Già nel III secolo gli imperatori si erano sempre più spesso scelti un co-imperatore, spesso il figlio. E sempre più spesso il più anziano prendeva l’oriente. Racconta Ammiano Marcellino come a Valentiniano, appena acclamato dall’esercito imperatore, nel febbraio del 364, venisse intimato dai soldati stessi di scegliere un collega:

« Pochi momenti fa, o miei compagni soldati, era in vostro potere di lasciarmi nell’oscurità di una condizione privata. Giudicando dalla testimonianza della passata mia vita, che io meritassi di regnare, mi avete posto sul trono. Adesso è mio dovere di provvedere alla salute ed al vantaggio della Repubblica. Il peso dell’Universo è troppo grande, senza dubbio, per le mani d’un debol mortale. Io so quali sono i limiti delle mie forze e l’incertezza della mia vita; e lungi dallo sfuggire, io sono ansioso di sollecitare l’aiuto di un degno collega. Ma dove la discordia può esser fatale, la scelta di un fedele amico richiede una matura e seria deliberazione. Di questo io avrò cura. La vostra condotta sia fedele e costante. Ritiratevi ai vostri quartieri; rinfrescate gli spiriti ed i corpi; ed attendete il solito donativo in occasione dell’innalzamento al trono d’un nuovo Imperatore. »

(Ammiano Marcellino, Storie, XXVI, 2,3)

Da Adrianopoli alla divisione

Negli anni seguenti la disfatta di Adrianopoli Teodosio, che era succeduto a Valente, cercò di sconfiggere i goti, ma l’esiguità delle forze di cui disponeva e la mancata fedeltà delle nuove reclute barbare secondo la visione dell’imperatore (in alcuni casi i reparti erano in maggioranza barbarica e l’imperatore temeva per insurrezioni) portò Teodosio a firmare la pace, il 3 ottobre del 382, tra romani e goti. In cambio i goti avrebbero dovuto fornire contingenti all’esercito romano, con condizioni di pace favorevolissime, cosa mai avvenuta in precedenza.

Nel 390 Teodosio diede ordine di massacrare i goti a Tessalonica, dopo che la popolazione si era ribellata ai goti e aveva impiccato il magister militum Buterico, colpevole di aver arrestato un famoso auriga e di non aver concesso i giochi annuali. Il vescovo di Milano Ambrogio spinse l’imperatore a chiedere pubblicamente perdono; Teodosio accettò: fu il primo caso di supremazia del potere ecclesiastico su quello civile, e l’inizio di un lungo contrasto millenario tra potere spirituale e temporale. In seguito a quest’atto di sottomissione vennero promulgati i decreti teodosiani, che intercedevano l’accesso ai templi pagani, qualsiasi forma di culto, l’immolazione delle vittime di sacrifici equiparata alla lesa maestà, perfino l’adorazione delle statue. Anche le olimpiadi, dopo oltre mille anni, cessarono di esistere.

Teodosio aveva nominato Augusti i figli Arcadio e Onorio, ma diversamente dai suoi predecessori, aveva dato al maggiore l’oriente. Entrambi avevano un tutore: Onorio il magister militum di origine vandalica Stilicone, Arcadio il prefetto al pretorio Rufino. Ma non c’era più un Augusto anziano: la divisione, seppure informale, era ormai definitiva.

Due strade diverse

«Arcadio ed Onorio, pervenuti al supremo comando, parevano essere imperatori soltanto nominalmente, essendo di fatto l’Impero d’Oriente nelle mani di Rufino e quello d’Occidente abbandonato all’arbitrio di Stilicone. Tutte le controversie similmente venivano da loro con grande licenza definite, riuscendone vittorioso chi mediante danaro comperava il giudizio, ovvero colui che riusciva a conciliarsi il buon volere del giudice. Di questo modo essi si rendevano possessori dei beni di coloro che gli uomini comuni reputano fortunati. Altri parimente, allettandoli con doni, evitavano le calunnie, ed vi erano pur di quelli, i quali da lor posta cedevano il proprio all’uopo di ottenere magistrature, o di promuovere sinistri alle città. Moltiplicatasi nei popoli, senza eccezione, ogni maniera di scellerataggini, le ricchezze, da dovunque provenissero, affluivano in abbondanza nelle abitazioni di Rufino e Stilicone, mentre gli imperatori non si dedicavano per niente agli affari [di stato], ma ratificavano qualunque ordinamento dei loro governatori come se fosse una legge non scritta.»

