Dopo la vittoria nella terza guerra sannitica nella battaglia di Sentinum Roma si cominciò ad espandere in Italia meridionale. Quando i romani portarono aiuto a Turi, più a sud di Taranto e lasciarono una guarnigione, la città greca si risentì. Pirro, re dell’Epiro, colse l’occasione e intervenne in aiuto di Taranto contro Roma, nel 281 a.C.. Sconfitti i romani ad Heraclea anche grazie agli elefanti, scambiati per buoi lucani (non li avevano mai visti prima), subì però ingenti perdite. L’anno successivo, il 279, ad Ascoli Satriano, sconfisse di nuovo i romani, che però inflissero pesantissime perdite al re epirota, che avrebbe esclamato in quella situazione: «Ἂν ἔτι μίαν μάχην νικήσωμεν, ἀπολώλαμεν», ossia: «Un’altra vittoria così e sarò perduto.» (Plutarco, Pirro, 21). Spingendosi a sud i romani entrarono in contatto con la cultura greca della Magna Grecia, e dopo la prima e la seconda guerra punica anche la Sicilia divenne parte della repubblica e prima provincia.

Le guerre macedoniche e la liberazione della Grecia

romani si erano espansi in Illiria alla fine del III secolo a.C.; fu allora che entrarono in contatto anche con i vicini macedoni, che decisero di allearsi con Annibale. I quiriti dal canto loro si allearono con la lega etolica; lo scontro, avvenuto tra il 214 e il 212 a.C. vide infine i romani riconoscere il predominio nella zona ai macedoni con la pace di Fenice del 205 a.C. Fu così che quando i romani vinsero la guerra contro Cartagine approfittarono del primo pretesto per reclamare vendetta. Infatti Filippo V re di Macedonia e Antioco III re dei seleucidi decisero di sfruttare la debolezza del giovane sovrano tolemaico Tolomeo V Epifane per sottrarre parte dei suoi territori (che comprendevano anche parte dell’Asia minore meridionale). Filippo attaccò Pergamo Rodi, che chiesero aiuto ai romani. A quest’ultimi non sembrava vero poter intervenire e ottenuto l’appoggio di Atene, inviarono un ultimatum a Filippo, che se ne infischiò, asserendo che non stava violando la pace di Fenice. I romani inviarono dunque una spedizione in Illiria e iniziò la seconda guerra macedonica, che vide molti greci schierarsi dalla parte dei romani dopo le efferatezze della prima e le recenti espansioni.

In seguito ad alcune schermaglie e un tentativo di pace dopo che Filippo era stato costretto a ritirarsi in Tessaglia, le due parti giunsero allo scontro diretto, quando Flaminino, a fine 198, seppe che il comando gli era stato prorogato, dietro pressioni del comandante romano, che mirava ad accrescere il suo prestigio. La battaglia di Cinocefale, nel 197 a.C., segnò la prima grande vittoria romana contro i macedoni e portò i romani a vincere la seconda guerra macedonica, iniziata per accorrere in aiuto di alcune città greche minacciate dal re macedone Filippo V.

Lo battaglia avvenne in un luogo collinare, non particolarmente adatto alla falange macedone. Il re ellenistico aveva diviso la sua falange in due tronconi, di cui uno doveva ancora arrivare in battaglia, mentre i romani erano già schierati; quest’ultimi attaccarono i macedoni che stavano ancora schierandosi, mandandoli in rotta e poi accerchiando i rimanenti. I macedoni in segno di resa alzarono le lunghe sarisse ma i romani forse interpretarono male il gesto, forse fecero finta di nulla: si consumò un massacrò, con i legionari romani che con i loro corti gladi facevano una carneficina nei confronti degli inermi macedoni. Pare che il console Tito Quinzio Flaminino abbia anche chiesto cosa significasse il gesto di alzare le sarisse, ma non fu in grado di fermare il massacro. Il gladio si era dimostrato talmente devastante che i macedoni rimasero inorriditi quando videro i loro morti:

«Quando [i macedoni] videro i corpi smembrati con la spada ispanica, le braccia staccate dalle spalle, le teste mozzate dal tronco, le viscere esposte ed altre orribili ferite […] un tremito di orrore corse tra i ranghi.»

LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXXI, 34

Subito dopo la presa di Carthago Nova nel 209 a.C. Scipione, rimasto impressionato dall’arma, avrebbe preteso dai fabbri locali che ne producessero 100.000 pezzi. Tuttavia l’arma era forse già usata in Italia da tempo e parecchio diffusa, poiché diverse fonti tra cui Livio narrano che nel 361 a.C., durante la battaglia del fiume Anio, Tito Manlio prese un gladio per affrontare il barbaro celta che sconfisse e da cui prese il nome di Torquato (la Torque era un’ornamento militare gallico, che aveva spogliato allo sconfitto). Probabilmente i romani avevano cominciato a utilizzare l’arma dopo il sacco di Brenno, perfezionandola nel tempo:

«Imbracciato uno scudo da fante e impugnata una spada spagnola, si pose di fronte al Gallo.»

«Prende uno scudo di fanteria, si mette al fianco la spada ispanica adatta al combattimento a corpo a corpo.»

CLAUDIO QUADRIGARIO, ANNALI, FR 106; LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI – VII, 10

Vinta la Macedonia Tito Quinzio Flaminino si mosse in Grecia, dove venne accolto come un liberatore. Presentandosi ai giochi istmici di Corinto del 196 a.C. tenne un solenne discorso in cui promuoveva la liberazione dell’Ellade dal dominatore macedone; tuttavia pochi anni dopo, vinti nuovamente i macedoni a Pidna, i romani avrebbero annesso la Grecia e distrutto anche Corinto nel 146 a.C. Nonostante gli anatemi di Catone il Censore, realizzatisi nella distruzione di Cartagine, quelli relativi al pericolo della cultura ellenica rimasero inascoltati (andava dicendo che i medici greci a Roma sotto mentite spoglie ammazzavano i romani paventando cause naturali e decorsi naturali della malattia): la cultura greca avrebbe soggiogato i romani, tanto da far dire ad Orazio che la Grecia aveva portato l’arte e la cultura nel Lazio agreste: “Graecia capta ferum victorem cepit et artes intulit agresti Latio” (Orazio, Epistole, Il, 1, 156). Poco tempo dopo Virgilio celebrava nella sua Eneide l’eroica (e greca) nascita di Roma, a partire dal troiano Enea, antenato di Cesare e Ottaviano Augusto, che dunque fondavano l’impero romano anche sul prestigio eroico delle gesta degli antenati.

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Graecia capta ferum victorem cepit

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