Dopo più di dieci anni di guerra in Italia, Annibale, vista l’impossibilità di far passare gli alleati italici dalla sua parte e il fallito tentativo di aiuto del fratello Asdrubale al Metauro, fece ritorno in Africa, mentre Scipione, che aveva ottenuto numerosi successi in Spagna, ottenne il consolato e il comando della spedizione in Africa, per far terminare la guerra. Scipione, compresa e messa in pratica la tattica di Annibale che faceva largo uso della cavalleria numidica per accerchiare il nemico, riuscì a far passare dalla sua parte anche il principe numida Massinissa, a cui fu promesso il trono, al momento tenuto da Siface, alleato con i cartaginesi. La sua cavalleria sarà fondamentale per la vittoria romana. Il senato cartaginese richiamò Annibale che sbarcò ad Hadrumetum, più di trent’anni dopo aver lasciato l’Africa, nel 203 a.C., con i suoi 15.000 veterani della campagna d’Italia.

I cartaginesi, mentre organizzavano un nuovo esercito per Annibale, sicuri di vincere, rifiutarono le condizioni di pace di Scipione. I due eserciti si incontrarono nei pressi di Zama, la cui posizione non è del tutto sicura. Scipione aveva circa 35.000 uomini, di cui più di 4.000 erano cavalieri numidi. L’esercito di Annibale era forse leggermente più numeroso, circa 45-50.000 uomini stando a Livio e Polibio (12.000 mercenari liguri, celti, baleari e mauri, 15.000 libici e cartaginesi, 15.000 veterani e forse 4.000 macedoni, più 4.000 cavalieri di cui la metà numidi e 80 elefanti). Annibale tentò anche di trovare un accordo di pace il giorno prima della battaglia, chiedendo un incontro con Scipione, che avvenne, ma nel quale il romano rifiutò ogni resa che non fosse incondizionata.

Zama

Il cartaginese schierò gli elefanti davanti e la cavalleria ai fianchi, lasciando i 15.000 veterani come riserva, più indietro di uno stadio, circa 200 metri, in modo che potessero intervenire se ce ne fosse stato il bisogno. Scipione schierò l’esercito secondo il triplex acies manipolare, con i veliti davanti e la cavalleria, più numerosa ai fianchi.

Gli elefanti guidarono la carica cartaginese, ma i veliti riuscirono a creare scompiglio e a ritirarsi negli spazi dei manipoli dietro di loro, opportunamente lasciati in colonna e non a scacchiera come al solito per permettere agli elefanti imbizzarriti di passare senza causare perdite. Un’altra parte degli elefanti, impazziti per il frastuono che facevano i romani per spaventarli, ripiegarono contro l’ala sinistra cartaginese, creando il caos tra i numidi di Annibale. Già scompaginati, questi furono attaccati dai cavalieri di Massinissa, mandandoli in rotta. Altri elefanti scapparono verso l’ala destra cartaginese, causando caos anche nella cavalleria punica, che venne affrontata e messa in rotta da quella italica comandata da Lelio. Forse Annibale aveva studiato il piano fin dall’inizio: permettere alla sua cavalleria di ritirarsi e farsi inseguire per vincere la battaglia con la fanteria, più numerosa, e nel caso impiegare i veterani per dare il colpo di grazia ai romani.

Gli astati ebbero inizialmente la meglio ma Annibale poteva contare su più fanteria e lanciò nella mischia anche i veterani, mentre Scipione ordinava ai triari di collocarsi ai fianchi e proteggere i principi. La battaglia fu estremamente furiosa e i legionari di Scipione, in parte sopravvissuti delle legioni cannensi, fecero di tutto per resistere, altrimenti sarebbe stato proibito loro di tornare in Italia. Scipione, costretto dall’inferiorità numerica, dovette lasciare i triari larghi alle estremità, mentre i veterani di Annibale si battevano strenuamente. Fu allora, quando i romani cominciavano ad arretrare, che Lelio e Massinissa fecero il loro ritorno sul campo di battaglia, cogliendo alle spalle i veterani di Annibale. Stavolta era veramente la fine: l’esercito cartaginese era in fuga e Scipione era appena diventato l’Africano e il primo a battere Annibale.

