La sollevazione della Gallia

Dopo anni di guerra in Gallia Cesare si ritrovava a dover domare delle ribellioni: la più grande fu quella di Vercingetorige, re degli Arverni, che raccolse attorno a sè molti popoli gallici, nel tentativo di ricacciare i romani nei confini precedenti all’inizio della guerra del 58 a.C. Nel 52 a.C. Cesare marciò con le sue dieci legioni dalla Cisalpina alla Transalpina nel tentativo di domare definitivamente la rivolta: una volta presa Avarico, diede 4 legioni a Labieno, inviandolo a nord contro i Senoni e i Parisi, mentre tenne per sè 6 legioni per affrontare personalmente il re arverno.

I due eserciti si incontrarono nei pressi di Gergovia, un oppidum fortificato collocato sulla cima di un monte scosceso: prenderlo d’assalto di petto era impossibile viste anche le maggiori forze galliche, per cui dispose i soldati in due accampamenti collegati da un fossato. Dopo una serie di scaramucce i romani travolsero una parte delle difese di Vercingetorige tanto che Teutomato, re alleato dell’arverno, dovette abbandonare la sua tenda mezzo nudo mentre i legionari irrompevano.

Si diffuse la voce che i romani erano penetrati nell’oppidum, infatti circa duecento di loro si erano arrampicati sulle mura, mentre dall’interno partivano urla di disperazione; giunsero allora in soccorso altri soldati galli e nella confusione generale Cesare fu costretto a inviare altre coorti per evitare un disastro: alla fine i romani avrebbero perso ben 700 uomini e 46 centurioni. Cesare dirà nel De Bello Gallico che non era mancato il valore, ma era stato colpa del terreno, locus iniquus. Plutarco racconterà che in quell’occasione Cesare, aggredito da tutte le parti, avrebbe rischiato la vita, perdendo la spada, poi appesa su un tempio gallico e che lo stesso Cesare, vista tempo dopo, avrebbe detto di lasciarla dov’era in quanto ormai oggetto sacro.

Da assediante ad assediato

Cesare decise di abbandonare l’assedio e muoversi verso gli edui in fermento. Vercingetorige allora decise di inseguirlo; la situazione del comandante romano era estremamente difficile, trovandosi in territorio nemico e inseguito. Inviò messaggeri a Labieno per tentare di ricongiungersi alle sue 4 legioni, e infine vi riuscì nei pressi di Agendicum. Secondo Carcopino ciò che seguì fu meticolosamente programmato da Cesare, con il proconsole a scegliere il campo di battaglia facendo credere al nemico di averlo fatto di propria volontà, come sarebbe poi accaduto con Napoleone ad Austerlitz. Infatti dopo un’aspro scontro di cavalleria il re arverno seguì le mosse previste:

« … Vercingetorige divisa la cavalleria [composta da 15.000 armati, ndrin tre parti; due schiere attaccano sui fianchi ed una impedisce la marcia alla colonna [dell’esercito romano, ndr]. Cesare, informato, ordina anche alla sua cavalleria di contrattaccare il nemico gallico in tre colonne. Si combatte in contemporanea su tutti i fronti. L’esercito romano si ferma, mentre i bagagli sono messi al centro dello schieramento tra le legioni […] infine i Germani sul lato destro, raggiunta la vetta di una collina, battono il nemico, lo mettono in fuga e lo inseguono fino al fiume, dove aveva preso posizione Vercingetorige con la fanteria e ne uccidono numerosi. Gli altri, per timore di essere circondati, fuggono. I Romani fanno strage ovunque. Tre nobili capi degli Edui furono catturati e portati in presenza di Cesare. Si trattava di un certo Coto, comandante dei cavalieri […] di Cavarillo, che dopo la defezione di Litavicco era divenuto comandante della fanteria, ed Eporedorige […] »

Cesare, De bello Gallico, VII, 67

La cavalleria gallica, sconfitta, ripiegò insieme all’esercito nella vicina città dei mandubi. Il luogo dello scontro finale sarebbe stato dunque la fortezza di Alesia, città sacra per i galli, in cui si rinchiuse Vercingetorige chiedendo aiuto a tutte le tribù galliche: prima che le fortificazioni di Cesare fossero pronte inviò l’intera cavalleria rimasta a chiedere soccorso in tutta la Gallia. Secondo Cesare il re arverno avrebbe avuto all’interno delle mura 80.000 armati, mentre lui disponeva di 10 legioni, ossia circa 50.000 uomini, tra legionari, ausiliari, frombolieri e cavalieri.

