che le stesse sue concubine venissero violentate sotto i suoi occhi. Né era esente dall’ignominia di essere stato oggetto di rapporti omosessuali con giovani, e non c’era parte del suo corpo, compresa la bocca, che non fosse stata contaminata da aberrazioni sessuali in rapporto ad entrambi i sessi.»

HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 5, 1-11

Ma da allora Commodo, sconsolato, si ritirò dagli affari pubblici, che delegava ad altri, preferendo dedicarsi agli spettacoli gladiatori, che amava oltremodo:

“Nel frattempo riferiscono che Commodo combatté trecentosessantacinque volte durante il regno di suo padre, e successivamente allo stesso modo ottenne tante vittorie gladiatorie sia sconfiggendo sia uccidendo i reziari, da arrivare a toccare le mille. Uccise di sua mano molte migliaia di fiere di diverse razze – tra cui abbatté anche degli elefanti. E queste imprese le compiva spesso davanti agli occhi del popolo romano. Ma se in questo campo fu davvero valente, per il resto era debole e malaticcio, anche per via di un’ernia inguinale sviluppata al punto che la gente poteva riconoscerne il gonfiore attraverso le vesti di seta. A tale proposito furono scritti molti versi, che Mario Massimo si vanta di riportare anche nella sua opera. Tale era la forza di cui disponeva quando doveva abbattere le bestie feroci, che trafiggeva un elefante con una picca, e una volta trapassò con un’asta il corno di una gazzella; era poi in grado di uccidere molte migliaia di grosse fiere con un sol colpo ciascuna. Era così spudorato che assai spesso, mentre sedeva al circo o a teatro, beveva in pubblico vestito da donna. Tuttavia, nonostante questo fosse il suo tenore di vita, durante il suo impero furono vinti, grazie all’azione dei suoi comandanti, i Mauri e i Daci, e vennero pacificate la Pannonia e la Britannia, mentre in Germania e in Dacia i provinciali si sollevavano contro il suo potere; ma tutti questi moti furono sedati dai suoi generali. Commodo era pigro e svogliato anche per sottoscrivere i documenti, tanto che rispondeva a molte petizioni con un’unica medesima formula, e in moltissime lettere scriveva soltanto «Vale». Tutti gli affari erano trattati da altri personaggi, che si dice riuscissero a volgere a vantaggio della loro borsa persino le condanne.”

HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 12, 10 – 13, 8

Messi da parte gli affari pubblici, Commodo cominciò a passare sempre più tempo nel Colosseo, fino a voler scendere lui stesso nell’arena, azione considerata infamissima, in quanto chi vi partecipava era solitamente uno schiavo. Non solo, partecipava ai combattimenti travestito da Ercole, con una clava e una pelle di leone.

«Fin qui le sue azioni, sebbene fossero indegne di un imperatore, gli conferivano agli occhi della plebe il prestigio del valore e della destrezza; ma quando egli scese nell’anfiteatro, e, spogliatosi dei suoi abiti, cinse le armi per impegnare combattimenti da gladiatore, allora il popolo vide uno spettacolo ripugnante: un imperatore romano di nobile stirpe, dopo tanti trionfi del padre e degli avi, cingeva armi che non erano quelle del soldato, e non servivano per combattere i barbari, come si addice allo stato romano; anzi infangava la propria maestà con un abito turpe e dispregiato. Egli naturalmente, nel combattere, superava facilmente gli avversari, e riusciva a ferirli: poiché tutti si lasciavano battere, cedendo al sovrano se non al guerriero. E giunse a tal punto di follia, che non voleva piú nemmeno abitare il palazzo imperiale, e meditava di trasferirsi alla caserma dei gladiatori; inoltre rinunciò al nome di Ercole, e si fece chiamare con il nome di un gladiatore famoso che era morto qualche tempo prima. Ordinò poi di togliere la testa alla statua colossale che rappresenta il Sole, ed è oggetto di venerazione da parte dei Romani, e vi sostituí la propria effigie, iscrivendo sulla base, come è consuetudine, i titoli imperiali suoi e del padre; ma, in luogo di «vincitore sui Germani» vi fece iscrivere «vincitore su mille gladiatori».»