“Annibale seppe conservare a tal punto l’odio verso i Romani lasciatogli come in eredità dal padre, che rinunciò prima alla vita che a quello: pur cacciato dalla patria e bisognoso dell’altrui aiuto, non smise mai in cuor suo di combattere i Romani. Infatti, per non parlare di Filippo, che egli, seppur lontano, seppe far diventare nemico dei Romani, a quei tempi il re più potente di tutti era Antíoco: lo accese di tanto ardore di combattere, che costui fin dal Mar Rosso tentò di portare le armi contro l’Italia. Ora erano andati da lui ambasciatori romani per spiare le sue intenzioni e per cercare con segreti intrighi di far cadere sul re il sospetto che Anníbale, come se da loro stessi corrotto, avesse ormai altri sentimenti che un tempo ed erano riusciti nel loro intento. Anníbale, quando venne a conoscenza di ciò e si accorse che veniva tenuto lontano dalle più segrete decisioni, offertasi l’occasione, si presentò al re e dopo avergli ricordato molte prove e della sua lealtà e dell’odio contro i Romani, aggiunse queste parole: «Mio padre Amílcare, quando io ero fanciullo, non avevo più di nove anni, partendo da Cartagine come comandante per la Spagna, sacrificò vittime a Giove Ottimo Màssimo; e mentre si svolgeva il sacro rito, chiese a me se volevo partire con lui per la guerra. Io accettai volentieri la sua proposta e cominciai a chiedergli che non esitasse a portarmi con sé; allora lui: “sì”, disse, “se mi farai la promessa che ti chiedo”. Così dicendo mi condusse all’ara sulla quale aveva cominciato il sacrificio e, allontanati tutti gli altri, mi fece giurare con la mano su di essa, che mai sarei stato amico del popolo romano. Io, questo giuramento fatto al padre, l’ho mantenuto fino ad oggi in modo tale che non può esservi dubbio per nessuno, che io non rimanga dello stesso avviso per tutto il resto della vita. Perciò se avrai sentimenti di amicizia nei confronti dei Romani, sarai stato prudente a tenermene all’oscuro; ma se preparerai la guerra, ingannerai te stesso, se non darai a me il supremo comando».

Cornelio Nepote, De viris illustribus, Annibale, 1-2

Gli ultimi anni

Dopo le durissime condizioni di pace romane, Annibale si dedicò alla vita politica cartaginese, venendo eletto come suffeta nel 195 a.C., un titolo però quasi onorifico come l’arconte ateniese. Il Barcide decise di ridare lustro alla carica, attaccando il consiglio dei Cento e ristabilendo l’annualità della carica per i componenti, fino a quel momento a vita. Dopo qualche anno, osteggiato dall’aristocrazia cartaginese, gelosa dei propri privilegi, Annibale decise di ritirarsi in un volontario esilio, prima Tiro, poi a Efeso, presso il re selucida Antioco III, divenendone consigliere militare e spingendolo a combattere i romani a Magnesia.

La battaglia di Magnesia

Quando Antioco III, re seleucide, decise di intervenire nelle controversie tra le città greche e la lega etolica, nel 192 a.C., i romani decisero di bloccare i suoi piani di espansione, sconfiggendolo alle Termopili nel 191 a.C., grazie anche ad un attacco alle spalle guidato da Catone il Censore. La vittoria completa l’avrà però solo Scipione Asiatico, fratello dell’Africano, a Magnesia in Asia Minore, nel 189 a.C. Antioco, probabilmente convinto dalla superiorità numerica, attaccò battaglia: i romani schierarono le legioni al centro, al lato sinistro, protetta dal fiume Ermo, la cavalleria, mentre sul fianco destro stavano le truppe leggere comandate dal re Eumene II di Pergamo e tutta la cavalleria rimasta. Nelle retrovie c’erano sedici elefanti e dietro di loro i triari. I seleucidi oltre alle falangi e agli alleati greci potevano vantare circa 10.000 cavalieri (e anche catafratti) e 20.000 truppe da tiro e leggere. I seleucidi posero davanti le truppe leggere, dietro la falange e ai lati la cavalleria, mentre gli elefanti erano posti tra i reparti della falange.

