15 febbraio del 44 a.C.: manca solo un mese alle idi di marzo. Cesare siede su un seggio d’oro, sui rostri, indossando un manto di porpora e osserva la festa dei Lupercali. Questa antichissima festa romana di purificazione era associata alla figura di Luperca, secondo il mito moglie del pastore Faustolo e poi con Acca Larenzia. Era inoltre paredra di Luperco, antico dio latino collegato con il lupo sacro a Marte; successivamente Luperco divenne epiteto di Fauno (Faunus Lupercus) e infine assimilato al greco Pane Liceo (Πᾶν Λύκαιος).

La festa, celebrata dal duplice sodalizio dei Luperci Quintili e Fabiani (nel 44 a.C. ci furono anche i Luperci Iulii), si svolgeva davanti al Lupercale, la sacra grotta dove Faustolo avrebbe rinvenuto i gemelli Romolo e Remo allattati da una lupa, ai piedi del Germalo, alle pendici nord-occidentali del Palatino. Lo svolgimento della festa era il seguente: i due sodalizi si recavano al Lupercale e qui immolavano capri e un cane, mentre le vestali offrivano focacce fatte con le prime spighe della precedente mietitura. Secondo Ovidio (Fast., II, 282) avrebbe partecipato anche il Flamine Diale (il sacerdote preposto al culto di Giove, che lo rappresentava), il che è veramente sospetto in quanto per lui erano animali tabù quelli che venivano sacrificati durante la cerimonia.

Subito dopo due giovani, uno per ogni sodalizio, venivano toccati in fronte con un coltello bagnato del sangue dei capri immolati, dopodiché il sangue veniva asciugato con un fiocco di lana bianca immerso nel latte. Il rituale prevedeva che allora i due giovani sorridessero e indossassero le pelli degli animali sacrificati (sotto le quali erano completamente nudi) e facessero con le stesse pelli delle strisce (februa amiculum Iunonis), con le quali correvano attorno al Palatino percuotendo più donne possibili (era infatti un rituale considerato propiziatorio alla fecondazione e molte si offrivano volontarie).

E’ proprio in questo momento che accade l’imprevedibile: Marco Antonio, che aveva preso parte alla processione della festa, si avvicina a Cesare e cerca di mettergli in testa una corona, che simboleggiava il potere regale. Per i romani però, nonostante fossero passati quasi cinque secoli dalla cacciata di Tarquinio il Superbo, la regalità era ancora un tabù. Lo svolgimento degli avvenimenti è il seguente: inizialmente un tale di nome Licinio si avvicina, viene issato sui rostri e porge la corona ai piedi di Cesare, che la ignora. Allora Cassio, il futuro cesaricida, si avvicina e gliela pone sulle ginocchia, forse in segno di sfida.

Cesare la ignora nuovamente, e lo fa nuovamente quando ci riprova Casca (che darà la prima pugnalata un mese dopo), ma è proprio in quel momento che passa Antonio, il quale aveva preso parte alla festa e gli pone la corona in testa, invocandolo come rex. Quest’ultima volta Cesare prende la corona, che non aveva ancora toccato, gettandola tra la folla (che non aveva reagito bene all’accaduto) e esclamando che l’unico re di Roma era Giove Ottimo Massimo. Diede inoltre l’ordine di portarla nel suo tempio sul Campidoglio, poiché la corona apparteneva solo a lui. L’avvenimento è raccontato da Nicola Damasceno:

“71.Tali erano i discorsi che si facevano allora. Nell’inverno si celebrava a Roma una festa (chiamata i Lupercali), durante la quale vecchi e giovani insieme partecipavano a una processione, nudi, unti e cinti, schernendo quanti incontravano e battendoli con strisce di pelle di capra. […] era stato eletto a guidare la processione Antonio; egli attraversava il foro, secondo il vecchio costume, seguito da molta gente. Cesare era seduto sui cosidetti rostri, su un trono d’oro, avvolto in un mantello di porpora. Dapprima lo avvicinò Licinio con una corona d’alloro […] Dato che il posto da cui Cesare parlava al popolo era in alto, Licinio, sollevato dai colleghi, depose il diadema ai piedi di Cesare.
72. Il popolo gridava di porlo sul capo e invitò il magister equitum, Lepido, a farlo, ma questi esitava. In quel momento Cassio Longino, uno dei congiurati, come se fosse veramente benevolo e anche per poter meglio dissimulare le sue malvagie intenzioni, lo prevenne prendendo il diadema e ponendoglielo sulle ginocchia. Con lui anche Publio Casca. Al gesto di rifiuto da parte di Cesare e alle grida del popolo accorse Antonio, nudo, unto d’olio, proprio come si usava durante la processione e glielo depose sul capo. Ma Cesare se lo tolse e lo gettò in mezzo alla folla. Quelli che erano distanti applaudirono questo gesto, quelli che erano vicini invece gridavano che lo accettasse e non rifiutasse il favore del popolo.
73. Su questa vicenda si sentivano opinioni discordanti: alcuni erano sdegnati poiché, secondo loro, si trattava dell’esibizione di un potere che superava i limiti richiesti dalla democrazia; altri lo sostenevano credendo di fargli cosa gradita. Altri ancora spargevano la voce che Antonio avesse agito non senza il suo consenso. Molti avrebbero voluto che diventasse re senza discussioni. Voci di ogni genere circolavano tra la massa. Quando Antonio gli mise il diadema sul capo per la seconda volta, il popolo gridò nella sua lingua: “Salve, re!”. Egli non accettò nemmeno allora e ordinò di portare il diadema nel tempio di Giove Capitolino, al quale, disse, più conveniva. Di nuovo applaudirono gli stessi che prima avevano applaudito.
74. C’è anche un’altra versione: Antonio avrebbe agito così con Cesare volendo ingraziarselo, anzi con l’ultima speranza di essere adottato da lui. 75. Alla fine abbracciò Cesare e passò la corona ad alcuni dei presenti, perché la ponessero sul capo della vicina statua di Cesare. Così fu fatto. In un tale clima, dunque, anche questo evento non meno di altri avvenimenti contribuì a stimolare i congiurati ad un’azione più rapida; esso infatti aveva dato una prova più concreta di quanto sospettavano”.NICOLA

DAMASCENO, VITA CAES., 21, 71-75

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Le idi di marzo

Cesare aveva ormai congedato la sua guardia ispanica e andava per Roma senza scorta, mentre preparava la sua imminente campagna partica, radunando le sue forze nei pressi di Apollonia, sull’altra sponda dell’Adriatico. Il giorno prima del suo assassinio vengono enumerati diversi prodigi, sia da Svetonio che da Plutarco, a corroborare l’unicità dell’evento, come era solito nella letteratura antica. Forse non sapremo mai se qualcuno di questi sia stato vero. Tra questi l’aruspice Spurinna che avrebbe messo in guardia Cesare dalle idi di marzo:

« Ma la morte imminente fu annunciata a Cesare da chiari prodigi. Pochi mesi prima, i coloni condotti a Capua, in virtù della legge Giulia, stavano demolendo antiche tombe per costruirvi sopra case di campagna. Lavoravano con tanto ardore che scoprirono, esplorando le tombe, una gran quantità di vasi di antica fattura e in un sepolcro trovarono una tavoletta di bronzo nella quale si diceva che vi era sepolto Capi, il fondatore di Capua. La tavola recava la scritta in lingua e caratteri greci, il cui senso era questo: «Quando saranno scoperte le ossa di Capi, un discendente di Iulo morrà per mano di consanguinei e ben presto sarà vendicato da terribili disastri dell’Italia.» Di questo episodio, perché qualcuno non lo consideri fantasioso o inventato, ha reso testimonianza Cornelio Balbo, intimo amico di Cesare. Negli ultimi giorni Cesare venne a sapere che le mandrie di cavalli che aveva consacrato, quando attraversò il Rubicone, al dio del fiume, e lasciava libere di correre, senza guardiano, si rifiutavano di nutrirsi e piangevano continuamente. Per di più, mentre faceva un sacrificio, l’aruspice Spurinna lo ammonì di «fare attenzione al pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo». Il giorno prima delle idi un piccolo uccello, con un ramoscello di lauro nel becco, volava verso la curia di Pompeo, quando volatili di genere diverso, levatisi dal bosco vicino, lo raggiunsero e lo fecero a pezzi sul luogo stesso. Nella notte che precedette il giorno della morte, Cesare stesso sognò di volare al di sopra delle nubi e di stringere la mano di Giove; la moglie Calpurnia sognò invece che crollava la sommità della casa e che suo marito veniva ucciso tra le sue braccia; poi, d’un tratto, le porte della camera da letto si aprirono da sole. In seguito a questi presagi, ma anche per il cattivo stato della sua salute, rimase a lungo indeciso se restare in casa e differire gli affari che si era proposto di trattare davanti al Senato; alla fine, poiché Decimo Bruto lo esortava a non privare della sua presenza i senatori accorsi in gran numero che lo stavano aspettando da un po’, verso la quinta ora uscì. Camminando, prese dalle mani di uno che gli era venuto incontro un biglietto che denunciava il complotto, ma lo mise insieme con gli altri, come se volesse leggerlo più tardi. Dopo aver fatto quindi molti sacrifici, senza ottenere presagi favorevoli, entrò in curia, passando sopra ogni scrupolo religioso, e si prese gioco di Spurinna, accusandolo di dire il falso, perché le idi erano arrivate senza danno per lui. Spurinna, però, gli rispose che erano arrivate, ma non erano ancora passate. »

Svetonio, Vita di Cesare, 82

Quel che sembra probabile è che la voce dell’imminente omicidio fosse in qualche modo circolata e che alcuni abbiano tentato di avvisare il dittatore, che probabilmente sottovalutò le voci. La sera prima, il 14 marzo, Cesare avrebbe risposto mentre era a cena a casa di Lepido, cui era presente anche Decimo Bruto, su una domanda filosofica posta sulla morte, asserendo di preferirne una improvvisa. E sarebbe stato accontentato. A capo della congiura c’erano Cassio e Marco Bruto, entrambi preoccupati che Cesare si sarebbe presto fatto nominare re; i due tuttavia non coinvolsero Cicerone nella congiura.

Erano arrivate le idi di marzo e il senato si riuniva, provvisoriamente, nei pressi del teatro di Pompeo, poiché la curia era chiusa per lavori di ristrutturazione. Cesare sarebbe stato restio a partecipare alla seduta, viste anche le rimostranze della moglie Calpurnia che lo spingeva a rimanere a casa, ma Decimo Giunio Bruto lo convinse ad andare, dicendo che il senato era già riunito e lo stava attendendo. All’entrata Gaio Trebonio prese da parte Marco Antonio, console insieme a Cesare nel 44 a.C., sia poiché si temeva sventasse l’omicidio, sia perché, nonostante le lamentele di Cicerone (che comunque si era tenuto fuori dalla congiura) non rientrava nei piani dei congiurati:

« Mentre prendeva posto a sedere, i congiurati lo circondarono con il pretesto di rendergli onore e subito Cimbro Tillio, che si era assunto l’incarico di dare il segnale, gli si fece più vicino, come per chiedergli un favore. Cesare però si rifiutò di ascoltarlo e con un gesto gli fece capire di rimandare la cosa a un altro momento; allora Tillio gli afferrò la toga alle spalle e mentre Cesare gridava: “Ma questa è violenza bell’e buona!” uno dei due Casca lo ferì, colpendolo poco sotto la gola. Cesare, afferrato il braccio di Casca, lo colpì con lo stilo, poi tentò di buttarsi in avanti, ma fu fermato da un’altra ferita. Quando si accorse che lo aggredivano da tutte le parti con i pugnali nelle mani, si avvolse la toga attorno al capo e con la sinistra ne fece scivolare l’orlo fino alle ginocchia, per morire più decorosamente, con anche la parte inferiore del corpo coperta.
Così fu trafitto da ventitré pugnalate, con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo; secondo alcuni avrebbe gridato a Marco Bruto, che si precipitava contro di lui: “Anche tu, figlio?”. Rimase lì per un po’ di tempo, privo di vita, mentre tutti fuggivano, finché, caricato su una lettiga, con il braccio che pendeva fuori, fu portato a casa da tre schiavi.
Secondo quanto riferì il medico Antistio, di tante ferite nessuna fu mortale ad eccezione di quella che aveva ricevuto per seconda in pieno petto. I congiurati avrebbero voluto gettare il corpo dell’ucciso nel Tevere, confiscare i suoi beni e annullare tutti i suoi atti, ma rinunciarono al proposito per paura del console Marco Antonio e del comandante della cavalleria Lepido. »