ERODIANO, STORIA DELL’IMPERO ROMANO DOPO MARCO AURELIO, 15, 7-9

Commodo era ormai impazzito e, racconta Cassio Dione, in un’occasione decapitò uno struzzo e procedette verso i senatori seduti con la sua testa in una mano e il gladio nell’altra, limitandosi a scuotere la testa e sghignazzare. Fu proprio la prontezza di Cassio Dione a salvare tutti; infatti prese una foglia dell’alloro che aveva in testa e prese a masticarla, facendo cenno agli altri di imitarlo, in modo da nascondere il riso (Cassio Dione, Storia Romana, 72, 21, 2).

«Tuttavia, nonostante questo fosse il suo tenore di vita, durante il suo impero furono vinti, grazie all’azione dei suoi comandanti, i Mauri e i Daci, e vennero pacificate la Pannonia e la Britannia, mentre in Germania e in Dacia i provinciali si sollevavano contro il suo potere; ma tutti questi moti furono sedati dai suoi generali. Commodo era pigro e svogliato anche per sottoscrivere i documenti, tanto che rispondeva a molte petizioni con un’unica medesima formula, e in moltissime lettere scriveva soltanto «Vale». Tutti gli affari erano trattati da altri personaggi, che si dice riuscissero a volgere a vantaggio della loro borsa persino le condanne. A causa di questa sua trascuratezza, poiché coloro che gestivano allora l’amministrazione dello Stato rubavano persino sui rifornimenti annonari, ebbe anche a scoppiare a Roma una grave carestia, benché non ci fosse deficienza di prodotti. In seguito questi individui che facevano razzia di ogni cosa Commodo li mise a morte e ne fece proscrivere i beni. Ma egli a sua volta, volendo far apparire che era tornata un’età dell’oro chiamata «Commodiana», impose un abbassamento dei prezzi, con cui finì per rendere più grave la carestia.»

HISTORIA AUGUSTA, COMMODO, 13, 5-8; 14, 1-3

Ironia della sorte, sarà proprio un gladiatore ad ucciderlo. Alla fine, dopo diverse congiure sventate, Commodo fu strangolato da Narciso, il gladiatore con cui si allenava, dopo un primo tentativo di avvelenarlo. La congiura era stata organizzata da Marcia, concubina dell’imperatore, e Emilio Leto, prefetto al pretorio. Pare che un ragazzino con cui giocava l’imperatore, ribattezzato da lui Filocommodo, trovò un foglietto di carta, e non sapendo leggere lo usava per giocare. Lo diede poi a Marcia, che lesse su quel foglio la lista di persone che l’imperatore voleva far uccidere, e c’era anche lei. La congiura fu organizzata rapidamente, ma riuscì (ce n’erano state diverse negli anni precedenti). Era il 31 dicembre 192 d.C. Il primo gennaio del 193 sarebbe diventato imperatore il prefetto dell’Urbe Pertinace, già comandante durante le guerre marcomanniche.

Eliogabalo

Dopo la morte di Caracalla e l’acclamazione di Macrino la legione III Gallica aveva acclamato imperatore Vario Bassiano, un lontano cugino di Caracalla, che la madre Giulia Soemia (cugina di I grado di Caracalla) andava spacciando per figlio illegittimo di Caracalla. Macrino, che pure aveva associato suo figlio Diadumeno a Cesare, venne sconfitto in battaglia dalle truppe di Bassiano, guidate dall’eunuco Gannys. Vario, che la madre aveva ormai deciso fosse figlio di Caracalla, prese il nome di Antonino Eliogabalo; il primo dal cugino-padre, il secondo perché sacerdote di El-Gabal, la divinità solare di Emesa, città natale della nonna Giulia Mesa. Appena quattordicenne, fece ritorno a Roma, considerandosi più sacerdote che imperatore.