Cesare iniziò le opere d’assedio, costruendo una linea di controvallazione e alle spalle una linea di circonvallazione, scavando trincee e fossati profondi, torri, terrapieni, fossati, accampamenti e forti minori; nell’ottocento gli scavi voluti da Napoleone III confermeranno il resoconto dato da Cesare. Quest’ultimo si era basato a sua volta sull’assedio di Scipione Emiliano a Numanzia, in Spagna, circa un secolo prima. Oltre a queste imponenti opere di fortificazione i romani lanciarono nei fossati e negli spazi tra loro e i galli una serie interminabile di trappole: triboli, gigli e quant’altro, tutte perlopiù invisibili alla vista che funzionavano come vere e proprie mine antiuomo ante litteram.

Tuttavia l’appello di aiuto era stato recepito e marciavano in aiuto di Vercingetorige ben 250.000 armati, se si può fare affidamento alle fonti. In ogni caso molti dovevano essere male armati, ma erano comunque molti più dei romani. In quella torrida estate del 52 a.C. l’assedio procedeva senza grandi colpi di scena, mentre nella città scarseggiava cibo e acqua, essendo costruita per contenere molte meno persone di quelle di cui disponeva l’esercito del re arverno:

« …parlò Critognato, il cui discorso merita di non essere trascurato per la singolare e aberrante crudeltà: “[…] Nel prendere una decisione dobbiamo considerare tutta la Gallia che abbiamo chiamato in nostro aiuto. Quale coraggio pensate che avranno i nostri amici e parenti dopo l’uccisione in un solo luogo [ Alesia, ndr] di ottantamila uomini? […] Dunque qual è il mio consiglio? Di fare come fecero i nostri antenati nella guerra contro i Cimbri ed i Teutoni […] quando, respinti nelle città e costretti da simile carestia, si cibarono dei corpi di coloro che per età non erano più adatti alla guerra e non si arresero ai nemici […]” »

Cesare, De bello Gallico, VII, 77

Si decise infine di mandare nella terra di nessuno tutti coloro i quali non erano in grado di combattere, che però vennero respinti anche da Cesare e rimasero a morire, inermi, tra i due schieramenti, secondo il racconto di Cassio Dione. Ma è anche possibile che molti siano fuggiti passando per qualche punto delle difese romane non ancora ultimate. Nel frattempo giunsero i rinforzi gallici, per cui Cesare si ritrovò in netta inferiorità numerica, come aveva previsto. Il suo unico scopo ora era difendersi ed evitare che si ricongiungessero le due parti dell’esercito gallico.

Vittoria romana

Fu allora che Vercingetorige decise di attaccare: i romani vennero attaccati contemporaneamente su due fronti, dall’interno e dall’esterno. All’esterno si posizionò davanti la cavalleria e la fanteria dietro, in posizione arretrata, mentre internamente ci si preparava con scale scale, terra e graticci, ad assaltare le mura romane. Cesare, dopo aver disposto ogni reparto al suo posto, ordinò alla cavalleria di uscire per attaccare battaglia con quella gallica, mentre le rispettive fanterie assistevano:

« …quelli che stavano nelle fortificazioni […] facevano coraggio ai loro compagni con clamori ed urla […] poiché si combatteva di fronte a tutti, nessuna azione coraggiosa o vile poteva essere nascosta, entrambi gli schieramenti erano incoraggiati ad avere comportamenti eroici, per il desiderio di gloria e per il timore dell’ignominia […] »

Cesare, De bello Gallico, VII, 80

Il combattimento durò a lungo finchè al tramonto i due schieramenti stavano per ritirarsi senza vincitori nè vinti quando, nonostante la superiorità numerica dei galli, Cesare inviò sul loro fianco la sua cavalleria germanica, facendo strage non solo dei cavalieri ma anche dei fanti leggeri e degli arcieri galli che secondo la loro tradizione si erano mischiati alla cavalleria, inseguendoli fino all’accampamento nemico. Anche l’esercito di Vercingetorige si ritirò senza colpo ferire, segnando una prima vittoria dei romani.

Vercingetorige
Secondo attacco

Nel giorno seguente i galli preparano una serie di materiali per superare le difese romane: scale, graticci, arpioni. Uscirono infine dal campo di notte, assaltando il vallo romano. Tuttavia i romani erano pronti e risposero all’attacco lanciando contro di tutto, senza contare i galli falciati dai triboli e i gigli invisibili di notte. In quest’occasione viene menzionato per la prima volta da Cesare Marco Antonio, che insieme a Gaio Trebonio, guidarono la difesa. Con lo spuntare del giorno i romani ricacciarono vigorosamente gli assalitori, potendo mirare con più precisione con le loro macchine da getto (catapulte, balliste, scorpioni). Ancora una volta i galli dentro Alesia non si erano coordinati bene e uscirono troppo tardi quando i loro compagni si stavano già ritirando, ritornando dunque ancora una volta in città senza combattere.