Svetonio, Vita di Cesare, 82

La versione di Plutarco conferma sostanzialmente quella di Svetonio:

“Artemidoro, cnidio di nascita, maestro di eloquenza greca e divenuto per questo familiare ad alcuni degli amici di Bruto, tanto da conoscere anche gran parte delle cose che si stavano preparando, giunse portando in un biglietto le cose che appunto intendeva denunciare: ma vedendo che Cesare riceveva ciascuno dei biglietti e li passava ai segretari che gli stavano vicino, accostatosi molto vicino: “Questo – disse – Cesare, leggilo da solo e subito; infatti c’è scritto qualcosa riguardo a faccende importanti e che ti riguardano”. Cesare dunque avendo ricevuto il foglio, fu impedito dal leggerlo, pur avendo iniziato molte volte, dalla calca di quelli che gli andavano incontro per supplicarlo, ma giunse in Senato tenendolo in mano e conservando solo quello. Alcuni invece sostengono che un altro gli diede quel foglio, e che Artemidoro neppure si avvicinò del tutto, ma fu spinto via in tutto il percorso. Ma questi fatti dopo tutto talvolta li determina anche la casualità; invece il luogo che accolse quell’assassinio e l’attentato, luogo nel quale allora si radunò il senato, che aveva collocata una statua di Pompeo e che costituiva un edificio di Pompeo tra quelli costruiti a ornamento per il teatro, indicava assolutamente che il fatto si verificò perché una divinità condusse e richiamò lì l’azione. E infatti si dice appunto anche che Cassio prima dell’attentato guardando verso la statua di Pompeo la invocò in silenzio, pur non essendo estraneo alle teorie di Epicuro: ma la circostanza, come sembra, essendo già vicino il terribile momento infondeva esaltazione ed emozione in luogo delle precedenti opinioni filosofiche. Antonio dunque, che era fedele a Cesare e robusto, lo tratteneva fuori Bruto Albino, avendo iniziato intenzionalmente una discussione che tirava per le lunghe; e mentre entrava Cesare il senato si alzò facendo atto di riverenza, e tra i complici di Bruto alcuni si disposero dietro il suo seggio, altri invece si fecero incontro proprio come se intendessero rivolgergli una supplica assieme a Tillio Cimbro che lo supplicava per il fratello esule, e parteciparono insieme alla supplica accompagnandolo fino al seggio. Ma poiché, sedutosi, respingeva le richieste e,siccome insistevano più decisamente, era arrabbiato con ciascuno di loro, Tillio afferrando la sua toga con entrambe le mani la tirò giù dal collo, il che era il segnale convenuto dell’attentato. E per primo Casca lo colpisce con una spada vicino al collo procurandogli una ferita non mortale né profonda, ma, come è naturale, emozionato all’inizio di una importante azione temeraria, tanto che anche Cesare, voltatosi, afferrò il pugnale e lo trattenne. E nello stesso tempo gridarono in qualche modo, il ferito in latino: “Disgraziatissimo Casca, che cosa fai?” e colui che lo aveva ferito, in greco, rivolto al fratello: “Fratello,aiutami”. E tale essendo stato l’inizio, quelli che per nulla erano consapevoli li prese spavento e terrore di fronte alle cose che accadevano, tanto che non osavano né fuggire, né difenderlo, ma neppure pronunciare una parola. Ma siccome di quelli che erano preparati all’assassinio ciascuno mostrava la spada sguainata, circondato intorno, e verso qualsiasi cosa rivolgesse lo sguardo, imbattendosi in ferite e in armi puntate sia contro il volto sia contro gli occhi,cercando di allontanarsi come una fiera era avvolto dalle mani di tutti; tutti quanti infatti bisognava che compissero e assaggiassero l’assassinio. Perciò anche Bruto gli inferse un unico colpo nell’inguine. E da parte di alcuni si dice che allora difendendosi dagli altri e spostandosi qua e là e gridando, quando vide Bruto che aveva sguainato la spada, tirò la toga sulla testa e si lasciò cadere, sia per caso, sia spinto da coloro che lo uccidevano, presso la base su cui è collocata la statua di Pompeo. E l’assassinio la insanguinò abbondantemente, tanto da sembrare che lo stesso Pompeo presiedesse alla vendetta sul nemico, steso sotto i suoi piedi e agonizzante per il gran numero delle ferite. Si dice infatti che ne abbia ricevute ventitre, e molti furono feriti gli uni dagli altri,dirigendo tanti colpi contro un solo corpo. “