«Ma non appena entrò in Roma, trascurando gli affari delle province, si preoccupò di consacrare il culto del dio Eliogabalo, facendogli erigere un tempio sul colle Palatino, nei pressi del palazzo imperiale, con l’intenzione di trasferirvi il simulacro della Gran Madre, il fuoco di Vesta, il Palladio, gli scudi ancili, e tutti gli oggetti sacri ai Romani, per far sì che a Roma non fosse venerata alcuna divinità se non Eliogabalo. Diceva inoltre che in quel tempio dovevano essere trasferiti anche i culti delle religioni dei Giudei e dei Samaritani, nonché i riti dei Cristiani, affinché l’ordine sacerdotale di Eliogabalo divenisse depositario dei misteri di tutti i culti. Poi, quando tenne la prima seduta con il senato, diede ordine che sua madre fosse invitata a parteciparvi. Al suo arrivo, fu invitata a sedersi su uno degli scanni riservati ai consoli, e presenziò personalmente alla redazione del verbale, in altre parole fu testimone della stesura del decreto senatorio; ed egli fu l’unico fra tutti gli imperatori sotto il cui regno una donna, quasi fosse un’Eccellenza, entrò in senato a svolgere mansioni riservate agli uomini. Fece inoltre costruire sul colle Quirinale un «senatino», cioè un senato di donne, proprio dove in passato si riunivano le matrone romane, ma solo in occasione di particolari solennità, od ogniqualvolta una qualche matrona riceveva le insegne riservate alle spose dei consoli, un privilegio che gli antichi imperatori avevano talora concesso alle loro parenti, specialmente a quelle che avevano sposato uomini privi di titoli nobiliari, perché non avessero a perdere il loro rango.»

«E poiché era destinato che Macrino, dopo aver goduto del potere per un solo anno, perdesse insieme la vita e il trono, il fato offerse ai soldati quell’infimo pretesto che essi desideravano. A Giulia, moglie di Severo e madre di Antonino, era sopravvissuta una sorella, chiamata Mesa, nata nella città fenicia di Emesa. Questa, mentre Giulia era in vita, aveva passato molti anni alla corte imperiale, finché furono sul trono Severo e Antonino; ma dopo l’uccisione di quest’ultimo e il suicidio di Giulia, Macrino aveva ordinato che Mesa ritornasse in patria, e vivesse nella propria casa, pur conservando ciò che possedeva. Aveva infatti grandi ricchezze, essendo vissuta per tanto tempo nella cerchia della corte. Tornata a casa, la vecchia dimorava nei suoi possedimenti, insieme con due figlie: la maggiore si chiamava Soemiade, la minore Mamea. La prima aveva un figlio, di nome Bassiano, che era allora di quattordici anni; la seconda pure un figlio di nome Alessiano, che raggiungeva i dieci anni. I due fanciulli erano allevati dalle loro madri, e dalla nonna; erano consacrati al dio Sole, cui gli abitanti del paese rendono culto, chiamandolo in lingua fenicia Elagabalo. A questo è consacrato un tempio grandioso, adorno in abbondanza d’oro, argento e svariate pietre preziose; il dio è onorato non solo dagli indigeni, ma anche da tutti i satrapi e i re barbari dei paesi circostanti, i quali fanno a gara nell’inviare ogni anno ricchissimi doni votivi. Ma non c’è alcuna statua lavorata da mano d’uomo, che riproduca, com’è uso presso i Greci e i Romani, l’immagine del dio; vi si conserva invece una grande pietra, arrotondata