Zosimo, Storia Nuova, V,1

La prima quindicina d’anni l’impero d’occidente fu retto formalmente da Stilicone. Quest’ultimo cercò di perseguire la politica di Teodosio di un accomodamento pacifico dei barbari, accogliendoli nell’esercito. Per rafforzare il legame con Onorio aveva sposato una sua cugina, Serena, e aveva dato la propria figlia Maria in sposa all’imperatore.

Stilicone, che sosteneva che Teodosio gli aveva lasciato la tutela anche di Arcadio, e voleva un impero unito, cercò di riprendere alla parte occidentale l’Illirico, facendo anche assassinare con un complotto Rufino, tutore e prefetto al pretorio di Arcadio. Nel 397 inoltre Stilicone aveva sconfitto Alarico, capo dei goti, che si erano ribellati, nel Peloponneso, ma non riportò una vittoria decisiva, forse perchè Arcadio glielo chiese, forse perchè non riuscì a mantenere la disciplina tra i soldati.

Alarico si era poi mosso verso l’Italia, cercando anche di assediare Milano, dove risiedeva la corte; Onorio si sarebbe poi spostato nella più sicura Ravenna. Nonostante Stilicone riportò vittorie a Pollenzo e Verona, fu costretto a distogliere reparti dal Reno. Poco dopo, nel 406, distrusse un’enorme armata ostrogota guidata da Radagaiso a Fiesole, reclutando 12.000 dei suoi soldati e vendendo moltissimi schiavi. Stilicone fece anche bruciare i libri sibillini, che pare minacciassero il suo potere. Ma proprio in quel 406, complice il Reno ghiacciato e i reparti dislocati in gran parte in Italia, un gruppo di popolazioni barbariche attraversò, senza incontrare resistenza, il Reno, il 31 dicembre. Neanche i franchi, alleati dell’impero, poterono fare nulla.

Nel frattempo Stilicone aveva fatto pace con Alarico, nominato magister militum, con l’intenzione di riprendere i territori balcanici ad Arcadio. Ma alla notizia dell’invasione della Gallia e dell’usurpazione di Costantino III in Britannia (e passato anche lui in Gallia), Onorio richiamò Stilicone in Italia, mentre cresceva il partito antibarbarico, che mal vedeva la politica di accomodazione dei barbari. Scoppiò infine una rivolta anti-barbarica, e moltissimi militari e funzionari di origine straniera furono uccisi a Pavia, alla presenza dell’imperatore. Stilicone, invece di affrontarlo, si diresse a Ravenna, ma fu arrestato dopo essersi rifugiato in una chiesa e giustiziato.


«Quando poi si dovette condurre il prigioniero [Stilicone] a subire la capitale condanna, i barbari […] avevano stabilito con pronto impeto di liberarlo, e avrebbero tentato di farlo se lui, minacciandoli e intimorendoli, non avesse loro vietato di farlo; dopodiché presentò al boia il collo, uomo per modestia superiore a tutti coloro sorti allora al sommo potere. E, nonostante fosse unito in matrimonio alla nipote del maggior Teodosio, fossero stati affidati alla sua cura gli imperi di entrambi i figli di lui [Teodosio], e avesse detenuto per anni ventitré il comando supremo delle milizie, non fu mai visto assegnare, mediante denaro, magistrature, o trarre guadagno dalla militare annona. Padre inoltre d’unico figlio, gli prefisse come limite d’ogni elevazione di grado la carica di tribuno dei notai (nome della magistratura) senza andare in cerca di altra più eminente onoranza.»

Zosimo, Storia Nuova, V, 34

Senza Stilicone, con i barbari che vagavano per la Gallia, Alarico in Italia e Costantino III ancora in Gallia, la situazione era sempre più difficile. Mentre Alarico tentava di venire a patti con Onorio, quest’ultimo cercò di farlo assassinare da un suo rivale, Saro, senza riuscirci. Il goto, assediata Roma, la saccheggiò nel 410: era dai tempi di Brenno (390 a.C.) che non succedeva. Il cristiano Paolo Orosio narra della clemenza di Alarico, che non avrebbe toccato le chiese, mentre Zosimo, pagano (Storia Nuova, 6, 11, 2), narra che gli abitanti dovettero cibarsi dei cadaveri per sopravvivere; anche il cristiano san Girolamo lo conferma (Lettere, 6, 127) , il che lascia supporre un saccheggio più cruento di quanto le fonti filocristiane lascino apparire.

Per Roma fu l’epilogo come capitale. Già nel IV secolo la sua importanza era venuta meno, ora gli imperatori d’occidente, chiusi a Ravenna, ben protetta da mare e terra, non se ne importarono più. Da lì, sull’Adriatico, avevano un collegamento diretto con Costantinopoli. Onorio stesso pare che alla notizia avesse esclamato che Roma stava bene: faceva riferimento alla sua gallina preferita, che si chiamava proprio così.