Plutarco, Vite Parallele, Cesare, 65-66

“Essendo dunque il senato entrato […] gli altri congiurati circondarono […] Cesare […] E si dice che Cassio, rivolto all’immagine di Pompeo, la pregò come se avesse sentimento. E Trebonio alla porta, tirato in disparte Antonio, fuor lo ritenne ragionando. Il senato si alzò in piedi all’entrar di Cesare, e posto che a sedere, i congiurati lo circondarono da ogni parte, presentandogli Tullio Cimbro, uno d’essi, a supplicarlo per il fratello bandito, e tutti per lui intercedevano, toccandogli la mano, baciandogli il petto e la testa. […] Tullio con ambe le mani gli tirò giù dalle spalle il manto, e Casca il primo ad essersi posto dietro, sguainata la spada, lo colpì lievemente alla schiena […] Cesare allora gridò in latino: “scellerato Casca! Che fai?”. […] Già ferito da molti, volgendo intorno lo sguardo […] quando vide Bruto vibrar la spada nuda per dargli un colpo, lasciò la mano di Casca, che ancora teneva, e copertosi con la toga la testa, si abbandonò ai colpi degli assalitori”.

Plutarco, Vite Parallele, Bruto, 17

Appiano racconta che:

“Mentre Cesare sacrificava innanzi la curia, un tal altro gli porse uno scritto sulla congiura, ma egli entrò senza leggerlo nella curia: e da morto aveva ancora tra le mani quello scritto! Quello che poco dinanzi aveva, passando, felicitato Bruto e Cassio con augurio buono, fu visto parlare seriamente con Cesare mentre scendeva dalla lettiga. E la vista ed il parlare ormai lungo riempì di terrore i capi della congiura: e già si davano segno di uccidersi prima di ogni arresto. Nel procedere però del discorso si tranquillizzarono, perché videro Lena in aria di chi supplica per ottenere, e non di chi svela tradimenti: finché si rianimarono del tutto col veder Lena che ringrazia. È costume dei magistrati di prendere l’augurio avanti di entrare in Senato. Ora prendendolo anche Cesare, di nuovo la prima delle vittime era senza il cuore, o come altri dicono, senza il principio delle viscere. Ne interpretò l’indovino esser presagio di morte: Cesare replicò, sorridendo, che tal segno lo ebbe anche nelle Spagne quando era a combattere con Pompeo. Rispose l’indovino che egli allora era incorso in un grande pericolo, ma che ora il segno era molto più dimostrativo. Cesare ordinò che immolasse un’altra vittima ma l’augurio non migliorò. Ma vergognandosi di far attendere troppo il senato, e sollecitatone dai nemici, espressivi come l’amico, entrò nella curia senza attendere più le vittime: così si doveva compiere il destino di Cesare. I congiurati lasciarono Trebonio a intrattenere Antonio con parole davanti alla porta: gli altri, sedutosi Cesare per primo, gli si tennero intorno in forma di amici, ma coi pugnali sotto il manto. Allora Tillio Cimbro, uno di essi, paratoglisi davanti, implorava il ritorno del fratello. Cesare ritardava la grazia, anzi la negava del tutto. Allora Cimbro pigliò, con l’apparente intenzione di supplicarlo, la porpora di lui; ma nel pigliarla la raggruppò e tirò per denudargli il collo gridando intanto: “Perché tardate ancora, amici!”. Allora Casca, soprastandogli al capo, lo pugnalò su per la gola; ma il colpo sfuggì, ferendo il petto. Cesare liberò la sua veste da Cimbro, afferrò la mano a Casca e, saltato giù dallo scranno, si girò verso Casca tirandolo violentissimamente: ma nel girarsi distese il fianco e un altro lì lo trafisse. Ed intanto con gli stili in pugno Cassio lo pugnalò sulla faccia, Bruto in un femore, e Bucoliano alla schiena. Cesare si voltava verso ciascuno fremendo e stridendo come una fiera ma dopo il colpo di Bruto, ormai disperando della vita, si avvolse il capo nel manto, e cadde con nobile modo ai piedi della statua di Pompeo. Gli assalitori infierirono su di lui caduto fino ai ventitré colpi, tanto che molti, per ansia di ferire lui, ferirono a vicenda se stessi e gli altri.”