inferiormente, appuntita in alto: in complesso ha forma conica, e la superficie è nera. La tradizione sacrale afferma che essa è stata inviata dal cielo; vi si notano piccole sporgenze e cavità, e gli indigeni, poiché cosí vogliono vedere, credono che, pur non essendo opera d’arte umana, sia l’immagine del Sole. Bassiano, essendo sacerdote di questo dio (a lui infatti era toccata la carica, poiché era il maggiore), soleva indossare vesti barbariche: tuniche purpuree trapunte d’oro, fornite di larghe maniche, e lunghe fino ai piedi; inoltre copriva le gambe, dalla punta dei piedi alla coscia, con calze adorne anch’esse d’oro e di porpora; infine cingeva al capo una mitria adorna con ogni sorta di pietre preziose. Era nel fiore della giovinezza, e nella grazia dell’aspetto superava tutti i coetanei. Poiché in lui si trovavano insieme la bellezza fisica, il fiore dell’età, la dolcezza dell’atteggiamento, ricordava Dioniso, come ci appare nelle sue immagini piú belle. Quando egli svolgeva i riti sacri, e, secondo il costume dei barbari, danzava intorno alle are al suono di flauti, siringhe e altri strumenti, tutti lo guardavano con grande ammirazione, e specialmente i soldati: sia perché la sua bellezza attirava ogni sguardo, sia perché sapevano che era di sangue imperiale.In quel periodo erano accampate intorno alla città ingenti forze, messe a presidio della Fenicia; in seguito, come piú oltre diremo, furono portate altrove. Dunque i soldati, che venivano spesso in città e frequentavano il tempio per partecipare al culto, guardavano con simpatia il giovanetto. Alcuni di essi erano clienti o familiari di Mesa; e questa, allorché si accorse della loro ammirazione per il nipote, rivelò che, sebbene creduto figlio di un altro, egli era in realtà figlio naturale di Antonino. Quanto ci fosse di vero nelle parole di Mesa, non è chiaro; comunque ella diceva che Antonino aveva avuto rapporti con le sue due figlie, allora giovani e belle, nell’epoca in cui ella dimorava al palazzo imperiale con la sorella Giulia. I soldati, avute queste notizie, e riferendole man mano ai commilitoni, diffusero grandemente la voce, finché tutto l’esercito ne fu a conoscenza. Si diceva pure che Mesa possedesse un patrimonio ricchissimo, e che fosse pronta a distribuirlo fra i soldati se questi avessero restituito il trono ai Severi. Infine stabilirono, d’accordo, che Mesa si sarebbe recata all’accampamento in segreto, e di notte; i soldati avrebbero aperto le porte per riceverla con tutta la sua famiglia, e avrebbero proclamato Bassiano imperatore, e figlio di Antonino. La vecchia accettò con entusiasmo, decisa a correre qualsiasi rischio pur di non rimanere lontana dal trono, e pubblicamente umiliata. Dunque una notte uscí nascostamente dalla città con le figlie e i nipoti: i soldati che avevano abbracciato la loro causa li scortarono fino al vallo dell’accampamento, ove furono immediatamente accolti; e subito l’intero esercito acclamò il fanciullo con il nome di Antonino, e lo avvolse nella porpora imperiale. Quindi lo custodirono nell’interno del campo, ove portarono anche tutti i rifornimenti necessari, e le famiglie che alcuni avevano nei villaggi e nelle campagne circostanti; e serrarono le porte, preparandosi, in caso di necessità, a sostenere un assedio.»