Arcadio

Zosimo, autore pagano, è severissimo con Arcadio, dicendo che «[Ad Arcadio] non riusciva di capire cosa dover fare, essendo del tutto idiota» (Storia Nuova, 5, 14, 1). Per quanto sia una fonte di parte, racconti di questo tipo collimano con quelli del fratello Onorio. In ogni caso fu proprio Gainas a diventare il nuovo potente di corte, divenendo console nel 401. Ma non fu in grado di ricoprirlo, perché a Costantinopoli scoppiò una rivolta antigotica e antibarbarica in generale, che portò a un massacro e all’uccisione di Gainas il 3 gennaio del 401.

Morto anche Gainas fu la moglie di Arcadio, Elia Eudossia, a prendere il controllo dell’impero, spingendo Alarico, che continuava a dare problemi nei Balcani, verso occidente. Ma Stilicone aveva avuto la stessa idea, e voleva usare i visigoti per prendere l’Illirico e l’Acaia, relegando Arcadio alla sola Tracia. Tuttavia il progetto fallì quando nel 406 avvenne la grande migrazione attraverso il Reno; Onorio avrebbe poi fatto assassinare Stilicone, mentre i barbari occupavano Gallia e Spagna, nel 408, e al rifiuto di pagare Alarico, magister militum e al contempo re visigoto, avrebbe subito il sacco di Roma del 410.

Eudossia, fortemente odiata dal patriarca Giovanni Crisostomo, morì nel 404 a causa di un aborto; a prendere il suo posto fu il prefetto al pretorio Antemio (suo nipote sarà imperatore d’occidente tra il 467 e 472), console nel 405. L’anno successivo divenne anche patricius, titolo riservato a pochissimi. Il primo maggio del 408, però, Arcadio morì di malattia. La noncuranza degli affari pubblici sua e del fratello aveva gettato i semi del crollo della pars occidentalis.

Teoderico

Il regno di Teoderico è da considerarsi a tutti gli effetti come quello dell’ultimo imperatore romano d’occidente. L’amalo si atteggiò sempre come garante della libertà romana, e per l’amministrazione dello stato utilizzò quasi esclusivamente romani. Perfino nei posti di comando dell’esercito ci sono dei romani. Come racconta Cassiodoro, Teoderico ebbe inizialmente buoni rapporti col senato. Quest’ultimo allo stesso modo andava d’accordo col sovrano: alcuni senatori chiamarono Teoderico princeps e augustus in un’epigrafe. Una cronaca del tempo, l’anonimo valesiano, paragona Teoderico a Traiano e Valentiniano. Lo stesso Cassiodoro non si fa scrupoli a tratteggiarlo come un princeps.

Nel 500, per festeggiare il suo trentesimo anno di regno, Teoderico va a Roma. In tutto e per tutto la festa ricorda i tricennalia di Costantino: il re che marcia in trionfo, fa donazioni di frumento, presiede addirittura i giochi nel circo massimo, infine entra in senato e fa un discorso in cui dice di voler mantenere intatti i privilegi concessi dai suoi predecessori (equiparandosi quindi agli imperatori). Inoltre nella prima lettera delle Variae, la raccolta epistolare composta da Cassiodoro degli atti pubblici ostrogoti, si scopre che il primo atto di Teoderico, dopo aver chiesto di essere riconosciuto come padrone d’Italia, è quello di procurarsi la porpora per le sue vesti. Teoderico governò nel tentativo della massima integrazione e collaborazione con i romani; tra l’altro intervenne nella manutenzione di moltissime opere pubbliche, mura e edifici pubblici, tra cui l’arena di Verona, tanto che nel medioevo si credeva che quest’ultima fosse stata costruita dal re ostrogoto.

In sostanza gli ostrogoti formavano buona parte dell’esercito, mentre i romani governavano lo stato. Il prestigio di Teoderico era tale che il re sceglieva uno dei due consoli in carica (e l’imperatore l’altro). Come sosteneva Cassiodoro, nei fatti il re ostrogoto era il collega occidentale dell’imperatore bizantino, sebbene non potesse fregiarsi del titolo di imperatore.

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Belisario

La riconquista di Giustiniano

Nel 533 Giustiniano attaccò i Vandali: nel 530 il loro re Ilderico, di fede nicena, era stato infatti deposto dal cugino ariano Gelimero, che assunse il potere. Belisario comandò l’esercito e, arrivato in Africa, riuscì a sconfiggere i Vandali nei pressi di Cartagine. Due giorni dopo Belisario entrò a Cartagine e, infliggendo un’altra sconfitta ai Vandali a Tricamaro, li costrinse infine alla resa.

