Dopo un cinquantennio di anarchia militare (235-284 d.C.), come l’hanno definita gli storici, Diocleziano diventava imperatore, ponendo fine a l’instabilità precedente. Ben presto si rese conto di quanto fosse difficile tenere unito l’impero del suo tempo, per cui associò a sé come Augusto un vecchio compagno d’armi, Massimiano, a cui nel 286 affidò la parte occidentale dell’impero, tenendo per sé l’oriente. Nel 293 Diocleziano predispose un’accurata riforma amministrativa e statale dell’impero romano, la tetrarchia: diviso in province raggruppate in diocesi affidate a prefetti, separava le cariche politiche e militari, raddoppiava le province e infine suddivideva l’impero tra due imperatori, chiamati Augusti, e due vice, chiamati Cesari. Ognuno di questi aveva la propria amministrazione ed esercito, i Cesari potevano fare esperienza finché non sarebbero entrati in carica al posto degli Augusti. Per mettere alla prova il sistema nel 305 Diocleziano, primo nella storia, abdicò, e costrinse Massimiano a fare lo stesso.

Non passò neanche un anno che l’Augusto Costanzo morì a Eburacum (York), nel 306. Il Cesare di Costanzo era Flavio Severo e sarebbe dovuto subentrargli, ma il figlio dell’imperatore, Costantino, era determinato ad essere nominato almeno Cesare dopo l’acclamazione ricevuta dell’esercito dopo la morte del padre. Allo stesso modo, in Italia e Africa era stato acclamato imperatore Massenzio, figlio dell’ex imperatore Massimiano, che si era ritirato controvoglia nel 305 a vita privata costretto dal collega Diocleziano. I due avevano poi eliminato Severo, e dopo un convegno a Carnuntum nel 308 cui aveva partecipato anche Diocleziano, Galerio e Licinio erano stati nominati Augusti e Costantino e Massimino Daia Cesari. Massimiano trovò rifugio presso Costantino ma poco dopo tentò di prendere di nuovo la porpora; Costantino lo raggiunse e lo costrinse a suicidarsi, a Marsiglia, nell’estate del 310. Poco dopo morì Galerio, nel 311. Costantino marciò sull’Italia, per eliminare Massenzio, rimasto escluso dagli accordi di Carnuntum.

In hoc signo vinces

Dopo una lunga marcia e alcune battaglie vittoriose, tra cui Torino e Verona, Costantino giunse alle porte di Roma, dove Massenzio aveva deciso di aspettarlo. Con ogni probabilità quest’ultimo aveva un numero di forze maggiori, anche se i numeri forniti da Zosimo appaiono esagerati (90.000 fanti e 8.000 cavalieri per Costantino; 170.000 fanti e 18.000 cavalieri per Massenzio, tra i quali ben 80.000 italici); sembrerebbe più attendibile la stima dei Panegyrici latini, che racconta di 40.000 uomini per Costantino e 100.000 per Massenzio. In ogni caso Costantino partiva numericamente svantaggiato.

Secondo Lattanzio Costantino ebbe una visione in cui Cristo lo esortava ad apporre un segno sugli scudi dei propri soldati, forse uno staurogramma, ossia una croce latina con la parte superiore cerchiata come una P, forse il simbolo di Cristo, il chi-rho, una XP incrociata.

Eusebio riporta due versioni. La prima, contenuta nella Storia ecclesiastica, afferma esplicitamente che il dio cristiano abbia aiutato Costantino, ma non menziona nessuna visione. Nella Vita di Costantino Eusebio racconta che Costantino stava marciando col suo esercito quando, alzando lo sguardo verso il sole, vide una croce di luce e sotto di essa la frase greca “ἐν τούτῳ νίκα”, reso in latino come in hoc signo vinces, ossia “con questo segno vincerai”. Inizialmente insicuro del significato, Costantino ebbe nella notte un sogno nel quale Cristo gli spiegava di usare il segno della croce contro i suoi nemici.

Eusebio poi descrive il labarum, lo stendardo usato da Costantino (e poi divenuta l’insegna imperiale romana) nella guerra civile contro Licinio, recante il segno ‘chi-rho‘ (le prime due lettere di Cristo in greco). Massenzio dispose i suoi soldati nei pressi di Saxa Rubra con il Tevere alle spalle e fece costruire un ponte di legno alle sue spalle. Probabilmente era convinto che con il fiume alle spalle avrebbero combattuto con più furore (secondo Nazario i soldati dell’ultima fila avevano i piedi nell’acqua; con ogni probabilità Massenzio dubitava delle fedeltà di molti e in questo modo li costrinse a combattere), e che la località poco pianeggiante avrebbe sfavorito la cavalleria del suo rivale ma non fu così.