«Soleva poi danzare intorno agli altari al suono di svariati strumenti; sacerdotesse orientali danzavano con lui, e correvano per il tempio facendo risuonare timpani e cembali. L’intero senato e l’ordine equestre assistevano al rito, che assumeva cosí l’aspetto di una rappresentazione teatrale. Le viscere degli animali sacrificati, e gli aromi, venivano messi in urne d’oro, e l’incarico di portare queste sul capo non era affidato a schiavi né a individui dappoco, bensí ai prefetti al pretorio e ai magistrati piú eminenti, che dovevano per giunta indossare tuniche lunghe fino ai piedi, fornite di ampie maniche all’uso fenicio, e fregiate al centro da una striscia purpurea; portavano anche calzature di lino, come usano i sacerdoti orientali. Egli poi credeva di concedere un grande onore a quelli che faceva partecipare al rito. Mentre in apparenza pensava solo ai riti e alle danze, tuttavia mandò a morte parecchi cittadini fra i piú ricchi ed eminenti, accusati di aver disapprovato e schernito il suo modo di vivere. Sposò la donna piú nobile di Roma, e le conferí il titolo di Augusta, per ripudiarla subito dopo, ordinandole di ritirarsi a vita privata e di rinunciare a tutti gli onori. In seguito, per dissipare i dubbi che si nutrivano sulla sua mascolinità, finse improvviso amore per una delle Vestali. Queste sacerdotesse sono obbligate dalle regole del loro collegio a mantenersi pure e a restare vergini per tutta la vita; ma egli la strappò dall’altare, e la fece uscire dalla sua sacra dimora. Quindi la prese in moglie, e scrisse al senato per giustificare tanto scellerata empietà, dicendo di essere stato trascinato da una passione perdonabile in un uomo; affermava di essere in preda all’amore per la fanciulla, e osservava poi che il matrimonio fra un sacerdote e una sacerdotessa è cosa opportuna e rispettabile. Senonché poco dopo ripudiò anche questa, e ne sposò una terza, che era imparentata con la famiglia di Commodo. Non si limitava a profanare i matrimoni umani, ma cercava anche una moglie per il dio cui era consacrato; pertanto fece portare nelle sue stanze la statua di Minerva, che i Romani solevano onorare tenendola al riparo da ogni sguardo umano, e che non era mai stata mossa da quando era venuta da Troia, se non in caso d’incendio. Ma egli infranse la tradizione, e trasferí la statua al palazzo per congiungerla in matrimonio con il suo dio. Successivamente affermò che il dio non apprezzava una compagna troppo guerriera e amante delle armi, e mandò a prendere la statua della dea Urania, che è oggetto di grande venerazione da parte dei Cartaginesi e dei Libi. Si dice che l’abbia elevata Didone fenicia, quando fondò l’antica città di Cartagine, tagliando a strisce la pelle di bue. Il nome di Urania è quello usato dai Libi; ma i Fenici la chiamano «Signora degli astri» e la identificano con la Luna. Dunque Antonino, entusiasmato all’idea di sposare il Sole con la Luna, fece portare la statua insieme con tutto l’oro delle offerte votive; altre ingenti ricchezze destinò alla dea come dono nuziale. Quando la statua giunse la fece sistemare nel santuario del suo dio, e ordinò che a Roma e in tutta l’Italia le nozze divine fossero celebrate a spese dell’erario e di privati cittadini, con banchetti e feste d’ogni genere. Fece poi costruire nei dintorni della capitale un tempio grande e bellissimo, al quale ogni anno, nel colmo dell’estate, portava il simulacro del dio; e organizzava per l’occasione solenni cerimonie, corse ippiche, spettacoli nell’anfiteatro; era convinto che il popolo, assistendo alle corse, partecipando ai trattenimenti, celebrando feste notturne, si rallegrasse. Faceva mettere la statua del dio sopra un cocchio intarsiato d’oro e di pietre preziose, e la faceva portare al tempio attraversando tutta la città: il cocchio era un tiro a sei, fornito di cavalli perfettamente bianchi, scelti fra i piú robusti, adorni di borchie ben lavorate e finimenti d’oro. Egli ne portava le redini, ma nessun uomo saliva sul carro: lo accompagnavano stando ai lati, come se il dio in persona lo guidasse. Antonino poi correva davanti al carro, procedendo a ritroso; e con lo sguardo fisso al dio reggeva le briglie dei cavalli: cosí, guardando il dio e correndo all’indietro, faceva tutta la strada. Per evitare che, non potendo vedere dove metteva i piedi, inciampasse e cadesse a terra, veniva sparsa al suolo polvere d’oro in abbondanza; i soldati si allineavano dalle due parti, protendendo gli scudi, e preoccupandosi che non subisse incidenti nella sua corsa. Il popolo faceva ala correndo; tutti portavano fiaccole, e gettavano ghirlande di fiori. I cittadini di rango equestre, e i soldati, precedevano il dio; e si portavano in processione le statue di tutti gli dèi, splendide offerte votive, le insegne imperiali, e ogni altro oggetto prezioso. Giunto alla meta questo corteo, il dio veniva sistemato nel santuario; l’imperatore faceva allora svolgere i riti e le cerimonie di cui si è parlato, e saliva su alte torri appositamente predisposte, donde gettava alla plebe calici d’oro e d’argento, vesti e tessuti d’ogni specie, e tutti gli animali commestibili, escludendo solo i maiali, in omaggio al costume fenicio; e lasciava che ognuno prendesse ciò che voleva. Da ciò sorgevano risse, in cui non pochi trovarono la morte calpestandosi tra di loro e urtando contro le lance dei soldati; sicché le feste di Antonino portarono a molti la rovina. Egli si lasciava spesso vedere mentre guidava i cavalli o danzava; infatti non si preoccupava di nascondere le sue debolezze. Appariva in pubblico, inoltre, con le palpebre truccate, e le guance tinte di rosso, facendo oltraggio con indecorosi belletti a un viso che per natura sarebbe stato gradevole.»

