Dopo la resa di Sagunto in Spagna, assediata da Annibale, Quinto Fabio Massimo venne inviato come ambasciatore a Cartagine (insieme a senatori importantissimi in seguito come Marco Livio Salinatore e Lucio Emilio Paolo), per capire se le azioni del cartaginese fossero appoggiate dalla madrepatria. Alla fine del discorso di Fabio, che chiedeva spiegazioni, i cartaginesi accettarono la guerra:

«[…] Perciò, smettetela di citare Sagunto e l’Ebro, e una buona volta il vostro animo dia alla luce ciò che da tanto tempo cova in sé!». Allora il Romano, fatta una piega con la toga, disse: «Qui vi portiamo la guerra e la pace; delle due cose, prendete quella che volete». Sùbito dopo queste parole, non meno fieramente gli fu risposto con grida che desse quella che volesse; ed avendo egli per contro lasciato andare la piega e detto che dava la guerra, tutti risposero che la accettavano e l’avrebbero combattuta con il medesimo ardimento con cui l’accettavano.»

TITO LIVIO, AB URBE CONDITA LIBRI, XXI, 18, 12-14

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Un futuro radioso

Presa Sagunto senza che i romani intervenissero (in senato si dibatteva se aiutare una città alleata e quindi violare il trattato dell’Ebro che garantiva libertà ai punici in quel territorio, appunto a sud dell’Ebro), Annibale Barca decise di partire immediatamente per l’Italia. La voce si sparse a Roma, ma nessuno sapeva come sarebbe arrivato: qualcuno pensava in Sicilia, qualcun altro che si sarebbe imbarcato a Marsiglia. Invece prese la strada più difficile, valicando le Alpi e perdendo tutti gli elefanti tranne uno, ma cogliendo di sopresa i romani, che inviarono subito a nord il console Cornelio Scipione.

Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano,  figlio dell’omonimo Publio Cornelio Scipione, apparteneva alla gens Cornelia, una delle più antiche e prestigiose della repubblica. Il ragazzo si distinse già diciassettenne durante la battaglia del Ticino: nel 218 a.C. avvenne il primo contatto tra le truppe di Annibale scese dalle Alpi e l’esercito romano. La prima battaglia della seconda guerra punica si trasformò in un disastro per i romani, come per molti anni a venire. Il padre, l’omonimo Publio Cornelio Scipione, era il console in carica e guidava l’esercito romano contro Annibale: finito completamente accerchiato dalla cavalleria numida del cartaginese, venne salvato miracolosamente dal giovane figlio che si gettò nella mischia da solo, riuscendolo a portare in salvo. Le doti del figlio erano già evidenti.

Il padre propose per il figlio la corona civica, data a chi avesse salvato la vita a un cittadino romano in battaglia, ma il giovane Scipione rifiutò. Nel 216 a.C. prese parte ad un’altra tragica disfatta, forse la più importante della storia per l’esercito romano, a Canne. Fu proprio lui, secondo Livio in qualità di tribuno militare a riorganizzare quel che restava dell’esercito a Canosa; il console più prudente, Lucio Emilio Paolo, era morto in battaglia e Gaio Terenzio Varrone, che aveva voluto la battaglia, era tornato a Roma. Perciò Scipione era tra i più alti in comando se non il più alto (oltre al prestigio che aveva per il coraggio mostrato al Ticino due anni prima). Permise all’esercito di riorganizzarsi e fu durissimo con chiunque volesse abbandonare il campo.

Nel 213 a.C. venne eletto edile insieme al fratello Lucio, anche contro le rimostranze dei tribuni della plebe secondo cui Scipione non aveva raggiunto l’età necessaria (solitamente gli edili avevano 30 anni, Scipione a 23-24 anni non avrebbe potuto coprire neanche la questura che era la carica precedente a quella di edile). Il futuro Africano assecondò la voce che si era diffusa tra il popolo secondo cui egli parlava con gli dei attraverso i sogni (tanto che quasi due secoli dopo Cicerone scriverà il Somnium Scipionis) e rispose che se i romani lo volevano eleggere edile, allora aveva l’età necessaria. Tuttavia nessuno ebbe il coraggio di candidarsi. Regnava lo sconforto generale nel Campo Marzio, quando il neanche venticinquenne Scipione si offrì volontario:

« Il popolo aveva gli sguardi rivolti ai magistrati ed osservava i volti dei più importanti cittadini, i quali a loro volta si guardavano l’un l’altro. Il popolo fremeva nel vedere quanto la situazione fosse compromessa e disperava della repubblica, tanto che nessuno si arrischiava a presentarsi per ottenere il comando dell’esercito in Spagna, quando all’improvviso P. Cornelio [Scipione], figlio di quel Publio che era morto in Spagna, giovane di appena ventiquattro anni, dichiarò di porre la propria candidatura e si collocò subito in posizione elevata per attirare l’attenzione. Dopo che tutti gli sguardi si rivolsero verso di lui, la moltitudine con grida di simpatia e favore gli augurò senza indugio un comando felice e fortunato. Quando poi si iniziò a votare, tutti fino all’ultimo, non solo le centurie ma i singoli cittadini, deliberarono che il comando supremo militare in Spagna fosse dato a P. Scipione. »

Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri XXVI, 18, 6-9

Nel 211 a.C. sia il padre che lo zio Gneo vennero uccisi in guerra in Spagna contro le forze cartaginesi. Lucio Marcio riuscì ad arginare le forze cartaginesi e il senato mandò Gaio Claudio Nerone con nuove forze. Tuttavia venne il momento di sostituire anche lui: si decise di convocare i comizi centuriati per eleggere un proconsole. Ancora una volta lontanissimo dalla soglia per essere eletto (25 anni contro i 41 necessari), Publio riuscì ad ottenere la carica. Partì come privato cittadino ma dotato di imperium proconsulare. Aveva i poteri di un proconsole ma era un privato cittadino: sostanzialmente lo stesso espediente con cui Augusto cumulò diversi poteri da rendersi imperatore. Negli anni seguenti Publio vinse la guerra in Spagna e la portò in Africa, affrontando e vincendo Annibale a Zama: i romani avevano vinto la seconda guerra punica.

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Quando Scipione salvò la vita al padre
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