Publio Cornelio Scipione, detto l’Africano,  figlio dell’omonimo Publio Cornelio Scipione, apparteneva alla gens Cornelia, una delle più antiche e prestigiose della repubblica.

Il giovane Scipione

Il ragazzo si distinse già diciassettenne durante la battaglia del Ticino: nel 218 a.C. avvenne il primo contatto tra le truppe di Annibale scese dalle Alpi e l’esercito romano. La prima battaglia della seconda guerra punica si trasformò in un disastro per i romani, come per molti anni a venire. Il padre, l’omonimo Publio Cornelio Scipione, era il console in carica e guidava l’esercito romano contro Annibale: finito completamente accerchiato dalla cavalleria numida del cartaginese, venne salvato miracolosamente dal giovane figlio che si gettò nella mischia da solo, riuscendolo a portare in salvo. Le doti del figlio erano già evidenti.

Il padre propose per il figlio la corona civica, data a chi avesse salvato la vita a un cittadino romano in battaglia, ma il giovane Scipione rifiutò. Nel 216 a.C. prese parte ad un’altra tragica disfatta, forse la più importante della storia per l’esercito romano, a Canne. Fu proprio lui, secondo Livio in qualità di tribuno militare a riorganizzare quel che restava dell’esercito a Canosa; il console più prudente, Lucio Emilio Paolo, era morto in battaglia e Gaio Terenzio Varrone, che aveva voluto la battaglia, era tornato a Roma. Perciò Scipione era tra i più alti in comando se non il più alto (oltre al prestigio che aveva per il coraggio mostrato al Ticino due anni prima). Permise all’esercito di riorganizzarsi e fu durissimo con chiunque volesse abbandonare il campo.

La carriera politica

Nel 213 a.C. venne eletto edile insieme al fratello Lucio, anche contro le rimostranze dei tribuni della plebe secondo cui Scipione non aveva raggiunto l’età necessaria (solitamente gli edili avevano 30 anni, Scipione a 23-24 anni non avrebbe potuto coprire neanche la questura che era la carica precedente a quella di edile). Il futuro Africano assecondò la voce che si era diffusa tra il popolo secondo cui egli parlava con gli dei attraverso i sogni (tanto che quasi due secoli dopo Cicerone scriverà un Somnium Scipionis) e rispose che se i romani lo volevano eleggere edile, allora aveva l’età necessaria. Tuttavia nessuno ebbe il coraggio di candidarsi. Regnava lo sconforto generale nel Campo Marzio, quando il neanche venticinquenne Scipione si offrì volontario:

« Il popolo aveva gli sguardi rivolti ai magistrati ed osservava i volti dei più importanti cittadini, i quali a loro volta si guardavano l’un l’altro. Il popolo fremeva nel vedere quanto la situazione fosse compromessa e disperava della repubblica, tanto che nessuno si arrischiava a presentarsi per ottenere il comando dell’esercito in Spagna, quando all’improvviso P. Cornelio [Scipione], figlio di quel Publio che era morto in Spagna, giovane di appena ventiquattro anni, dichiarò di porre la propria candidatura e si collocò subito in posizione elevata per attirare l’attenzione. Dopo che tutti gli sguardi si rivolsero verso di lui, la moltitudine con grida di simpatia e favore gli augurò senza indugio un comando felice e fortunato. Quando poi si iniziò a votare, tutti fino all’ultimo, non solo le centurie ma i singoli cittadini, deliberarono che il comando supremo militare in Spagna fosse dato a P. Scipione. »

Tito Livio, Ab Urbe Condita Libri XXVI, 18, 6-9

Nel 211 a.C. sia il padre che lo zio Gneo vennero uccisi in guerra in Spagna contro le forze cartaginesi. Lucio Marcio riuscì ad arginare le forze cartaginesi e il senato mandò Gaio Claudio Nerone con nuove forze. Tuttavia venne il momento di sostituire anche lui: si decise di convocare i comizi centuriati per eleggere un proconsole.

Ancora una volta lontanissimo dalla soglia per essere eletto (25 anni contro i 41 necessari), Publio riuscì ad ottenere la carica. Partì come privato cittadino ma dotato di imperium proconsulare. Aveva i poteri di un proconsole ma era un privato cittadino: sostanzialmente lo stesso espediente con cui Augusto cumulò diversi poteri da rendersi imperatore.

Il condottiero vittorioso

In Spagna, nel giro di quattro anni, ottenne risultati straordinari, che lo portarono a cacciare i cartaginesi dall’isola nel 206 a.C., con la schiacciante vittoria di Ilipa. L’anno successivo sarebbe stato eletto console. Eletto console per il 205 a.C., Scipione propose di portare direttamente la guerra in Africa, sebbene Annibale continuasse a vivacchiare in Italia, seppure con una presa sempre più scarsa sul territorio. Nonostante il rifiuto del senato, che voleva prima sconfiggere Annibale, Scipione era deciso a continuare per la sua strada.