HISTORIA AUGUSTA, ELIOGABALO, 3, 4-5; 4, 1-3; ERODIANO, STORIA DI ROMA DOPO MARCO AURELIO, V, 3, 1-12; V, 5,1 – 6,9
Le rose di Eliogabalo – Lawrence Alma-Tadema

Eliogabalo, appena quattordicenne, forse non rendendosi neanche conto degli oneri che la sua carica comportava, si dedicò a tutto tranne governare. Passava le giornate in dissolutezze, che non si addicevano alla morale romana del tempo. Sposò addirittura la vestale Aquilia Severa, cosa vietatissima in quanto le vestali dovevano mantenere la castità:

«Dopo che dunque Eliogabalo ebbe passato l’inverno a Nicomedia, vivendo nella più sordida depravazione e abbandonandosi con altri uomini a rapporti omosessuali attivi e passivi, ben presto i soldati si pentirono di quanto avevano fatto, cospirando contro Macrino e creando imperatore un tale individuo: volsero allora il loro favore al cugino dello stesso Eliogabalo, Alessandro, che, dopo l’uccisione di Macrino, aveva ricevuto dal senato il titolo di Cesare. Chi infatti avrebbe potuto sopportare un imperatore che aveva fatto di ogni orifizio del suo corpo uno strumento per indulgere ad ogni sorta di libidine, dal momento che neppure in una bestia sarebbe ammissibile tutto ciò? In breve, a Roma non si premurò d’altro se non di incaricare dei suoi emissari di cercargli uomini «superdotati» e di portarglieli alla reggia, onde poter godere di quei loro eccezionali attributi. Amava inoltre mettere in scena nella reggia il dramma di Paride, sostenendo lui stesso la parte di Venere, così che ad un certo punto lasciava cadere all’improvviso le vesti ai suoi piedi, e, rimasto nudo coprendosi con una mano le mammelle e con l’altra le pudende, si inginocchiava lasciando sporgere in alto il di dietro, girato proprio di fronte ai suoi partners di depravazione. Atteggiava poi il volto nella medesima espressione in cui viene solitamente raffigurata Venere nei dipinti, con tutto il corpo depilato, considerando come il più grande risultato che potesse raggiungere nella propria vita l’essere giudicato adeguato e atto a soddisfare la libidine del maggior numero possibile di persone. Vendeva, personalmente o attraverso i suoi servi e i suoi compagni di stravizi, cariche, onorificenze, posti di autorità. Ammetteva nell’ordine senatorio senza alcun criterio di età, di patrimonio, di nascita, badando solo al prezzo che veniva pagato, vendendo allo stesso modo anche le cariche di comando nell’esercito, da quella di tribuno, a quella di legato e di generale, e persino le cariche di procuratore e gli uffici palatini. Gli aurighi Protogene e Gordio, originariamente suoi compagni nella corsa dei carri, furono da lui messi a parte, da allora in poi, di ogni atto della sua vita. Molti furono quelli che, attratto dalle loro bellezze fìsiche, portò a palazzo, prendendoli dal teatro, dal circo, o dall’arena. Aveva poi una violenta passione per Ierocle, tanto da arrivare a baciarlo nell’inguine – roba che fa vergogna anche solo a dirla – affermando che così lui celebrava i riti della dea Flora. Commise incesto con una vergine Vestale. Profanò i sacri culti del popolo romano, depredando i reliquiari dei templi. Avrebbe voluto persino spegnere il fuoco perenne. Né ebbe in animo soltanto di abolire i culti romani, ma quelli di tutto il mondo, animato da quest’unica aspirazione, che il dio Eliogabalo fosse venerato ovunque; e una volta fece irruzione nel santuario di Vesta, dove possono accedere solo le vergini e i pontefici – proprio lui, insozzato com’era da ogni possibile appestamento morale – in compagnia di quelli che erano stati i suoi partners di depravazione. Tentò anche di rubare il sacro reliquiario, ma portò via, credendo che fosse quello giusto (glielo aveva indicato, ingannandolo, la Vergine Massima) un vaso in cui invece non trovò nulla: e allora lo scagliò a terra, mandandolo in pezzi; il culto, comunque, non ebbe a soffrire in alcunché di questo suo furto, in quanto – a quel che dicono – sono stati fatti costruire molti vasi simili a quello autentico, proprio affinché nessuno possa mai portarlo via. Pur stando così le cose, riuscì nondimeno a portar via la statua che credeva essere il Palladio e, incoronatala d’oro, la collocò nel tempio dedicato alla sua divinità. Si fece iniziare anche al culto della Madre degli dèi e, per poter sottrarre la statua e gli altri oggetti sacri che sono tenuti nascosti in un luogo segreto, si sottopose al rito del taurobolio. Dimenò il capo partecipando alle danze orgiastiche dei fanatici evirati, e si legò i genitali, facendosi iniziare a tutti i riti che i Galli sogliono celebrare; trafugata infine la statua della dea, la trasferì nel santuario della sua divinità. Celebrò anche il culto di Salambo, cercando di riprodurre in ogni particolare, battendosi il petto e gesticolando freneticamente, il rito siriaco, creandosi in tal modo un presagio della propria fine imminente. Diceva che tutti quanti gli dèi erano servitori della sua divinità, chiamandone alcuni suoi camerieri, altri suoi schiavi, altri suoi aiutanti nelle più varie necessità.»