Costantino attaccò furiosamente i fianchi di Massenzio, guidando personalmente la cavalleria (secondo Nazario indossava un’armatura, uno scudo e un elmo dorato) mettendoli in fuga, dopodiché attaccò lateralmente la fanteria. Quest’ultima andò in rotta e rimasero a tenere il campo i soli pretoriani, che furono trucidati (Costantino ne sciolse il corpo per vendicarsi e non furono più ricostruiti); pare che i loro corpi furono ritrovati esattamente sul posto in cui avevano combattuto. Massenzio, in fuga, finì annegato nel Tevere poiché il ponte non resse il peso di tanti uomini in fuga e crollò.

Costantino non rimase a lungo a Roma. Il senato comunque gli dedicò un arco di trionfo, attualmente di fronte al Colosseo. Tuttavia sull’arco, fatto con ampio materiale di recupero, non compare mai nessun simbolo cristiano, nemmeno sugli scudi dei soldati di Costantino, il quale vietò i sacrifici e proibì la crocifissione. Uccise i parenti di Massenzio e sciolse la guardia pretoria senza più riformala. Al suo posto vennero istituite le scholae palatinae, fatte di molti elementi germanici. Al contempo diede il via a un rinnovamento dell’esercito, affidandolo a un magister militum (per la fanteria) e un magister equitum (per la cavalleria). A partire da lui si comincerà a distinguere anche tra truppe di frontiera (limitanei) e di “movimento” (comitatensi). Infine immise molti barbari nell’esercito (in primis il re alemanno Croco, che lo aveva appoggiato) e anche nei suoi comandi.

Queste misure, sebbene nell’immediato lo aiutassero a ristabilire l’ordine, nel lungo periodo furono deleterie: il numero di barbari nell’esercito divenne sempre maggiore (e anche nei suoi comandi) e dopo Adrianopoli fu la stragrande maggioranza; i limitanei venivano spesso lasciati sulla frontiera, in balia di loro stessi, perdendo sempre più affezione e lealtà verso il governo centrale, mentre le truppe comitatensi restavano spesso inoperose. Un simile esercito, per quanto ancora il migliore che esistesse al tempo, non fu in grado di reggere, nel V secolo, alla migrazione e invasione di popolazioni barbariche in occidente, portando al collasso dell’impero nel 476.

Un impero cristiano

Costantino Licinio, i due nuovi Augusti, si incontrarono a Milano nel 313. Qui decisero congiuntamente di terminare ogni persecuzione (Massimino Daia aveva ripreso a metterle in atto) con il celeberrimo editto di Milano:

« Noi, dunque Costantino Augusto e Licinio Augusto, essendoci incontrati proficuamente a Milano e avendo discusso tutti gli argomenti relativi alla pubblica utilità e sicurezza, fra le disposizioni che vedevamo utili a molte persone o da mettere in atto fra le prime, abbiamo posto queste relative al culto della divinità affinché sia consentito ai Cristiani e a tutti gli altri la libertà di seguire la religione che ciascuno crede, affinché la divinità che sta in cielo, qualunque essa sia, a noi e a tutti i nostri sudditi dia pace e prosperità. »

LATTANZIO, DE MORTIBUS PERSECUTORUM, XLVIII
Moneta commemorativa di Costantino (313-15), zecca di Treviri, per la vittoria su Massenzio a Ponte Milvio. L’imperatore indossa ancora l’alloro pagano e non il diadema, mentre nel verso calpesta due nemici a cavallo

Le monete coniate da Costantino forniscono indirettamente notizie sull’atteggiamento pubblico di Costantino verso i culti religiosi. Quando ancora ricopriva il ruolo di Cesare, alcune emissioni si inserirono nel classico filone della Tetrarchia, con dediche «al Genio del Popolo Romano». Ancora per alcuni anni dopo la battaglia di Ponte Milvio le zecche orientali  continuarono a produrre monete dedicate «a Giove salvatore»; nello stesso periodo le monete delle zecche occidentali continuarono a coniare monete dedicate «al Sole invitto compagno» e, in alcuni casi anche «a Marte salvatore» e «a Marte Protettore della Patria».

Verso il 319 la maggior parte delle zecche sia in oriente sia in occidente passarono a emissioni laiche benaugurali, fra cui per prima quella con la legenda «Liete vittorie al principe perpetuo». E’ conosciuto un medaglione d’argento in cui il monogramma di Cristo era riprodotto sopra l’elmo piumato dell’imperatore, coniato a Pavia nel 315. Solo dopo la vittoria su Licinio comparve la tipologia con il labaro imperiale e il monogramma di Cristo, che trafiggono un serpente, simbolo appunto di Licinio, e simultaneamente scomparirono del tutto dalle monete sia le immagini del sole invitto sia la corona radiata. Nel 326 apparve infine il diadema, simbolo monarchico di derivazione ellenistica, e poco dopo il sovrano viene raffigurato con lo sguardo rivolto in alto, come nei ritratti ellenistici, a simboleggiare il contatto privilegiato tra l’imperatore e la divinità.

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La battaglia di Ponte Milvio
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