Lo scontro finale

I galli, non riuscendo a prendere le fortificazioni romane le ispezionarono, trovando un punto debole, il campo superiore, ai piedi del Monte Rea, che non era stato possibile inglobare all’interno delle fortificazioni per via del terreno scosceso. I galli decisero che quello sarebbe stato il punto dove avrebbero sferrato l’attacco finale e decisero che lo avrebbe comandato Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige e uno dei quattro comandanti supremi dei galli. Uscito di notte, giunse con l’esercito ai piedi del monte prima dell’alba, nascondendovisi dietro. Verso mezzogiorno attaccò il campo romano, mentre nella piana di Laumes, dove si erano già scontrate le cavallerie, fu inviata la cavalleria e altre truppe a tenere impegnati i romani in un altro settore del vallo. Vercingetorige, visto l’attacco dei suoi alleati, lanciò anch’egli l’offensiva contro il vallo romano. Ora Cesare era attaccato su tre fronti e uno di questi era il suo punto debole:

« Le forze romane si dividevano per tutta l’ampiezza della linea fortificata e non facilmente riuscivano a fronteggiare il nemico in più luoghi contemporaneamente. I Romani erano altresì terrorizzati dal grido che si alzava alle loro spalle mentre combattevano, poiché capivano che il pericolo dipendeva dal valore di coloro che proteggevano le loro spalle: ciò che non si vede infatti turba maggiormente le menti degli uomini. »

Cesare, De bello Gallico, VII, 84

I romani erano ora in grossa difficoltà. Cesare decise di inviare Labieno con sei coorti a soccorre il campo sotto attacco, ma non fu sufficiente e ne dovette inviare altre sotto il comando di Decimo Bruto e Gaio Fabio. Infine fu egli stesso a dover intervenire, e mentre percorreva le linee romane incoraggiava i legionari a combattere. Raccolse più coorti che poté nel tragitto, infine prese quattro coorti e parte della cavalleria, cercando di aggirare il nemico. Nel frattempo Labieno aveva messo insieme 39 coorti (l’equivalente di 4 legioni), muovendo anch’egli contro il nemico. La manovra di Cesare resterà nei libri di storia e nei manuali di tattica militare:

« Riconosciuto Cesare per il colore del suo mantello, che portava come un’insegna durante i combattimenti […] i Romani, lasciati i pilum, combattono con la spada. Velocemente appare alle spalle dei Galli la cavalleria romana, mentre altre coorti si avvicinano. I Galli volgono in fuga. La cavalleria romana rincorre i fuggiaschi e ne fa grande strage. Viene ucciso Sedullo, comandante dei Lemovici; l’arverno Vercassivellauno viene catturato durante la fuga; vengono portate a Cesare settantaquattro insegne militari. Di così grande moltitudine pochi riuscirono a raggiungere il campo e salvarsi […] Dalla città, avendo visto la strage e la fuga dei compagni e disperando della salvezza, ritirano l’esercito in Alesia. Giunta questa notizia, i Galli del campo esterno si danno alla fuga […] Se i legionari non fossero stati sfiniti […] tutte le truppe nemiche avrebbero potuto essere distrutte. Verso mezzanotte la cavalleria, mandata all’inseguimento, raggiunse la retroguardia nemica. Un grande numero di Galli fu preso ed ucciso, gli altri si disperdono in fuga verso i loro villaggi. »

Cesare, De bello Gallico, VII, 88

La manovra di Cesare era stata vincente, mettendo nello scompiglio i galli che ora si davano alla fuga. Nonostante l’enorme carneficina molti riuscirono a fuggire poiché i romani erano talmente stanchi da non riuscire a inseguirli. Ma l’esercito di soccorso era sconfitto e si era disciolto: molti catturati, numerosi i morti e i restanti si erano dati alla fuga per tornare nelle loro terre.

Il giorno dopo Vercingetorige decise di accettare la sconfitta: ormai scarseggiavano acqua e viveri, non avrebbe ricevuto altri soccorsi in tempi brevi e non aveva alcuna speranza di vittoria. Cesare fece mettere un seggio davanti le fortificazioni, su cui attese la resa del re arverno, che si sarebbe inginocchinato ai piedi del proconsole:

« Vercingetorige, indossata l’armatura più bella, bardò il cavallo, uscì in sella dalla porta della città di Alesia e, fatto un giro attorno a Cesare seduto, scese da cavallo, si spogliò delle armi che indossava e chinatosi ai piedi di Cesare, se ne stette immobile, fino a quando non fu consegnato alle guardie per essere custodito fino al trionfo. »

Plutarco, Vite Parallele, Cesare, 27, 9-10

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L’assedio di Alesia – il trionfo di Cesare
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