HISTORIA AUGUSTA, ELIOGABALO, 5, 1-5; 6, 1-9; 7, 1-4

I soldati, e specialmente i pretoriani, non riuscirono a tollerare a lungo questi comportamenti, rivolgendo le loro speranze nei confronti di Alessandro, cugino di Eliogabalo, che era stato nominato Cesare:

Severo Alessandro

«I soldati, dal canto loro, non potevano più sopportare che una tale peste di uomo si mascherasse sotto il nome di imperatore e, prima in pochi, poi a gruppi sempre più numerosi, si consultarono reciprocamente, tutti volgendo le loro simpatie verso Alessandro, che già aveva ottenuto il titolo di Cesare dal senato, ed era cugino di questo Antonino; avevano infatti in comune la nonna Varia, da cui Eliogabalo aveva preso il nome di Vario.»

HISTORIA AUGUSTA, ELIOGABALO, 10, 1

Ma soprattutto, se le fonti dicono il vero, fece dei disastri a livello amministrativo, imponendo ovunque persone solo in base ai suoi gusti estetici e mai in base alle loro capacità, e inoltre di ogni estrazione sociale, sovvertendo ogni ordine gerarchico:

«Assunse alla prefettura del pretorio un saltimbanco, che aveva già esercitato a Roma la sua arte, creò prefetto dei vigili l’auriga Gordio, e prefetto all’annona il suo barbiere Claudio. Promosse alle rimanenti cariche gente che gli si raccomandava per l’enormità delle parti virili. Ordinò che a sovrintendere alla tassa di successione fosse un mulattiere, poi un corriere, poi un cuoco, e infine un fabbro ferraio. Quando faceva il suo ingresso nei quartieri militari o in senato, portava con sé la nonna, di nome Varia – quella di cui s’è detto precedentemente –, perché dal prestigio di lei gli venisse quella rispettabilità che da se stesso non poteva guadagnarsi; né prima di lui, come già dicemmo, alcuna donna ebbe mai a mettere piede in senato, così da essere invitata a partecipare alla redazione dei decreti, e a dire il proprio parere. Durante i banchetti si prendeva vicino soprattutto i suoi amasii, e godeva molto ad accarezzarli e palparli in maniera lasciva, né alcuno più di loro era pronto a porgergli la coppa, dopo che aveva bevuto.»

HISTORIA AUGUSTA, ELIOGABALO, 12, 1-4

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Gli imperatori folli
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