Appiano, Le guerre civili II, 116-117

Cesare sarebbe dunque caduto a terra, morente, ironicamente proprio di fronte la statua di Pompeo, pronunciando la celebre frase “Tu quoque, Brute, fili mi?”. O meglio, avrebbe detto, stando a Svetonio e anche a Cassio Dione lo stesso, ma in greco: “καὶ σὺ τέκνον?”. Secondo l’autopsia che gli venne fatta successivamente dal medico Antistione (la lex Aquilia del 286 a.C. prevedeva si dovesse provare che la morte fosse stata violenta e non per cause naturali) scoprì che le pugnalate ricevute erano state ventitré e di queste solo la seconda risultava mortale.

Un piano fallito

« Si decise di murare la Curia in cui fu ucciso, di chiamare Parricidio le Idi di marzo e che mai in quel giorno il Senato tenesse seduta. »

Svetonio, Vita di Cesare, 88

L’incertezza dei congiurati e la mancanza di risoluzione nei confronti di Antonio (console in carica) e Lepido (magister equitum) risultò tuttavia fatale per i congiurati. Nel clima di incertezza che regnava Lepido cercava di arringare i soldati per vendicare Cesare, mentre Aulo Irzio, fedelissimo del dittatore e console designato per il 43 a.C., oltre ad aver scritto l’ottavo libro del De Bello Gallico, proponeva la calma. Alla fine Cicerone propose un’amnistia, che venne accettata anche da Antonio e Lepido il 17, mentre il senato era riunito nel tempio della dea Tellus, scelto perché vicino alla casa di Antonio e lontano dai cesaricidi, asserragliati nei pressi del Campidoglio difesi da gladiatori. Tuttavia i cesaricidi non si presentarono alla seduta, che inoltre deliberò la conservazione delle decisioni di Cesare, tra cui spiccavano alcuni cesaricidi in posti chiave, come Decimo Giunio Bruto propretore in Gallia Cisalpina.

Il 18 Marco Antonio aprì il testamento di Cesare nella sua dimora, alla presenza del suocero del dittatore Lucio Calpurnio Pisone. Il diciannovenne pronipote Gaio Ottavio risultava l’erede principale, ma al momento si trovava ad Apollonia per conto di Cesare a preparare la campagna partica. Subito dopo c’erano i cugini di Ottavio Lucio Pinario e Quinto Pedio; perfino Decimo Giunio Bruto veniva prima di Marco Antonio. Il quale, tuttavia, il 20 pronunciò un celebre discorso funebre, quando con un celebre colpo di scena, mentre tesseva le lodi dei cesaricidi come “uomini buoni”, tirò fuori le vesti insanguinate del dittatore, scatenando l’ira della folla e costringendo i congiurati ad abbandonare Roma: nei giorni seguenti moltissimi senatori avrebbero abbandonato l’Urbe, mentre Ottaviano, adottato da Cesare per testamento, si precipitava a Roma.

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Tu quoque, Brute, fili mi? – Anche tu Bruto, figlio mio?
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