Nerone approfittò dell’incendio, che aveva distrutto 10 dei 14 quartieri di Roma, per costruire un’immensa casa, la domus aurea. La costruzione fu estremamente rapida, considerando che quattro anni dopo l’incendio Nerone morì. La costruzione di questa sfarzosa dimora è da sempre additata come prova della colpevolezza di Nerone, sebbene in realtà probabilmente le fiamme divamparono in modo casuale dal Circo Massimo. Quel che è certo è che le enormi spese affrontate dall’imperatore per ricostruire la città e in particolare la domus aurea portarono l’impero sull’orlo della bancarotta. Per la prima volta dai tempi della repubblica la moneta venne svalutata e ridotta la percentuale d’argento nel denario.

Il risanatore delle casse imperiali

Il governo di Nerone si inasprì, finché – dopo la ribellione di Gaio Giulio Vindice, governatore della Gallia Lugdunense – ordinò a Galba, governatore della Spagna, di suicidarsi. Tuttavia le sue legioni lo acclamarono imperatore e marciò su Roma, col sostegno del senato, mentre ovunque avvenivano atti di ribellione nei confronti dell’imperatore. Si ribellò la legio III Augusta, in Africa, bloccando il rifornimento di grano e anche i pretoriani abbandonarono l’imperatore. Infine anche il senato dichiarò hostis publicus (nemico pubblico) Nerone, che fu costretto a fuggire, avendo perso l’appoggio di chiunque.Infine l’imperatore si suicidò con l’aiuto di un liberto, Epafrodito, sapendo che se fosse stato catturato vivo sarebbe stato trucidato. Svetonio narra che morendo Nerone pronunciò la frase: “quale artista muore con me!”. Il senato ne decretò la damnatio memoriae: furono distrutti tutti i documenti e i riferimenti a Nerone. Fu permesso comunque un funerale privato e le sue ceneri furono deposte nel sepolcro di famiglia, quello dei Domizi, sul Pincio.

Vespasiano

«Il potere imperiale, a lungo reso incerto e quasi vacillante dalla rivolta e dall’uccisione di tre principi fu infine raccolto e consolidato dalla gens Flavia. Quella famiglia in verità era oscura e priva di importanti figure di antenati, tale tuttavia che lo Stato non ebbe a rammaricarsene; sebbene sia noto che Domiziano abbia pagato meritatamente il fio della sua cupidigia e crudeltà. T. Flavio Petrone, cittadino di Rieti, centurione o richiamato (evocatus), durante la guerra civile, nell’esercito di Pompeo, dopo la battaglia di Farsalo, disertò e riparò in patria; quindi, ottenuto il perdono e il congedo, si mise a fare l’esattore nelle vendite all’asta. Suo figlio, di nome Sabino, esente dal servizio militare (anche se alcuni dicono che era primipilo e altri che, quando ancora guidava le file, era stato sciolto dal giuramento per motivi di salute), riscuoteva in Asia le entrate dell’imposta del quarantesimo, e rimanevano dei ritratti, a lui dedicati dai cittadini, con questa iscrizione: «A un esattore onesto». In seguito fu banchiere presso gli Elvezi, e in quel paese morì, lasciando la moglie Vespasia Polla e due figli avuti da lei, il maggiore dei quali, Sabino, arrivò fino alla prefettura dell’Urbe, il minore, Vespasiano, addirittura al principato.»

Svetonio, Vespasiano, 1

Le origini di Vespasiano, uscito vincitore dalla guerra nell’anno dei quattro imperatori (Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano), che aveva sconvolto l’impero romano dopo la morte di Nerone, erano modeste se confrontate ai Giulio-Claudi, discendenti di Cesare e di una delle più antiche famiglie patrizie romane, oltre a vantarsi di discendere da Venere e da Enea. Vespasiano nacque a Falacrinae, un borgo nei pressi di Rieti, forse l’attuale Cittareale. Il fratello, Sabino, fu il primo a intraprendere la carriera politica e in seguito diventerà anche prefetto dell’Urbe, una delle cariche più prestigiose dell’impero. Allevato nella casa della nonna, Vespasiano intraprenderà la politica solo dietro pressione della madre:

Tito

«Fu allevato, sotto la guida della nonna paterna Tertulia, nella proprietà di Cosa. Per questa ragione, anche da imperatore, tornò spesso nei luoghi della sua infanzia, dal momento che la villa era stata lasciata come in passato affinché nulla andasse perduto di quanto era caro ai suoi occhi; ed ebbe tanta venerazione per la memoria della nonna da serbare l’abitudine di bere, nelle solennità pubbliche e private, in una piccola coppa d’argento a lei appartenuta. Dopo aver preso la toga virile, per molto tempo non si curò del laticlavio, sebbene suo fratello l’avesse già ottenuto, e solo dalla madre infine poté essere convinto a farne richiesta. Essa, più che con le preghiere o col peso della sua autorità, lo pungolò col sarcasmo, chiamandolo insistentemente, per umiliarlo, «lacchè» del fratello. Fu tribuno militare in Tracia come questore, ottenne in sorte la provincia di Creta e Cirene; candidato all’edilità e poi alla pretura, ottenne la prima non senza un insuccesso e poi classificandosi al sesto posto; la seconda, invece, sùbito, alla prima candidatura e ai primi posti.»