L’Impero d’oriente ritornò così in possesso dell’Africa, Sardegna, Corsica e Isole Baleari. L’imperatore si sforzò di cancellare ogni traccia della presenza vandalica e ridare potere all’aristocrazia romana; ripristinò l’esercito africano e l’amministrazione romana. Si diffusero voci secondo cui Belisario volesse diventare re, ma Giustiniano concesse comunque al suo generale un trionfo, cosa che con accadeva per una persona che non fosse imperatore dai tempi di Augusto.

Italia

Giustiniano trovò quindi il casus belli per dichiarare guerra agli ostrogoti, dopo che Amalasunta fu assassinata dal marito Teodato per impadronirsi del trono. Secondo la Storia segreta ad ordire l’assassinio di Amalasunta sarebbe stata addirittura  l’imperatrice Teodora. L’imperatore affidò il comando ancora a Belisario, console nel 535, mentre Mundo invadeva la Dalmazia. Belisario sbarcò in Sicilia, conquistandola in breve tempo, mentre contemporaneamente Mundo riuscì a conquistare la Dalmazia. Nel 536 Belisario attraversò lo stretto di Messina, sottomise senza trovare opposizione l’Italia meridionale (già Cassiodoro narrava che sotto Teodorico ci fossero pochissimi goti a sud di Roma e addirittura nessuno in intere regioni) e si diresse a Roma, che conquistò.

Nel frattempo i Goti, insoddisfatti della passività di Teodato, lo uccisero per eleggere re Vitige, che assediò Roma. In quell’occasione furono tagliati gli acquedotti di Roma, che non furono mai più ripristinati. La disunione dell’esercito imperiale, diviso in una fazione fedele a Belisario e l’altra a Narsete, portò alla riconquista gota di Milano, in seguito alla quale Giustiniano richiamò Narsete a Costantinopoli. Senza più Narsete ad ostacolarlo, Belisario poté riprendere la riconquista dell’Italia, impadronendosi con l’inganno della capitale dei Goti Ravenna e facendo prigioniero il re Vitige, che portò con sé a Costantinopoli.

Dopo aver stabilito una nuova pace a oriente con i persiani, Belisario fece ritorno in Italia, dove gli ostrogoti si erano organizzati sotto il re Totila (“l’immortale”), avevano recuperato terreno. Totila aveva anche intrapreso una politica di rottura totale con il senato di Roma. Lo scarso numero di truppe fornitegli da Giustiniano e le tattiche spregiudicate del re goto gli impedì di contrastare efficacemente Totila.

Nonostante le difficoltà, Belisario riuscì a riconquistare Roma, riuscendo a resistere a un tentativo di assedio della città da parte di Totila. Infine, Giustiniano, su richiesta della moglie di Belisario, lo richiamò a Costantinopoli, dove lo accolse con grandi onori. Dopo la partenza di Belisario dall’Italia, Totila riconquistò Roma e altre città, giungendo a invadere persino la Sicilia e la Sardegna. Giustiniano, a questo punto, mandò in Italia Narsete per cercare di concludere una volta per tutte la guerra gotica. L’eunuco riuscì a sconfiggere definitivamente i goti nella battaglia di Gualdo Tadino (Tagina) nel 552, dove Totila morì in battaglia. Sconfisse poi anche il suo successore Teia, e a conquistare tutta l’Italia nel 553.

La conquista non si rivelò però salda, dal momento che la parte settentrionale della penisola venne invasa dai franchi e alamanni mentre alcune fortezze gote ancora resistevano. Narsete riuscì a infine a piegare la resistenza dei barbari e cacciare gli invasori soltanto nel 562. Nel 565 sarebbe morto Giustiniano, lasciando un’Italia distrutta da 20 anni di guerra e prosciugata di uomini e risorse (il senato era stato totalmente decimato), incapace di reggere l’urto della migrazione longobarda nel 568.

Con la Pragmatica Sanzione del 554 la legislazione imperiale fu estesa all’Italia. La massima autorità civile era in teoria il prefetto del pretorio risiedente a Ravenna ma nei fatti l’autorità civile fu sempre limitata fin dal principio da quella militare. Fu infatti lo strategos autokrator (magister militum) Narsete ad assumere il governo effettivo dell’Italia. L’Imperatore, mostrando soddisfazione per la fine di Totila, annullò tutti i provvedimenti di quel re goto, confermando però le leggi dei suoi predecessori: questi provvedimenti erano volti ad annullare le politiche estreme e antisenatoriali di Totila, e restaurare l’ordine preesistente alla guerra.

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La divisione tra occidente e oriente

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