Antioco prese il comando dell’ala destra con i galati e i cavalieri catafratti, mentre a sinistra stava suo figlio Seleuco con cavalieri (anche catafratti), carri falcati, arcieri arabi su dromedari e altri ausiliari. Mentre Antioco sfondò sul lato che comandava, sul lato opposto, nonostante la netta superiorità, gli arcieri e frombolieri romani causarono il caos, mandando in rotta i carri falcati che scompaginarono il lato sinistro seleucida. Attaccati anche dalla cavalleria romana il fianco di Seleuco si diede alla fuga, lasciando completamente scoperta la falange, che stretta tra le legioni e i lanci di pila, frecce, pietre e l’attacco della cavalleria venne distrutta quando anche gli elefanti si imbizzarrirono e cominciarono a seminare il caos. La battaglia fu un massacro: i romani riportavano oltre 50.000 morti nemici e soltanto 350 romani.

La morte

Antioco era propenso a consegnare Annibale ai romani e per questo fuggì a Creta, poi di lì presso il re di Bitinia Prusia. Accadde però che Tito Quinzio Flaminino, il vincitore di Cinocefale, venisse a sapere casualmente dove si trovasse il cartaginese e ottenuto l’appoggio del senato organizzasse una spedizione per catturarlo. Annibale, vistosi perduto, decise di suicidarsi poco prima dell’arrivo dei romani, in quello stesso 183 a.C. in cui morì il suo rivale Scipione:

Mentre in Asia si svolgevano questi avvenimenti, il caso volle che gli ambasciatori di Prusia a Roma pranzassero presso l’ex console T. Quinzio Flaminino e che lì, caduto il discorso su Anníbale, uno di loro dicesse che si trovava nel regno di Prusia. Il giorno dopo Flaminino riferì la cosa al senato. I senatori, i quali credevano che finché fosse stato vivo Anníbale, non sarebbero mai stati senza insidie, mandarono ambasciatori in Bitinia, fra questi Flaminino, per chiedere al re che non tenesse presso di sé il loro mortale nemico e che lo consegnasse loro. A questi Prusia non seppe dire di no; ma un rifiuto lo oppose: non chiedessero che fosse fatta da lui un’azione che era contro il diritto d’ospitalità: loro stessi lo pigliassero se potevano: facilmente avrebbero trovato il luogo dove egli era. Anníbale infatti in un sol luogo aveva dimora, in un castello che gli era stato dato in dono dal re e che aveva edificato in modo tale che in tutte le parti avesse delle uscite, temendo naturalmente che accadesse quello che in realtà avvenne. Qua giunsero gli inviati dei Romani e circondarono con gran moltitudine d’uomini la sua casa; un servo che osservava da una porta disse ad Anníbale che si vedeva più gente del solito ed armata. Egli allora gli ordinò di fare il giro di tutte le porte dell’edificio e di riferirgli prontamente se fosse assediato alla stessa maniera da tutte le parti. Avendogli il servo prontamente riferito che cosa avveniva e mostrato che tutte le uscite erano bloccate, capì che questo non era avvenuto per caso ma che si cercava proprio lui e che per lui era giunta ormai l’ora di morire. E per non lasciare la sua vita all’arbitrio di altri, memore delle antiche virtù, prese il veleno che era solito portare sempre con sé. Così quell’uomo fortissimo, che aveva affrontato tante e tanto varie peripezie, nel suo settantesimo anno, trovò riposo. Sull’anno preciso della sua morte non c’è accordo. Attico ha lasciato scritto nel suo Annale che morì sotto il consolato di M. Marcello e di Q. Fabio Labeone; Polibio invece sotto i consoli L. Emilio Paolo e Gn. Bebio Tànfilo; Sulpicio Blitonesotto P. Cornelio Cetego e M. Bebio Tànfilo. E quest’uomo tanto grande e impegnato in guerre tanto grandi, dedicò una parte del suo tempo alle lettere. Rimangono infatti alcuni suoi libri scritti in greco, fra questi quello indirizzato ai Rodiesi, sulle imprese in Asia di Gn. Manlio Vulsone. Le imprese belliche del Nostro molti le hanno affidate alla memoria, e fra questi, due che furono con lui negli accampamenti e fecero vita comune, finché lo permise la fortuna e cioè Sileno e Sòsilo Spartano. E proprio questo Sòsilo Anníbale ebbe come maestro di lingua greca. Ma è tempo che mettiamo fine a questo libro e passiamo ad illustrare i generali romani, affinché più facilmente, una volta messe a confronto le imprese degli uni e degli altri, si possa giudicare quali uomini siano da preferire.

Cornelio Nepote, De viris illustribus, Annibale, 12-13


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Gli ultimi anni di Annibale Barca
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