Svetonio, Vespasiano, 2

Fu durante la repressione della ribellione giudaica, affidata a Vespasiano dall’imperatore, che scoppiò la rivolta contro Nerone, dichiarato infine hostis publicus e suicidatosi. Rapidamente si susseguirono come imperatori Galba, Otone e Vitellio, tutti provenienti da occidente, finché anche Vespasiano non venne acclamato imperatore (poco prima gli era stato predetto da Giuseppe, uno dei capi della rivolta ebraica, e che per questo venne liberato, ottenne la cittadinanza, prendendo il nome di Flavio, e divenne uno dei principali collaboratori dell’imperatore, scrivendo poi la storia della guerra giudaica), e decise di attaccare Vitellio, rimasto unico imperatore a occidente. Sconfitto lo sfidante, Vespasiano rimase unico imperatore e trionfatore della guerra civile.

Vespasiano edificò dunque il tempio della Pace, per la fine della guerra, e consacrò un nuovo anfiteatro al popolo romano, edificato col bottino della guerra giudaica, l’anfiteatro Flavio, nel luogo in cui sorgeva il lago della domus aurea, prosciugato. Nel medioevo avrebbe preso il nome di Colosseo, da una statua colossale di Nerone in bronzo che svettava nella vicinanze e che da Adriano era stata trasformata in una statua del dio Sole e spostata dalla zona dove sarebbe sorto il tempio di Venere e Roma verso il ludus magnus, dalla parte opposta.

Inoltre Vespasiano, oltre a censire l’ordine senatorio e riedificare Roma, rimise in ordine i conti pubblici tramite un’amministrazione oculata e raccogliendo denaro anche da nuove tasse, come quella che impose sull’urina. La tassa, la centesima venalium, era riscossa dalle fulloniche, dove veniva depositata l’urina, utilizzata come sbiancante naturale. Da allora i bagni si sarebbero chiamati vespasiani, e neanche le lamentele del figlio Tito bastarono a fargli cambiare idea. Fu allora (secondo Svetonio e Cassio Dione, Storia Romana, LXV, 14,5) che pronunciò la celebre frase “pecunia non olet“:

“Al figlio Tito, che lo criticava perché aveva escogitato perfino un’imposta sull’urina, mise sotto il naso il denaro ricavato dal primo versamento, chiedendogli se era disturbato dall’odore; e poiché egli rispose di no: «Eppure», disse, «viene dall’urina». Quando certi ambasciatori gli annunciarono che gli era stata decretata, a spese pubbliche, una statua colossale, di non lieve costo, rispose che la erigessero anche subito e, mostrando il cavo della mano, disse che il «piedistallo era pronto».”

Svetonio, Vespasiano, 23

L’estrema avarizia, che gli additano gli storici antichi, fu in parte certamente dovuta alla sua estrazione e al lavoro paterno, ma altrettanto all’opera di risanemento delle casse pubbliche necessaria dopo gli sperperi di Nerone. L’imperatore, nonostante fosse divenuto famoso per la sua avarizia, in realtà riuscì a riportare in ordine le finanze pubbliche.

«Ma ostentava mordacità soprattutto nel caso di profitti illeciti, per attenuarne l’odiosità con qualche motteggio e volgerli in burla. Uno dei suoi servitori più fidati gli chiese un posto di amministratore per un tale che aveva caro come un fratello. Egli rimandò la risposta; poi convocò il candidato in persona, e, dopo aver riscosso la somma, tale quale questi aveva pattuito col suo protettore, senza indugio gli concesse l’incarico. E al servitore tornato più tardi a sollecitare la risposta: «Cercati un altro fratello», disse, «perché questo, che tu credi tuo, invece è fratello mio». Durante un viaggio, sospettando che il cocchiere fosse saltato a terra con il pretesto di ferrare le mule per concedere ad uno che era in causa con lui la possibilità e il tempo di avvicinarlo, gli chiese «a che prezzo avesse ferrato le mule», e reclamò una parte del guadagno.»

«Il solo difetto di cui giustamente lo si può incolpare è l’avidità di denaro. Infatti, non contento di aver preteso l’esazione delle imposte che non erano state riscosse sotto Galba, di averne aggiunte di nuove e più gravose, di aver aumentato i tributi alle province, raddoppiandoli perfino in alcuni casi, si dedicò apertamente a speculazioni disonorevoli anche per un privato cittadino, facendo incetta di certe merci soltanto per poi rivenderle a più caro prezzo. E non esitò nemmeno a vendere le cariche ai candidati e le assoluzioni agli imputati sia innocenti sia colpevoli. Si sospetta pure che fosse solito promuovere di proposito ad incarichi particolarmente importanti gli amministratori più rapaci, allo scopo di condannarli poi, una volta arricchiti: li usava si diceva in giro come spugne, perché, quando erano asciutti, li inzuppava, e, quando erano bagnati, li spremeva. Alcuni dicono che fosse molto avido proprio per natura e che questo difetto gli fosse stato rinfacciato da un vecchio bovaro che, quando gli fu negata la libertà umilmente richiesta, a titolo gratuito, a lui che aveva ottenuto l’impero, ebbe ad esclamare: «La volpe perde il pelo, ma non il vizio!». Vi sono invece altri che ritengono che egli sia stato spinto a saccheggi e rapine dalla necessità, per l’estrema povertà dell’erario e del fisco, che aveva denunciato sùbito fin dall’inizio del suo principato, dichiarando che «erano necessari quaranta miliardi di sesterzi perché lo Stato potesse reggersi». E la cosa sembra verosimile, dal momento che egli fece ottimo uso anche di quanto aveva malamente acquisito.»

SVETONIO, VESPASIANO, 23; Vespasiano, 16

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