Antonio, negli agi di Alessandria, dove aveva seguito Cleopatra, aveva perso la sua occasione migliore di prendere il potere dopo Filippi. Aveva anche perso la Gallia e la Spagna di Lepido era andata a Ottaviano, che controllava anche l’Italia ormai, seppure inizialmente essa non spettava ad alcun triumviro in particolare. Anche se ormai i due triumviri erano in una situazione di sostanziale parità (Ottaviano aveva però il supporto di moltissimi veterani e un serbatoio umano molto maggiore in occidente), Antonio decise di intraprendere comunque la campagna partica già progettata da Cesare. Nel frattempo sia Ottavia che Cleopatra erano rimaste incinta, dandogli dei figli.

Il piano di Cesare

Dopo aver rinnovato con trattato di Taranto del 38 a.C. il triumvirato per altri cinque anni, Antonio iniziò la campagna partica nel 36 a.C., non senza qualche difficoltà. Infatti Ottaviano non gli aveva ancora inviato le legioni promesse, asserendo che gli servissero contro Sesto Pompeo che era venuto meno ai patti di Brindisi. Nel giro di poco Ottaviano prese anche la Sicilia e sottrasse l’Africa a Lepido, divenendo padrone di tutto il Mediterraneo occidentale.

Le forze di Antonio erano ora pronte per l’attacco ai parti; dopo aver svernato ad Antiochia e regalato a Cleopatra quasi tutti i territori orientali a sud della Siria, passa in rassegna le truppe: 60.000 legionari, 30.000 ausiliari, 10.000 cavalieri e molte macchine d’assedio. A Zeugma Antonio rimanda indietro in Egitto Cleopatra, allora incinta, e gli si fa incontro Monese, governatore del re partico Fraate nelle sue province occidentali, paventando un tradimento. Ma in realtà era tutto un trucco, e come spesso erano soliti fare gli orientali, tornò indietro dal re partico dopo aver spiato le forze romane, mentre Antonio avanzava, chiedendo la restituzione delle insegne di Carre e la restituzione dei prigioneri, credeva ingenuamente che così facendo sarebbe stato lui a ingannare il re partico. Contemporaneamente a Roma Ottaviano, con lo zampino di Mecenate, metteva in giro la voce malevola che fosse stata Cleopatra a rimandare indietro Monese.

Antonio, seguendo il piano di Cesare, percorse l’Armenia per attaccare da nord (evitando di ripetere l’errore di Carre) e notando le difficoltà del terreno scosceso, divise le sue forze per assediare più rapidamente Fraaspa, capitale della Media Atropatene, mentre le macchine d’assedio (trasportate su ben trecento carri) lo raggiungevano. Monese, che sapeva dei suoi piani, lo assalì con la cavalleria, spazzando via la retroguardia comandata da Appio Staziano: ben due legioni furono distrutte, i pontici catturati compreso il loro re Polemone, mentre gli armeni erano fuggiti. Fraate conosceva talmente bene i movimenti di Antonio che non solo Monese, ma anche il re armeno Artavasde doveva probabilmente aver comunicato con lui.

Subito dopo i parti arrivarono a Fraaspa e Antonio decise di attaccare, lanciando contro di loro la cavalleria e poi caricarli con le sue dieci legioni, ma i parti si ritirarono e furono inseguiti per ben 50 stadi (quasi 10 km); alla fine la conta sarà impietosa, con i romani che avevano ucciso meno di cento nemici. Era un tipo di guerra completamente diversa e Antonio la stava conducendo nel modo peggiore. Mentre ritornava all’accampamento fu assalito ancora dai parti, ma riuscì a farvi ritorno, scoprendo che nel frattempo i difensori erano stati attaccati e si erano dati alla fuga. Il triumviro ne ordinò la decimazione.

Fraate dal canto suo era conscio che non poteva far durare la guerra a lungo, con l’arrivo dell’inverno, i parti non si sarebbero accampati all’aperto e avrebbero disertato, per cui cominciò a metter in giro voci che con il freddo si sarebbe patita la fame perché non c’era cibo per tutti. Antonio chiese la pace a Fraate e la consegna dei prigionieri e delle insegne, ma rifiutò. Decise quindi di ritirarsi, facendo la stessa strada dell’andata, ma un soldato mardio che era sopravvissuto all’attacco della retroguardia lo avvertì che il re partico gli voleva tendere un’imboscata.

Quest’ultima infine arrivò e Antonio ebbe a malapena il tempo di schierare l’esercito a battaglia, che però riuscì a respingere i parti. Decise allora di avanzare con una formazione a quadrato, con ai lati gli armati alla leggera e la cavalleria, che attaccavano i parti e poi tornavano indietro quando si allontanavano troppo. L’eccesso di fiducia portò però Flavio Gallo a perdere contatto con l’esercito, mentre altri comandanti forse per ripicca, gli mandavano rinforzi alla spicciolata. Infine dovette intervenire Antonio stesso ma fu troppo tardi. Gallo morì di lì a poco con quattro frecce nel petto, 3.000 erano i morti e 5.000 i feriti.

Antonio passava il campo romano distrutto, mentre gli uomini nonostante tutto erano ancora legati a lui e lo salutavano imperator. Decise infine di fare un discorso a tutti i soldati, esortandoli a resistere. Ripresa la marcia, i parti attaccarono ancora. Ormai credevano che i romani fossero allo sbando. Antonio invece aveva dato l’ordine di formare una sorta di testuggine, con i legionari della prima fila in ginocchio e quelli dietro a coprire la testa con lo scudo e dietro di loro le truppe leggere, in modo da respingere le frecce partiche. Quest’ultimi interpretarono il gesto come un segnale di affaticamento e di un esercito prossimo alla resa, pertanto si avvicinarono incautamente credendo di dover soltanto finire i romani. Questi si lanciarono di gran foga contro i parti, che si diedero alla fuga.

I parti continuavano però a inseguire Antonio, che pare recitasse in continuazione “o diecimila”, un chiaro riferimento all’Anabasi di Senofonte. Giunse tra i romani un certo Mitridate, cugino di Monese, che li avvertì di non seguire il percorso del fiume poiché lì i parti li attendavano per sbaragliarli, come a Carre. I locali infatti continuavano a mentire ai romani esortandoli a prendere strade sbagliate o dare informazioni false; l’arte della menzogna sembrava veramente radicata in oriente come alcuni tratti che secondo Erodoto erano distintivi di alcuni popoli.

L’informazione era vera e Antonio prese la strada più lunga, tra le montagne, dando ordine di prendere quanta più acqua possibile perché non ne avrebbero avuta per un giorno. Ci fu un altro scontro dopo una marcia di 43 km, e i romani trovarono infine l’acqua. Stavano per gettarsi nel fiume, avvelenato dai parti, tanto che Antonio li dovette minacciare con la coorte pretoria che aveva già estratto i gladi. Nella notte scoppiò il caos, con rivolte, ruberie, saccheggi nell’accampamento tra i romani stessi. All’alba i parti attaccarono di nuovo, ma i romani si schierarono ancora a testuggine e non furono attaccati. Avano raggiunto il fiume Arasse: una volta attraversato, erano salvi.

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La guerra partica di Marco Antonio
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