Con le legioni sopravvissute a Canne (esiliate in Sicilia finché Annibale non sarebbe stato sconfitto – mentre lo scellerato Gaio Terenzio Varrone era stato prontamente perdonato) e facendo leva sugli entusiasti alleati italici (che non vedevano l’ora di liberarsi della guerra), Scipione mise insieme un esercito. Nel 204 a.C., ottenuto il proconsolato, Scipione, sebbene in netta inferiorità numerica partì per l’Africa, dove venne raggiunto dai numidi di Massinissa: per la prima volta i romani avevano una cavalleria pari o superiore a quella di Annibale. Questi è costretto a tornare precipitosamente in Africa, richiamato, dopo la carneficina dei soldati di Siface a opera di Scipione.

Il vincitore di Annibale

L’esercito romano e cartaginese arrivarono a battaglia a Zama nel 202 a.C: il giorno prima, in un incontro privato, Annibale chiede a Scipione la pace, chiedendo che Cartagine possa mantenere l’Africa e nient’altro, ma il romano rifiuta. Il giorno seguente, Scipione supera il maestro in tattica: l’esercito cartaginese è accerchiato e massacrato, gli elefanti vengono massacrati dai veliti romani e messi in fuga ancora prima di iniziare la battaglia, è la Canne cartaginese.

Busto di Scipione?, Gipsoteca di Copenaghen

Cartagine non ha più alcuna possibilità di resistenza: è costretta ad accettare le durissime condizioni di pace di Roma. Restituzione di tutte le navi da guerra a Roma e tutti gli elefanti; incapacità di dichiarare guerra a chiunque, se non in Africa ma con il permesso romano e pagamento di un’indennità di diecimila talenti d’argento per cinquant’anni, oltre alla cessione in ostaggio di cento giovani cartaginesi. Scipione è fregiato del nome di Africano.

Ritiro a vita privata

Finita la guerra, nel 199 diventò censore, princeps senatus e di nuovo console nel 194. Insolitamente per l’epoca si ritirò a vita privata, ma nel 190 accettò di andare come legato del fratello Lucio e Gaio Lelio (che comandava la cavalleria romana a Zama), entrambi consoli, in Grecia, ad affrontare Antioco III, re dei Seleucidi.

Infatti Antioco III, che voleva conquistare la Grecia, aveva tra le proprie fila Annibale. Per Scipione il cartaginese era la sua nemesi. Nonostante l’Africano fosse ammalato, nel 189 a.C. a Magnesia, in Asia Minore, i romani vinsero. Antioco, pur di compiacere i romani, era disposto a consegnare il cartaginese, che fuggì alla corte del re di Bitinia, Prusia. I romani, tuttavia, ossessionati dal cartaginese, cercarono di assassinarlo, ma prima di riuscirci Annibale si tolse la vita con del veleno. Era all’incirca il 183 a.C.

Nel frattempo Lucio, fratello dell’Africano, aveva ottenuto il soprannome di Asiatico. Publio si ritirò a vita privata in Campania, a Literno, dopo che Catone lo accusò di aver comprato una pace favorevole con il re seleucida Antioco III. Per uno strano scherzo del destino morì anch’egli nel 183 a.C., cinquantenne, ormai distrutto dalle accuse di Marco Porcio Catone che in quello stesso 184 era stato eletto censore. La sua tomba lanciava una forte accusa contro la patria che riteneva lo avesse tradito:

«Ingrata patria, ne ossa quidem mea habes»
«Patria ingrata, non avrai mai le mia ossia»

Valerio Massimo, V, 3, 2

Questo è il ritratto che ne fa Polibio:

« A mio avviso, Publio aveva un carattere e tenne una linea di condotta molto simile a quella del legislatore spartano Licurgo. […] [non dobbiamo credere che] Publio abbia dato alla propria patria un impero del genere, lasciandosi guidare dalle suggestioni di sogni e di presagi. Al contrario, poiché entrambi ritenevano che la maggior parte degli uomini non accettasse facilmente ciò che ha dello straordinario, e neppure avesse il coraggio di affrontare i pericoli senza il benestare degli Dei, […] Publio fece in modo che gli uomini che aveva sotto il suo comando diventassero più coraggiosi e pronti ad affrontare i rischi delle imprese di guerra, convincendoli che i suoi piani fossero ispirati dagli Dei. »

Polibio, Storie, X, 2.8-10

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